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Come implementare il protocollo delle 3C per l’AI: guida operativa



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Il Protocollo delle 3C guida i professionisti dall’uso passivo dell’AI alla sua orchestrazione consapevole, attraverso metodo, critica e sintesi umana. Un processo per restare autori, non spettatori, nell’era dell’intelligenza artificiale

Pubblicato il 28 lug 2025

Gabriele Gobbo

Consulente e docente in digital marketing, divulgatore della cultura digitale



openai devday 2025
Foto di Anggalih Prasetya da shutterstock

Non troppe settimane fa mi è capitato di osservare un collega alle prese con una decisione strategica complessa. Aveva aperto ChatGPT, scritto un prompt dettagliatissimo, ottenuto una risposta di tre pagine e dichiarato: “Perfetto, l’AI ha risolto tutto”. Il problema? Quella risposta, per quanto articolata, era indistinguibile da migliaia di altre che qualsiasi professionista (e forse anche un dilettante) avrebbe potuto ottenere ponendo una domanda simile. Zero valore distintivo, zero profondità critica, zero controllo del processo.

Eppure, quello stesso collega si considera, giustamente, un utilizzatore “avanzato” di intelligenza artificiale. E tecnicamente infatti non ha torto: sa scrivere prompt, conosce le funzionalità dei modelli, ottiene risultati ottimali. Ma sta facendo quello che io chiamo “sonnambulismo digitale” nell’era dell’AI: cammina con sicurezza verso una destinazione che non ha scelto lui. È uno dei tanti sonnambuli digitali che popolano gli uffici, senza nemmeno averne colpa.

Il Protocollo delle 3C nasce proprio per rompere tutto questo. Non è un trucco per risposte migliori, non è una collezione di prompt, soprattutto non è una scorciatoia per risparmiare tempo. È un metodo per trasformarsi da utilizzatori passivi di AI a direttori strategici di un processo decisionale che solo una mente umana può gestire. E come ogni metodo serio, richiede competenza, disciplina e una comprensione chiara di cosa si fa e perché. La differenza tra usare l’AI e orchestrare l’AI è la stessa che passa tra suonare una melodia al pianoforte e dirigere una sinfonia. Nel primo caso, si esegue, spesso benissimo, nel secondo, si crea qualcosa che prima non esisteva.

Ecco come secondo me si può passare dal pianoforte al podio del direttore d’orchestra.

Come iniziare: cosa serve per preparare il protocollo

Prima di tutto, sgombriamo il campo da equivoci: il Protocollo delle 3C non è una questione di quanti modelli AI abbiamo a disposizione, ma di come li utilizziamo. Ovviamente esiste una configurazione minima che richiede almeno tre piattaforme AI, ma la vera differenza la fanno i ruoli che gli assegniamo e la fermezza con cui manteniamo questi ruoli separati, a costo sudare di più e usare più tempo. Non stiamo facendo un parco macchine: stiamo costruendo un “panel di consulenti” con competenze e prospettive diverse, ognuno dei quali deve mantenere la propria identità e il proprio punto di vista, sempre.

Principio di base: ogni lavoro che mettiamo in cantiere deve avere la propria “scatola” separata. Le piattaforme AI offrono funzionalità specifiche per questo: i “Projects” di ChatGPT, i “Knowledge Bases” di Claude, gli “Assistants” personalizzati di altre, scegliete voi. Ogni scatola è un ambiente isolato dove possiamo caricare documenti, definire istruzioni, mantenere la cronologia delle conversazioni e lavorare in modo dedicato su quel singolo ambito. Quindi dobbiamo avere un lavoro e una scatola. Un cliente, una scatola. Un’analisi strategica, una scatola. Questa separazione non è solo organizzativa: è la base metodologica che permetterà ai nostri “specialisti interni” di ragionare in modo focalizzato e contestualizzato, perché sono le piattaforme che useremo per la parte più operativa. Più avanti vedremo anche il compito del consulente super partes, sotto la nostra incrollabile supervisione umana.

