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Dispotismo e terrapiattismo: la deriva culturale del digitale



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Il dispotismo digitale trasforma cittadini in consumatori passivi di contenuti filtrati. Algoritmi e piattaforme concentrano potere informativo, sostituendo il pensiero critico con narrazioni semplificate che minacciano le basi della democrazia contemporanea

Pubblicato il 1 ott 2025

Marino D'Amore

Docente di Sociologia generale presso Università degli Studi Niccolò Cusano



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Un’analisi di due fenomeni apparentemente distinti, ma strettamente connessi – il dispotismo digitale, inteso come delega di funzioni cognitive, decisionali e politiche a sistemi tecnologici, e il terrapiattismo digitale, interpretato come la diffusione legittimata di narrazioni semplificate, spesso cospirative, che riducono la complessità del mondo a schemi semplicistici e rassicuranti – ci aiuta a comprendere come la banalizzazione polarizzata possa favorire la regressione culturale.

Il dibattito pubblico sull’innovazione digitale è stato focalizzato per lungo tempo su promesse di emancipazione, democratizzazione dell’informazione e ampliamento delle capacità cognitive collettive, tuttavia, l’esperienza pratica mostra un altro aspetto: la tecnologia da vettore di libertà finisce per accentrare potere verso i medesimi soggetti (big tech, stati, ecosistemi proprietari), mentre gli individui perdono capacità decisionali, abbandonando pratiche critiche in favore di scorciatoie funzionali.

Tale delega, voluta, subita o inconsapevole, incarna nel fenomeno del dispostismo digitale. Parallelamente, la cultura digitale veicola forme di semplificazione emozionale: narrazioni virali, memi, teorie complottiste e versioni ipersemplificate della realtà che creano comunità forti ma, al contempo, epistemicamente fragili. Questo insieme di elementi si definisce come una sorta di terrapiattismo digitale, inteso come tendenza non relegata esclusivamente al mito della terra piatta, ma come processo di conversione della complessità in verità assolute e riduzioniste.

La fiducia crescente nelle piattaforme e negli assistenti automatici depaupera l’esercizio critico, mentre l’estrema velocità della comunicazione favorisce schemi narrativi semplici e polarizzanti che causano la perdita della capacità di argomentazione, l’indebolimento del confronto e il contestuale aumento della vulnerabilità politica e sociale.

Sorveglianza e dominio nell’ecosistema digitale

I fenomeni sopracitati richiamano almeno tre tradizioni teoriche: la teoria critica della sorveglianza e del capitalismo comportamentale; la teoria della razionalizzazione e dell’alienazione e le analisi contemporanee su dominio algoritmico e «feudalesimo dei dati».

Shoshana Zuboff ha coniato il concetto di surveillance capitalism per descrivere la trasformazione dell’esperienza umana in materia prima, sfruttata per predire e manipolare comportamenti (zuboff, 2019). Tale processo sposta potere decisionale dalle persone verso sistemi che raccolgono, profilano e monetizzano scelte, bisogni e aspettative, la conseguenza non è solo economica ma, come spiegato epistemica: quando il comportamento diventa predetto e indirizzato, l’incertezza su cui si fondano molte pratiche collettive si riduce artificialmente, minando l’autonomia deliberativa. (Zuboff, 2019).

Definizioni operative di dispotismo e terrapiattismo digitale

Weber ha descritto la modernità come un processo di razionalizzazione che costruisce una «gabbia d’acciaio» regolata da procedure, calcoli e burocrazia; oggi questa gabbia si attualizza attraverso architetture algoritmiche, non soltanto regole formali, ma codici che determinano visibilità, valore e accesso alle informazioni (Weber, 1922). La conseguenza è duplice: a livello individuale si indebolisce la capacità di comprensione tecnico-critica; a livello sociale si consolidano gerarchie emergenti definite da chi controlla i metadati e l’economia dell’attenzione. Il concetto di digital despotism o dispostismo digitale attinge da questa linea critica e ne sviluppa una versione politica: la tecnologia non è neutra, ma può essere strumento di manipolazione ontologica e cognitiva quando incorpora pratiche che riducono la capacità degli individui di deliberare e auto‑governarsi (Bhorat, 2023). La letteratura recente sottolinea che il pericolo non è solo la sorveglianza statale, ma forme ibride di dominio emergenti dall’intersezione tra aziende private, governance algoritmica e pratiche d’uso quotidiane. Infine, l’idea di datafeudalism o feudalesimo dei dati descrive una fase in cui piattaforme e ecosistemi digitali agiscono come signori feudali che detengono spazi informativi, instaurando rapporti di dipendenza e controllo nei confronti di utenti, istituzioni e mercati (Saura García, 2024). Tale modello spiega come la delega tecnologica si traduca nella cristallizzazione di rapporti di potere estremamente gerarchizzati, duraturi e non facilmente riformabili tramite la normazione tradizionale.

