filosofia e digitale

Etica relazionale e nuove tecnologie: le conseguenze morali del postumanismo

Il postumanismo è una filosofia ecologica che legge l’umano ponendone in rilievo la natura ibrida e costellata di sovrapposizioni con il non-umano: considera perciò anche il sentimento e l’influenza della tecnoscienza, che vengono in genere ignorati dall’etica umanistica, perché ritenuti presenze spurie

Pubblicato il 31 Mar 2021

Roberto Marchesini

etologo e fondatore della zooantropologia

humandigital

Il pensiero postumanista ci chiede di fare alcune metamorfosi concettuali non sempre d’immediato accesso per i suoi risvolti epistemologici, ontologici ed etici. Sbaglieremmo, pertanto, nel credere che la filosofia postumanista semplicemente si occupi di nuove tecnologie e di come l’essere umano stia cambiando sotto la spinta di queste.

Come la macchina ci trasforma: l’approccio post-umanista per capire il presente

La filosofia postumanista

La filosofia postumanista pone al centro del dibattito l’essere umano nelle sue relazioni con il mondo, evitando quella visione autarchica e disgiuntiva che ha caratterizzato l’età moderna. È pertanto una filosofia ecologica che legge l’umano attraverso una focale eco-ontologica, cioè ponendo in rilievo le relazioni e le condivisioni, la natura ibrida e costellata di sovrapposizioni con il non-umano. Secondo il mio pensiero, già espresso a suo tempo nel saggio Post Human (2002, Bollati Boringhieri), siamo sempre stati postumani, perché i nostri predicati sono qualità condivise e ibride. L’essere umano non è mai stato un’entità pura, nel senso di aderire esclusivamente a se stessa. Inoltre, già nell’utilizzo dei primi strumenti litici, ha trasformato il proprio corpo in un campo di trasformazioni morfo-funzionali. Solo un pregiudizio ci ha consentito di credere che gli strumenti fossero esterni.

Il concetto di purezza

Partiamo, allora, dal concetto di purezza. L’evoluzionismo, in questi ultimi 160 anni dalla pubblicazione dI On the Origin of species, è diventato un laboratorio di riflessioni, che ha sancito il superamento dell’antropocentrismo ontologico. Nel pensiero darwiniano ogni specie non è l’espressione di un’essenza, ma l’ultimo tratto di un percorso d’immersione in progenitori comuni. Ricaviamo così che la maggior parte dei predicati umani sono sorti prima della comparsa di Homo sapiens e sono condivisi con altre specie (omologie). La specie, in definitiva, non è mai una monade, perché le diverse umwelten sono sovrapposte, a causa delle omologie.

Cade, perciò, la pretesa di vedere l’essere umano come qualcosa di diverso dagli altri animali: l’umano è una tra le tante possibili declinazioni dell’animalità. Questa conseguenza mette in discussione tutte le dicotomie del pensiero umanista, basate sulla diversa condizione dell’umano. Questo, tuttavia, non significa negare le peculiarità della nostra specie, ma rigettare la visione oppositiva dell’animalità. Tra le conseguenze più importanti di questo cambiamento di paradigma c’è il superamento della dicotomia tra naturale e artificiale, perché:

  • anche il vivente è un artefatto, essendo il prodotto di un processo di costruzione;
  • anche l’azione dell’uomo si configura come una costruzione di nicchia.

L’uomo è un artefatto, perché non aderisce a un’essenza che lo rende ontologicamente diverso, ma è un momento del flusso del vivente.

L’essere umano è stato confezionato dalle pressioni selettive e le sue espressioni, anche le più alte, sono frutto della sua animalità.

Di conseguenza, partendo dall’impostazione evoluzionistica, l’essere umano viene visto come un processo e non come un’essenza, vale a dire la formalizzazione, peraltro in corso, di una storia che fa convergere peculiarità, cioè specializzazioni e non universali, e condivisioni con altre specie. Si tratta di due slittamenti importanti che mettono in mora alcuni fondamenti del pensiero umanista, con conseguenze a pioggia su quell’architettura dicotomica che ritroviamo quale brainframe in ogni argomentazione posizionale dell’umano e dei suoi rapporti con il mondo. Considerare l’uomo come l’esito di una storia di specializzazione significa, infatti, togliergli quella dimensionalità assoluta e universale che pretende di porre l’intelligenza umana, la ragione e la razionalità come sguardo neutro sulla realtà. Riprendendo, al contrario, il concetto di umwelt, potremmo dire che il mondo, quale ci appare, sia piuttosto il frutto emergenziale dell’organizzazione di un preciso piano-di-realtà che, per quanto non arbitrario, non può nemmeno limitarsi a essere definito parziale.

