la riflessione

Come la macchina ci trasforma: l’approccio post-umanista per capire il presente

Evidente la caduta della centralità universalista dell’essere umano. L’umanesimo prima offriva dei valori bussola, oggi non è più in grado di farlo. La filosofia post-umanista prova a dare nuovi punti di riferimento, in uno scenario in cui la tecnica non è più strumento ma agente di cambiamento dell’umano

Pubblicato il 12 Feb 2021

Roberto Marchesini

etologo e fondatore della zooantropologia

tecnocapitalismo

Con l’avvento di nuove tecnologie, ma più in generale in ragione dello slittamento di significato del rapporto dell’essere umano con la téchne, si pongono oggi nuove sfide interpretative della tecnopoiesi e della lettura dell’umano, che investono altresì, seppur in seconda battuta, la riflessione etica.

L’etica della simpatia di humeana memoria (dal filosofo David Hume) o quella di Emmanuel Lévinas sul concetto di alterità, basate entrambe sul riconoscimento di una comune condizione-presenza somatica, che richiama una responsabilità nei confronti dell’altro, si trovano disarmate dalla disgiunzione irreversibile tra agente e paziente morale, rispetto non tanto ad ambiti spaziali – quale ancora vigente nel dominio dei media analogici – quanto alla proiezione narcisistica del soggetto all’interno di una propria dimensione di vissuto, in virtù dell’immersione digitalica.

La mediazione digitalica, infatti, che peraltro ha assorbito ogni altra intermediazione strumentale, non mantiene i soggetti interagenti sullo stesso piano d’incontro somatico; di conseguenza, non può più limitarsi al problema delle forze in campo o, in altre parole, essere affrontata nei termini di estensione-amputazione, come si evince nella lettura di Marshal McLuhan, perché non è la distanza a essere messa in discussione, non è un potenziamento a essere inagurato dalla digitalizzazione, cioè non sono rapporti di forza i veri punti critici, bensì la rottura del piano intersomatico nelle relazioni.

La svolta di senso del nuovo secolo nel rapporto con la téchne

Se fino alla prima metà del Novecento si poteva ancora parlare di techne come di un insieme di entità di supporto, parcellizzate in una moltitudine di strumenti disgiunti, con l’avvento della rivoluzione digitalica essa, oltrepassando la condizione analogica degli elementi strumentali separati tra loro, assume una consistenza dimensionale, si fa cioè ecosistema. La techne diviene quindi un secondo ambiente che, anche quando mette in contatto, pone il soggetto in una condizione di relazionalità desomatizzata, per cui parliamo di tecnosfera.

Nella tecnosfera l’essere umano è chiamato a un’azione di proiezione, in termini cioè di pieno vissuto o di adesione a una seconda realtà, onde poter usufruire delle diverse utility funzionali – sia la lettura di un testo, la firma su un documento, l’ascolto di un brano musicale o la visione di un film – muovendosi in modo dimensionale tra esse, esattamente come se fosse in un ambiente. Ciò cambia considerevolmente la cifra di presenza e responsabilità nelle prassi, giacché ogni produzione del soggetto – sia essa un semplice post in un social media o una decisione che coinvolga centinaia di persone agita con un semplice clic – è sempre mediata in modo destrutturale rispetto al piano somatico e non si limita all’ambito telecinetico.

Lo constatiamo quotidianamente nelle pagine Facebook, ove a essere sciolto è il concetto stesso d’identità relazionale e consequenziale delle prassi agite. L’ente desomatizzato non è semplicemente lontano, ma scioglie qualunque connotato di presenza, non è più cioè chiamato a presenziare in modo diretto e identitario alle proprie azioni, per cui la techne da supporto diventa dimensione di immersione e adattamento a un nuovo regime più simile alla proiezione dell’Alice di Lewis Carroll e con forti seduzioni narcisistiche e solipsistiche che inevitabilmente si ripercuotono sullo stato di agente morale del singolo.

La ridefinizione critica del rapporto con la tecnologia

Nello stesso tempo la rivoluzione digitalica impone una ridefinizione critica del nostro rapporto con la techne, perché mette in luce anche retrospettivamente l’insussistenza della lettura umanistica che pone l’essere umano:

  1. creatore di tecnica perché bisognoso in virtù di una carenza;
  2. autarchico nel processo ideativo tecnopoietico;
  3. capace di un pieno controllo sull’evoluzione della techne;
  4. autodeterminante nel proprio progetto.