(Attenzione: non carichiamo mai file sensibili, informazioni riservate o segreti aziendali in questi ambienti. Le AI rimangono servizi esterni e i nostri dati potrebbero essere utilizzati per addestrare i modelli o essere accessibili a terzi. La sicurezza prima di tutto, sempre.)

Nello sviluppare questo metodo, ho scoperto che la qualità dell’orchestrazione non dipende dal costo o dalla sofisticatezza degli strumenti utilizzati, ma dalla chiarezza dei ruoli assegnati e dal rigore nell’applicazione del processo. Tre modelli AI gratuiti orchestrati con metodo all’interno di scatole ben organizzate, a mio parere, battono sempre dieci licenze enterprise utilizzate senza strategia.

La verità è che orchestrare l’AI non è una moda da LinkedIn, ma una disciplina che separa i Sonnambuli Digitali dai direttori d’orchestra.

Gli specialisti interni: costruire il cervello collettivo

Una volta preparate le “scatole” operative possiamo definire il primo ruolo fondamentale del panel: gli specialisti interni, che non sono semplici modelli AI, ma consulenti a cui diamo deliberatamente accesso completo alla nostra conoscenza relativa al lavoro che stiamo andando a fare. Li alimentiamo con istruzioni precise, knowledge, brief, documenti strategici, esempi passati e linee guida di brand, trasformandoli in entità che conoscono per bene il nostro mondo.

È la differenza, potrei quasi dire, tra chiedere un consiglio per strada e confrontarsi con un nostro collega, che conosce il progetto a cui lavoriamo.

Quindi qui entra in gioco il primo paradosso del metodo: avere due o più specialisti interni che operano dentro lo stesso ambiente, con accesso alle stesse informazioni, non significa ottenere le stesse risposte. Anzi, è esattamente il contrario perché ogni AI, anche quando alimentato con dati identici, sviluppa prospettive diverse basate sulle proprie architetture cognitive e sui propri processi di inferenza. Quello che a prima vista potrebbe sembrare un limite tecnico diventa il primo strumento dell’orchestrazione: la diversità nell’unità. Ovviamente ognuno di noi saprà a che piattaforma dare il compito in base alle proprie esperienze di utilizzo, c’è l’AI più sintetica, quella più analitica, quella più filosofa, e via discorrendo.

L’obiettivo degli specialisti interni non è raggiungere un consenso immediato, ma generare un ventaglio di soluzioni plausibili esplorando direzioni diverse. Quando il primo specialista ci propone una strategia A e il secondo una strategia B, non stiamo assistendo a un errore del sistema: stiamo vedendo all’opera la ricchezza delle possibilità che si nascondono dentro i nostri stessi dati. Probabilmente molti professionisti, di fronte a questa divergenza, scelgono la risposta che conferma le proprie aspettative iniziali.

Ecco perché orchestrare l’AI significa essere felici delle divergenze invece di eliminarle. Sì lo so, sembra controintuitivo, ma questa è la mia verità, mi farete sapere se alla fine sarete d’accordo con me.

Il consulente super partes: l’ignoranza strategica come forza

Se gli specialisti interni rappresentano il cervello del nostro panel, il consulente super partes è l’avvocato del diavolo che dobbiamo mantenere all’oscuro di tutto. Questo terzo incomodo non ha accesso ai nostri file, non conosce i nostri vincoli interni, non sa nulla del contesto specifico in cui operiamo. E proprio questa ignoranza lo rende prezioso: può analizzare le conclusioni degli specialisti interni con la lucidità di chi non è, lasciatemi dire, emotivamente coinvolto nel risultato.

La tentazione, quando configuriamo il consulente super partes, è dargli almeno qualche informazione di contesto per “aiutarlo a capire meglio”. Niente di più sbagliato! Resistiamo a questa tentazione! La sua forza sta proprio nella capacità di valutare le nostre soluzioni dall’esterno, facendo un passo indietro, applicando logiche diverse, ponendo domande che magari non ci faremmo mai. Quando gli specialisti interni convergono su una strategia apparentemente perfetta, il consulente super partes può dire: “Sì tutto molto bello, ma avete pensato che…?” oppure “Questa soluzione funziona solo se…”.