Il dispotismo digitale rappresenta un processo, tecnico e sociale, che conduce alla delega massiva di funzioni cognitive, valutative e decisionali a sistemi tecnologici (algoritmi, piattaforme, assistenti), accompagnata dalla concentrazione di potere nelle mani di attori che, come spiegato, controllano dati, infrastrutture e regole di visibilità. Tale processo ha implicazioni ontologiche (chi possiede il «dato»), cognitive (chi decide cosa è rilevante) e politiche (chi definisce l’agenda) (Bhorat, 2023). Il terrapiattismo digitale, invece, si configura come un insieme di pratiche cognitive e discorsive che privilegiano spiegazioni semplici e definitive, spesso immuni alla verificabilità e alla falsificazione, che prosperano in ecosistemi informativi caratterizzati da una netta selezione algoritmica per engagement e da una forte polarizzazione emotiva. Si attua, insomma, una dinamica che non si limita alla «terra piatta» come dottrina, ma include ogni narrazione che converte ieraticamente la complessità in dogma semplificato (Landrum & Olshansky, 2019). Tali definizioni non si palesano come etichette moralistiche ma descrivono meccanismi profondamente interconnessi: la delega digitale alimenta la formazione di bolle epistemiche e di comunità che reagiscono alla complessità con miti e semplificazioni; le narrative semplici, a loro volta, facilitano, secondo un mero meccanicismo, l’adozione di tecnologie che promettono risposte rapide e rassicuranti.

Come la tecnologia favorisce delega e semplificazione

Le piattaforme monetizzano l’attenzione e premiano contenuti che massimizzano il tempo di visualizzazione e la partecipazione emotiva. Tutto ciò crea incentivi sistemici a produrre contenuti divisivi ed estremamente semplificati, perché funzionali alla causa e, in questo modo, la moltiplicazione di segnali che detronizzano il ragionamento (like, share, view) converte il valore epistemico in valore di mercato. Gli algoritmi che filtrano e raccomandano informazioni sono spesso poco trasparenti: utenti e persino esperti di settore possono avere difficoltà a capire perché un contenuto è stato reso visibile: l’utente tende a fidarsi della piattaforma che «mostra» ciò che è rilevante, senza interrogarsi su criteri e metriche. La ricerca mostra che i sistemi di selezione possono condurre i fruitori verso contenuti sempre più estremi o affini alla loro emotività, creando percorsi di radicalizzazione informativa. Gli assistenti digitali, i motori di ricerca e gli aggregatori offrono risposte rapide: l’utente medio, sotto pressione di tempo e sovraccarico informativo, tende a preferire risposte sintetiche e immediate. questo processo riduce l’uso di competenze critiche e la pratica argomentativa, favorendo la dipendenza da fonti immediate e dedicate piuttosto che dalla verifica (O’ Connor, Weatherall, 2022).

Dinamiche psicologiche e sociali del terrapiattismo digitale

Il fenomeno del terrapiattismo viene spesso derubricato come mera ignoranza, ma le ricerche sociologiche mostrano che la scelta di credere a narrazioni semplificate è legata a fattori psicologici, sociali e istituzionali: ricerca di senso, costruzione identitaria, sfiducia nelle istituzioni e bisogno di comunità (Arendt, 1961). in questo senso i movimenti terrapiattisti diventano esempi paradigmatici di come si costruisce fiducia sociale su basi non-epistemiche.

La semplificazione risponde anche a bisogni emotivi: offrire spiegazioni nette riduce l’ansia dell’incertezza e rafforza legami di gruppo. Le piattaforme digitali forniscono gli strumenti per creare e mantenere comunità di significato alternative alle istituzioni tradizionali (chiesa, scuola, media), contribuendo così alla diffusione di visioni banalizzanti e impermeabili alla smentita. In questo senso la democrazia deliberativa richiede cittadini capaci di valutare informazioni, pesare argomenti e partecipare al dibattito pubblico, la delega digitale riduce queste capacità, spostando la responsabilità di filtrare e interpretare l’informazione a soggetti privati o a sistemi automatici.

La semplificazione, come detto, accentua la polarizzazione: storie nette favoriscono ampie identità contrapposte, rendendo più difficile il dialogo e aumentando la probabilità di conflitti simbolico-culturali. Quando il controllo dell’informazione è concentrato in poche piattaforme e la popolazione perde capacità critica, emergono spazi per forme morbide di autoritarismo: manipolazione dell’opinione pubblica, sospensione del dissenso e uso strategico di tecnologie per orientare comportamenti sociali, questa è la dimensione politica del dispotismo digitale. (Delfanti, Ardvisson, 2024).