Questa trasformazione, che ha messo in discussione non solo il concetto di strumento, ma altresì alcune delle dicotomie tradizionali vigenti e fondative del rapporto tra l’essere umano e la tecnologia – come quelle di: invenzione/scoperta, artificiale/naturale, corpo/protesi – ha contribuito all’emergenza di un nuovo paradigma culturale, che prende il nome di “postumanismo“, chiamato a ridefinire il nostro rapporto con la techne, a partire dalla messa in forse dei tre presupposti fondativi dell’umanismo:

  • il principio d’incompletezza biologica dell’essere umano o di assenza di un preciso rango naturale;
  • la lettura emanativa e autarchica del processo tecnopoietico;
  • la visione classica della techne, ritenuta al servizio dell’essere umano e interpretata secondo canoni ben precisi di esternalità, ergonomia, vestizione, volano, esonero e passività.

Possiamo allora affermare che, se è vero che la rivoluzione digitalica ha inaugurato nuove criticità cui dare risposta, è altrettanto vero che essa ha semplicemente conclamato e reso evidenti aspetti che erano già vigenti nelle prime espressioni culturali dell’essere umano. La riflessione pertanto investe nel suo insieme questi tre presupposti fondativi che oggi sembrano palesemente contraddetti.

Il postumanismo, di fatto, non va considerato una forma di antiumanismo, né una semplice decostruzione dei termini identificativi dell’umano, quanto piuttosto una rivisitazione di questi, sulla base di una visione relazionale – eco-ontologica – degli eventi predicativi e delle risultanze allorché parliamo di umano; per cui potremmo considerarlo una sorta di neoumanismo non-antropocentrato, anche se, proprio in ragione della discontinuità rispetto all’immagine vitruviana e ai presupposti-conseguenze a essa legati, preferisco il termine di postumanismo. Il principio non è la negazione di uno specifico predicativo definibile sotto il termine di umano, ma come si arrivi a quest’ultimo: secondo la visione postumanistica, l’umano è l’esito relazionale di Homo e non il suo prodotto emanativo-compensativo, per cui l’umano non è pensabile per ricognizione interna.

In questa lettura eco-ontologica del predicato – ove l’espressione umana è il frutto della relazione che contraiamo con un’entità non-umana – o, in altri termini, “ibrida” della risultanza antropo-poietica, la techne ha un ruolo tutt’altro che secondario, giacché rappresenta una delle fonti più importanti di ibridazione e, di conseguenza, di antropo-poiesi.  Secondo la lettura postumanistica, la condizione umana non è mai stata sotto il pieno controllo dell’essere umano, oggi questo riscontro è solamente più esplicito, e non può essere ricavata in purezza e autodeterminazione, bensì attraverso una molteplicità di eventi co-fattoriali. A partire dalle prime espressioni culturali, fomiti di technai, l’essere umano ha perseguito la strada dell’ibridazione, lasciandosi contaminare dal mondo esterno e decentrandosi rispetto al retaggio biologico ricevuto dalla filogenesi. In questa prospettiva, l’umano si trasforma cioè in una sorta di entità sinciziale che deve rinunciare al pieno protagonismo nella rotta del proprio navigare.

Tali metamorfosi interpretative hanno anch’esse profonde ricadute etiche in particolare negli aspetti: i) del rapporto tra ambito descrittivo e prescrittivo, non più così chiaramente distinguibile quale si presentava nella prospettiva tradizionale; ii) dell’individuazione dello statuto di paziente morale, in conseguenza alla caduta della simmetria agente-paziente e al superamento dell’antropocentrismo; iii) della difficoltà, ma direi proprio all’impraticabilità, nella stesura di una normatività sia di ordine deontologico che consequenzialista a seguito dell’incertezza della visura razionale sulle prassi.

Per affrontare il tema della tecno-etica, intendendo con tale termine l’avvento di slittamenti fondativi nell’impianto valoriale e prescrittivo che la tecnologia ha inaugurato e sempre di più sta mettendo in campo e, di conseguenza, il bisogno di riflettere su nuove questioni morali, ho deciso di prendere in considerazione due argomenti:

  1. gli slittamenti nella concezione postumanistica della techne;
  2. i problemi etici riferibili all’avvento della tecnosfera.