Il consulente super partes non opera in una scatola dedicata come gli specialisti interni, ma in conversazioni dirette e temporanee, in chat vergini. Gli forniamo solo l’output degli specialisti e gli chiediamo di analizzarlo criticamente. Io per prima cosa addestro le chat a darmi sempre e solo la verità, possibilmente in modo brutale. Uso proprio queste parole.

Questo è il momento in cui stimoliamo come dei pazzi l’attrito nel sistema: prendiamo il consenso raggiunto dai nostri consulenti interni e lo sottoponiamo al fuoco incrociato di una prospettiva completamente esterna.

Non stiamo cercando conferme, stiamo cercando crepe nel ragionamento.

Il paradosso del consulente super partes è che spesso le sue osservazioni più focose nascono proprio dalla sua ignoranza. Mentre gli specialisti interni potrebbero non mettere in discussione certe limitazioni aziendali perché le considerano immutabili, il consulente super partes può dire: “Ma perché non rimuovete questa limitazione?” oppure “Avete mai pensato che il vero problema non sia quello?”. Deve produrre domande scomode!

Il valore del consulente super partes non sta nelle risposte che fornisce, ma, appunto, nelle crepe che ci costringe a vedere.

Il protocollo delle 3C in azione: la prima fase, Compare

Ora che abbiamo configurato il panel con specialisti interni e consulente super partes, è tempo di darci da fare: le tre fasi che danno il nome al protocollo. Compare, Challenge, Curate non sono semplici step sequenziali, ma un processo iterativo di raffinamento decisionale che trasforma il caos delle possibilità in strategia consapevole. Come farebbe una mente umana, più o meno, passatemi l’iperbole.

La prima C, Compare, non è “chiedere la stessa cosa a più AI”. È un processo volontario e impegnativo di generazione e confronto di cose diverse che richiede strategia umana nella formulazione delle richieste e faticosa disciplina nell’analisi dei risultati.

L’obiettivo non è trovare la risposta “giusta”, ma scoprire il territorio delle possibilità e delle incertezze che circondano la nostra decisione. E ripeto: nostra!

Il primo errore che ho commesso quando sviluppavo questo approccio era formulare domande sempre identiche agli specialisti interni aspettandomi risposte diverse. Non funziona sempre così. Se vogliamo davvero sfruttare la diversità del panel, dobbiamo essere strategici: quando serve poniamo la stessa domanda di fondo, ma con angolazioni leggermente diverse. Al primo specialista chiediamo: “Qual è la strategia migliore per questo obiettivo?”. Al secondo: “Quali sono i rischi nascosti in questo approccio?”. Al terzo: “Se dovessi fallire, dove fallirei?”.

Stessa questione centrale, prospettive completamente diverse.

La magia del Compare arriva quando iniziamo a incrociare gli output, anche semplicemente con il copia e incolla, dicendo sempre da chi arriva. Prendiamo la strategia proposta dal primo specialista e la incolliamo nel secondo: “Analizza questa strategia e dimmi cosa ne pensi.” Poi portiamo l’analisi critica del secondo al terzo: “Considerando questi rischi, come modificheresti l’approccio originale?”. Non cerchiamo conferme: forziamo un dialogo tra intelligenze che, da sole, resterebbero mute. Ogni passaggio aggiunge un livello di profondità che nessuna singola AI potrebbe raggiungere. Capisco non sia intuitivo e soprattutto non sia facile e veloce, ma qui non cerchiamo scorciatoie, ma “roba buona” e meno artificiale possibile. Siamo noi a comandare.

Ma attenzione: il Compare non è una democrazia dove vince la maggioranza. Quando due specialisti convergono su una soluzione e il terzo dissente, il dissenso non va ignorato: va sfruttato. Spesso le soluzioni più innovative nascono proprio dalle prospettive in minoranza, da quegli output che potremmo considerare “sbagliati” ma che invece rivelano intuizioni preziose. La tentazione è sempre quella di seguire il consenso, ma il valore del Compare sta nel resistere alle tentazioni.