Strategie di contrasto: educazione, progettazione e regolazione

Contrastare dispotismo e terrapiattismo digitale richiede azioni su più livelli: educativo, progettuale e normativo, non basta l’insegnamento tecnico: è necessaria una alfabetizzazione che integri competenze critiche, etiche e affettive, cioè la capacità di riconoscere bias, capire incentivi delle piattaforme e gestire emotivamente la sovraesposizione informativa. Programmi scolastici e azioni di lifelong learning dovrebbero enfatizzare metodo scientifico, logica argomentativa e riconoscimento delle strategie persuasive. (Chourio-Acevedo et al. 2024). Le piattaforme possono essere ricalibrate per mitigare i meccanismi che favoriscono la semplificazione e la polarizzazione: maggiore trasparenza degli algoritmi, strumenti per ritardare o rendere meno automatico il flusso di raccomandazioni, ranking temporale alternativo, e opzioni che favoriscano la diversità informativa piuttosto che l’engagement puro. Interventi di «design for deliberation» possono riabilitare spazi pubblici digitali più trasparenti. Normative come il Digital Services Act (dsa) nell’Unione europea e altre iniziative di audit indipendente possono essere utili a riconoscere responsabilità delle piattaforme e a garantire chiarezza sui meccanismi che strutturano l’informazione pubblica. Tuttavia, la regolazione deve essere accompagnata da strumenti di empowerment civico per evitare sostituzioni autoritarie della deliberazione popolare. (dibattiti su regolazione e antitrust). All’interno di questo iter analitico è importante non cadere in determinismi dogmatici: la tecnologia plasma ma non determina in modo univoco il comportamento sociale; molte realtà resistono alla semplificazione e alla delega: movimenti civici, giornalismo indipendente, comunità scientifiche palesano una robusta resilienza. Inoltre, molte piattaforme hanno introdotto correttivi e strumenti di moderazione, anche se spesso, purtroppo, insufficienti o contraddittori (Bhorat, 2023).

Un altro limite consiste nella difficoltà di misurare la «regressione culturale» in termini empirici: occorrono indicatori efficaci per valutare la perdita di capacità argomentativa, la diminuzione della partecipazione e l’aumento della vulnerabilità che rende persuasive le narrative semplificate, in questo senso la ricerca dovrebbe sviluppare sistemi di misura interdisciplinari che integrino sinergicamente metodi qualitativi e quantitativi dedicati (O’ Connor, Weatherall, 2022).

Rischi e possibilità per la democrazia contemporanea

La riflessione sul dispotismo e sul terrapiattismo digitale mette in evidenza una dinamica complessa e, allo stesso tempo, preoccupante: la progressiva sostituzione della capacità critica individuale con forme di pensiero delegato e semplificato: in un ecosistema mediatico dominato da piattaforme centralizzate, il cittadino si trova sempre più spesso in una posizione di consumatore passivo di contenuti filtrati, per confermare pregiudizi e assecondare inclinazioni cognitive (Zuboff, 2019). Questa condizione, lungi dall’essere neutra, agisce come una vera e propria infrastruttura del potere informativo, dove la concentrazione delle leve comunicative nelle mani di pochi attori, i “feudatari” digitali, rende possibile un controllo sottile, continuo e spesso invisibile (Saura García, 2024).

Il fenomeno del terrapiattismo digitale non rappresenta una curiosità marginale, ma è il sintomo di una regressione culturale che si manifesta nel rifiuto delle competenze esperte e nel privilegio fideistico accordato a narrazioni semplicistiche e complottiste.

Il successo di queste narrazioni non risiede in un’ignoranza intrinseca e eziologica, ma deve essere ricondotto alla logica algoritmica che premia contenuti polarizzanti, emotivamente carichi e facili da assimilare (Delfanti, Ardvesson, 2024). In questo senso, il problema non è soltanto epistemologico ma strutturale: riguarda il modo in cui l’architettura tecnica dei media digitali interagisce con le predisposizioni cognitive e sociali degli utenti. Il rischio maggiore, dal punto di vista sociologico, non è solo quello di un’informazione distorta, ma di una cittadinanza ridotta a mere ritualità partecipative di facciata, dove la condivisione e il “mi piace” sostituiscono la deliberazione e il confronto pubblico (Villar-Onrubia et al., 2022). Il dispotismo digitale funziona perché si innesta su una cultura già abituata alla delega, in cui le scelte sono esternalizzate a meccanismi poco trasparenti: motori di ricerca, feed personalizzati, assistenti virtuali, che agiscono da mediatori totali della realtà percepita (Bhorat, 2023).

La regressione culturale non è però un destino inevitabile. Ricerche recenti mostrano che interventi di alfabetizzazione digitale critica, soprattutto se introdotti nei contesti educativi fin dai primi livelli scolastici, possono aumentare la capacità degli individui di riconoscere manipolazioni, disinformazione e contenuti artificiali, come i deepfake (Geissler et al., 2025).

Tuttavia, perché tali interventi siano efficaci, devono essere accompagnati da un rafforzamento delle competenze civiche e dalla promozione di una cultura della “lentezza informativa”: la capacità di fermarsi, verificare, discutere e riformulare opinioni sulla base di evidenze verificabili (Rowsell, 2025). In prospettiva, la sfida principale non è tanto quella di “combattere” i terrapiattisti digitali o di “demolire” le loro narrazioni, quanto di ricostruire spazi di senso condiviso e strumenti di comprensione complessa della realtà. Ciò implica una ridefinizione delle politiche educative, un ripensamento delle architetture tecnologiche e, soprattutto, un impegno collettivo a riappropriarsi della propria autonomia cognitiva, senza questa riappropriazione, il rischio è che la combinazione tra dispotismo digitale e terrapiattismo digitale diventi un dispositivo permanente di regressione culturale, capace di erodere le fondamenta stesse della cognizione antropica e della democrazia contemporanea.

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