La teoria dell’incompletezza

Seguendo Darwin, si comprende quanto sia errata la teoria dell’incompletezza di Arnold Gehlen, poiché la tecnica non è compensativa di una mancanza a-priori, ma generativa d’ibridazioni. Non essendo un esonero ma un’ibridazione, la tecnica non supplisce bensì produce una mancanza o, meglio, accende una percezione di carenza che tende ad accrescere ancor più la tecnopoiesi e quindi il bisogno copulativo dell’essere umano con il mondo esterno. Mentre la classica concezione compensativa della tecnica andava a sviluppare un’etica dell’appropriazione, incentrata sull’individuo, la consapevolezza postumanista del significato copulativo della téchne ci porta verso un’etica della relazione. Ecco, allora, che altre dicotomie, per loro natura disgiuntive e oppositive, tendono a decadere, come : i) invenzione vs scoperta; ii) cultura vs natura; iii) mente vs corpo; iv) organo vs protesi. Solo apparentemente questa elevazione dello strumento a partner e detta assimilazione dell’artificiale nel naturale allontanano l’essere umano dal dominio dell’animalità, perché è proprio la decadenza del dualismo cartesiano che ci mostra l’incongruenza, non solo ontologica, di fondare un’etica disincarnata.

Il postumanismo produce inevitabilmente uno slittamento epistemologico, perché riporta la conoscenza nei territori dell’animalità-interessata, quindi mossa da motivazioni inerenti che producono le specifiche coordinate di copula con il mondo. Sbagliamo, infatti, se riteniamo la umwelt come semplice immersione nel contesto-mondo, da alcuni persino banalizzata come percezione di mondo, perché essa si traduce in un percepire-operare rispetto al mondo, ma si basa su un orientamento che è prima di tutto disposizionale, cioè interessato. Ogni essere vivente, nel suo essere diversamente predisposto a salvaguardare particolari interessi inerenti, non vede perciò una parte della realtà ma, ponendo il possibile su una matrice riorganizzativa, letteralmente crea un panorama specifico. In questa prospettiva il reale si limiterebbe a definire il range del possibile, al cui interno tuttavia si possono realizzare infinite ricomposizioni, più o meno distorsive in virtù di enfatizzazioni per certi versi e adombramenti di altri.

Ciò significa che i piani alti del nostro sguardo sul mondo – quelli su cui l’umanismo punta per fondare gli strumenti posizionali, da cui la capacità di affidare le nostre scelte alla razionalità – poggiano, viceversa, su quegli interessi inerenti preriflessivi che caratterizzano la nostra specializzazione evoluzionistica. Non esiste, pertanto, un’etica disincarnata perché la nostra ragione poggia e si nutre dei sentimenti, è cioè alimentata dall’animalità e non da una presunta oggettività. Riportare l’umano a declinazione dell’animalità e i predicati a emergenza copulativa, significa saper fare i conti con le disposizioni della natura umana, senza infingimenti di facciata, e comprendere altresì che ogni processo d’ibridazione non si limita semplicemente a potenziare le prestazioni dell’uomo, ma provoca degli slittamenti profondi di prospettiva che vanno tenuti nella massima considerazione. Questi due fattori, il sentimento da una parte e l’influenza della tecnoscienza, vengono solitamente ignorati dall’etica umanistica, perché ritenuti presenze spurie, al limite contrastative del giudizio razionale.

Il fallimento dell’etica basata sulla ragione

Possiamo facilmente osservare il fallimento di un’etica esclusivamente basata sulla ragione, nel suo non essere in grado di permeare le grandi scelte delle politiche mondiali e nemmeno d’informare l’azione individuale. Non esiste, infatti, un bene assoluto, perché il bene fa sempre riferimento a un per-Sé, vale a dire a una valutazione soggettiva profondamente radicata nell’affettività. Con l’ausilio della ragione possiamo individuare dei limiti alla condotta e saltuariamente tenerne conto, ma di certo è impossibile promuovere una moralità allargata, necessariamente basata su una prescrizione proattiva, bypassando il coinvolgimento dell’individuo. I disastri ecologici che sono davanti ai nostri occhi e che continuano a essere perpetuati al di là dei proclami, dimostrano l’incapacità di attivare atteggiamenti di dedicazione morale, cioè di chiamata all’azione sul problema. La negligenza è già un fallimento etico. L’estinzione di molte specie, non solo in posti esotici e lontani ma anche nei territori che abitiamo, dimostrano quale impatto abbia la noncuranza, l’accidia morale, quell’atteggiamento che non è in grado di sollecitarci un cambio di passo nei nostri comportamenti.