Le decisioni migliori nascono dall’attrito, non da yes men che ci fanno sentire felici e soddisfatti.

Challenge: stress test per distruggere le certezze

Il Compare ci ha dato la nostra tesi migliore: gli specialisti interni hanno raggiunto una convergenza, magari dopo qualche litigio iniziale, e ora abbiamo in mano quella che sembra essere la strategia più solida basata sulla nostra conoscenza interna.

È proprio questo il momento più pericoloso dell’intero processo. Non perché la strategia sia sbagliata, ma perché siamo convinti che sia giusta.

La seconda C, Challenge, è il momento in cui andiamo dal cattivissimo consulente super partes a fare quello per cui lo abbiamo tenuto all’oscuro di tutto: distruggere le nostre certezze con la lucidità di uno a cui, scusate la sincerità, non interessa nulla di noi. Gli forniamo solo l’output finale del Compare, senza contesto, senza spiegazioni, senza giustificazioni e gli diciamo: “Ecco la strategia che abbiamo elaborato. Analizzala e dimmi cosa ne pensi.”

Qui si gioca la differenza tra orchestrazione e automazione, fra questo protocollo e gli agenti AI. Un processo automatico si fermerebbe alla convergenza degli specialisti interni: consenso raggiunto, problema risolto. L’orchestrazione invece sa che il vero lavoro inizia proprio quando pensiamo di aver finito. Il consulente super partes non ha accesso ai nostri ragionamenti, non conosce i nostri vincoli, non sa perché abbiamo scartato certe opzioni. E proprio questa ignoranza lo rende chirurgico nell’individuare i punti deboli che noi, immersi nel nostro contesto, non riusciamo più a vedere. Oppure individua i punti di forza, che lo saranno davvero.

La tentazione, quando il consulente super partes inizia a smontare la nostra strategia perfetta, è difenderla: “Sì, ma tu non capisci che noi abbiamo questa regola…” oppure “Non puoi dirlo senza conoscere il contesto…”. Resistiamo a questa tentazione. Resistiamo!

Il Challenge non è un dibattito, è una radiografia.

Dobbiamo bramare crepe strutturali. Ogni obiezione che ci fa arrabbiare è probabilmente quella che dovremmo ascoltare. Il paradosso del Challenge è che le critiche più devastanti sono le più preziose. Quando il consulente super partes dice “Hai considerato che questa strategia potrebbe fallire se cambia X?”, non sta facendo il guastafeste: sta testando la robustezza della nostra soluzione contro scenari che non avevamo visto. La vera domanda non è se ha ragione o torto, ma se la nostra strategia sopravvive alla sua ignoranza strategica.

Perché se non sopravvive al Challenge, difficilmente potrà sopravvivere alla realtà.

Curate: rivendicare l’autorialità nella sintesi finale

Finalmente, abbiamo tutto: la ricchezza delle prospettive dal Compare, le crepe e i punti di forza del Challenge, un bel po’ di tempo investito e un mucchio di materiale grezzo che sembra più un campo di battaglia che una strategia coerente. È qui che entra in gioco la terza C, la più delicata e la più umana di tutte: Curate. Questo è il momento in cui smettiamo di essere orchestratori di macchine e torniamo a essere quello che solo noi possiamo essere: decisori strategici con esperienza, immaginazione, visione, etica e soprattutto responsabilità finale. Lo dico da sempre, il pulsantone finale non può e non potrà mai premerlo una AI, e nemmeno tre.

Il Curate non è un algoritmo. Mi dispiace, ma non esiste una formula che trasforma automaticamente l’output delle prime due fasi in una decisione perfetta. È l’applicazione del nostro giudizio professionale a tutto il materiale che abbiamo generato e testato. Prendiamo le intuizioni più acute emerse dal confronto tra specialisti, integriamo le obiezioni più solide del consulente super partes, e le filtriamo attraverso la nostra conoscenza del contesto reale, delle cose non negoziabili, delle opportunità che solo noi umani possiamo vedere. La tecnologia deve essere umanocentrica, sempre, come dico nel mio libro Digitalogia, non possiamo e non dobbiamo mai e poi mai abdicare al digitale e farlo decidere per noi.

La tentazione, questa volta, è delegare anche la curatela: “Facciamo scegliere all’AI quale tra tutte queste opzioni è la migliore”. È l’errore più grave che possiamo commettere. Forse lo avete notato, il mio metodo è pieno di tentazioni!

Il Curate è il momento in cui rivendichiamo la nostra autorialità, in cui trasformiamo un processo di consultazione in una decisione con una firma precisa, di persona in carne ed ossa e… cervello. Non stiamo mediando tra opinioni, stiamo scegliendo consapevolmente cosa tenere, cosa buttare via e cosa modificare, grazie all’esperienza, l’intuito, la visione strategica, l’etica professionale.

Il risultato del Curate non è mai una semplice somma degli input ricevuti. È una sintesi originale, reale, umana che porta la nostra impronta distintiva, qualcosa che nessun’altra persona, usando lo stesso metodo con gli stessi strumenti, potrebbe replicare identicamente, ed è qui il bello. Ecco la differenza tra usare l’AI e orchestrarla: alla fine, la partitura è nostra, solo nostra e porta la nostra firma.

Il Protocollo delle 3C non ci rende più efficienti: ci rende irreplicabili. E in un mondo dove l’AI può fare tutto, essere irreplicabili è l’unico grande vantaggio competitivo che ci rimane.

Oltre le 3C: l’umano al centro della strategia

Se vi state chiedendo perché tutto questo lavoro, perché non limitarsi a un prompt ben scritto o a una AI particolarmente sofisticata, la risposta è semplice ma non banale: il Protocollo delle 3C non è un metodo per ottenere risposte migliori dall’intelligenza artificiale. È un metodo per rimanere umani in un mondo che ci spinge sempre di più verso il sonnambulismo digitale.

Ogni fase del protocollo è progettata per mantenere attivo quello che le macchine non possono replicare: il nostro giudizio critico, la nostra capacità di sintesi creativa, la nostra responsabilità etica nelle decisioni strategiche. Quando configuriamo le “scatole” separate, stiamo esercitando la disciplina organizzativa. Quando mettiamo in discussione il consenso apparente, stiamo coltivando il pensiero critico. Quando curiamo la sintesi finale, stiamo rivendicando la nostra autorialità professionale.

Non stiamo automatizzando il processo decisionale: lo stiamo amplificando mantenendone saldamente il controllo.

L’alternativa è quello che vedo ogni giorno negli uffici: persone che si illudono di essere più produttivi perché ottengono risposte immediate dall’AI, senza rendersi conto che stanno delegando progressivamente la capacità di pensare. Accettano il primo output coerente, si fidano del consenso artificiale, perdono l’abitudine a mettere in discussione le proprie conclusioni. Diventano, letteralmente, Sonnambuli Digitali: eseguono processi che sembrano intelligenti ma hanno rinunciato a dirigerli.

Il vero valore del Protocollo delle 3C per l’AI non sta nella velocità operativa, ma nella resistenza intellettuale. È un sistema di allenamento continuo per mantenere attive le competenze che ci rendono insostituibili: la capacità di orchestrare prospettive diverse, di accogliere il dissenso come risorsa strategica, di essere pronti al disastro, di trasformare l’incertezza in decisioni consapevoli. Ogni volta che applichiamo il metodo, stiamo facendo quello che solo gli esseri umani sanno fare: pensare contro noi stessi per pensare meglio.

La domanda quindi non è se questo metodo ci farà lavorare più velocemente, ma chi tra dieci anni conterà davvero: quelli che avranno imparato a delegare sempre di più alle macchine, o quelli che avranno imparato a dirigerle mantenendo la propria centralità umana?

Il Protocollo delle 3C è la mia scommessa su questa seconda possibilità. Non è un metodo per usare meglio l’AI: è un metodo per non farsi usare dall’AI. Alla fine, orchestrare le macchine non è questione di tecnica. È questione di carattere.

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