La società rurale di cento anni fa, per quanto non sensibilizzata circa i problemi ecologici, era in realtà più attenta e più proattiva verso il rispetto degli equilibri ecosistemici, a differenza dell’impostazione prevalentemente urbana che ha caratterizzato l’agrozootecnia industriale, nata all’interno delle Accademie degli anni ’50. Prestiamo attenzione all’estinzione del panda, grazie alla sollecitazione dei nostri sentimenti, e non ci accorgiamo, al contrario, che migliaia di specie intorno a noi stanno scomparendo e soprattutto che sono le relazioni ecologiche a smagliarsi.

L’allerta della filosofia postumanista

La filosofia postumanista, mettendo l’accento sulla soggettività e quindi sulla parzialità del giudizio umano, a differenza della fiducia illuministica sulla ragione, in linea con le considerazioni di Konrad Lorenz sui limiti della prospettiva della nostra specie, ci mette in guardia su questi rischi.

Il secondo fattore su cui insiste la filosofia postumanista riguarda gli slittamenti che la tecnologia pone sulla prospettiva umana, facendo emergere nuovi piani di realtà e conseguenti copulazioni impreviste. Credo che continuare a pensare alla tecnologia solo come opportunità sia un grosso errore, non per una sorta di neoluddismo o tecnofobia, quanto piuttosto perché ogni tecnopoiesi inaugura nuove dimensioni esistenziali e occorre saper fare i conti con tale aspetto dimensionale, tutt’altro che semplicemente potenziativo, come ho avuto modo di illustrare nel saggio Tecnosfera (2017, Castelvecchi). Una tecnologia non si limita mai a estendere una funzione o a potenziare un predicato, com’è fuorviante pensare che il feedback sull’organo sia semplicemente depotenziativo o amputativo. Le conseguenze di una tecnopoiesi s’irradiano ad alto spettro, modificando il piano di copula dell’essere umano e quindi la sua prospettica. Ci sono le conseguenze dell’ampliamento della responsabilità, come sostenuto da Hans Jonas, ma anche questo è solo una minima parte degli slittamenti etici che si vengono a dipanare.

L’etica relazionale non si riferisce, infatti, a un umano autoreferenziale o esclusivamente rivolto all’umano, ma al piano di copula dell’essere umano, un piano che risente di condivisioni, di dipendenze, di slittamenti operati dal rapporto con le alterità. Il ragionamento condivisivo parla di sovrapposizione tra umano e nonumano, nonché di reciproca dipendenza tra i due termini. In quest’ottica l’essere umano non è un’entità disgiunta del fiume della vita, perché riconosce in sé predicati non esclusivi e che lui stesso ha ereditato da entità che l’hanno preceduto; di conseguenza, comprende la propria dipendenza dalle reti ecologiche della biosfera.

L’essere umano non è destinato alla verticalizzazione rispetto al vivente non può salvarsi da solo, come in una scialuppa di salvataggio – perché la sua ontologia non si realizza nell’emancipazione dalla natura e tanto meno nella disgiunzione dalle reti della vita. In questo senso il postumanismo si presenta come una sorta di ecologia filosofica, capace di trasformare il dato naturalistico in un principio capace d’illuminare la dimensione esistenziale dell’essere umano.

Conclusioni

La biosfera non è semplicemente casa, ambiente di vita, ma al contrario è flusso che sostiene i nostri predicati, dove il corpo individuale non è altro che un tessuto connettivo che ci collega orizzontalmente alle trame del vivente e diacronicamente al passato filogenetico. Questo significa superare quel ragionamento specioso, ancora purtroppo in auge in alcune riflessioni dell’antropologia filosofica, che l’essere umano sia un’entità incompleta o priva di specializzazioni filogenetico-adattative, in barba a un’analisi descrittiva del corpo umano, che dimostra esattamente il contrario, e dei principi stessi dell’evoluzionismo, in ossequio ai quali è impossibile l’incompletezza o la non specializzazione adattativa, perché non è data la criptazione delle pressioni selettive ma solo lo slittamento di queste. Partire dall’animalità come condizione ontologica della nostra specie – per cui l’umano non sarebbe una controlateralità, bensì una declinazione dell’essere-animale – significa, di certo, riconsiderare la posizionalità, il come si presenta rispetto-a. Ma non solo. In una visione ecologica della predicazione umana, l’ontologia è un frutto relazionale: l’uomo non può pensarsi come un mondo a parte, bensì come espressione peculiare di questa rete di relazioni, tale per cui è la solidità di questa matrice che ne permette l’espressione. Ne deriva un’etica relazionale che richiede una ridefinizione di un gran numero di coordinate valoriali che chiedono d’essere tradotte in azioni e direttive di governance.

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