La metamorfosi postumanista del concetto di téchne

Per analizzare i cambiamenti che si sono andati configurando principalmente con la rivoluzione digitalica del XX secolo, slittamenti che più che inaugurare hanno messo in luce alcune difficoltà interpretative del rapporto tra uomo e techne, così come pensate dal paradigma umanistico – da cui la proposta filosofica postumanistica – è necessario partire da una prospettiva per così dire antropologica di questo rapporto e comprendere quali aspetti richiedono una revisione.

Abbiamo allora tre argomenti chiave da discutere:

  1. un’analisi ontologica sull’umano che, partendo da una lettura critica del mito prometeico, fondamento del paradigma umanistico da Pico della Mirandola a Gelhen, oggi non può prescindere dagli assunti della rivoluzione darwiniana e dalle evidenze scientifiche;
  2. una rivisitazione del processo tecnopoietico, ridefinendo il carattere di creatività dell’ingegno umano e di risultanze antropo-poietiche;
  3. una valutazione del significato della techne alla luce dell’emergenza digitalico e tecnosferica e parimenti del superamento dei canoni tradizionali di interpretazione del rapporto tra l’essere umano e il supporto tecnologico.

La visione umanista della predicazione umana, al centro di ogni ontologia antropocentrata, può essere ricondotta al mito dei due titani Epimeteo e Prometeo, il primo dispensatore di predicati performativi somatizzati, il secondo chiamato a risarcire la mancanza di declinazione funzionale corporea nell’essere umano attraverso il fuoco e la techne.

Possiamo intravvedere in questa fondazione tutti i germi dell’antropocentrismo ontologico: i) innanzitutto nel creare una doppia genealogia predicativa che disgiunge l’essere umano dalle altre specie, facendolo non un’entità specifica bensì speciale; ii) quindi svincolando l’uomo dalla normatività e dalla predeterminazione del consesso naturale, rendendolo cioè libero in quanto non declinato, potremmo dire emancipandolo dalla natura; iii) poi rendendolo un’entità neutra, che quindi può aspirare-pretendere di porsi come metrica del mondo, ma altresì contenitore e sussunzione di mondo, in quanto capace di utilizzare i più svariati strumenti per ottenere qualunque declinazione performativa; iv) a questo aggiungasi l’autodeterminazione, l’autopoiesi e in definitiva l’autarchia ontologica, vale a dire la purezza rispetto ogni contaminazione tellurica, in quanto separato dalla funzione o non stordito nella funzione, per dirla con Heidegger; v) infine capace di porsi al timone del proprio percorso di realizzazione e tensionale in termini di verticalizzazione ontologica.

La mancanza di un rango naturale introduce l’idea pichiana di un essere umano misura del mondo e proteiforme nell’esito ontologico: fin dai suoi primi esordi, peraltro ripresa di retaggi già presenti nelle due tradizioni occidentali, l’umanismo si profila come una liberazione dell’essere umano da qualunque vincolo, ponendo l’animalità come controtermine, porto da cui salpare e polarità da cui prendere le distanze, attraverso molteplici oscillazioni di sfondo. Nello stesso tempo l’umanismo è funzionale a proporre una concezione libera e autoriferita dell’essere umano, una sorta di nuova aurora capace di lasciar intravvedere il destino dell’uomo oltre le nebbie del teocentrismo.

Ne esce un’immagine conclamata nel prospetto vitruviano di Leonardo, ove l’essere umano: i) ha una forma non declinata sotto il profilo performativo e quindi neutra-larvale tale da poter essere misura del mondo; ii) si propone come universale, capace non solo di informare il mondo (antropoplastica) ma altresì di sussumerlo e contenerlo; iii) mantiene una purezza intrinseca proprio in virtù della necessità di uno strumento che distanzia il corpo dal sostrato su cui agisce; iv) è autopoietico, autodeterminante, portatore di fini intrinseci, autarchico e quindi emanativo in ogni sua espressione culturale; v) richiede l’intervento di una stampella o di un contenimento da parte di un ente esterno, non solo performativo ma altresì normativo.

Ovvio che il modo di concepire la vacuità o insufficienza della natura umana diviene funzionale a una visione conseguente dell’atto ideativo, produttivo e introiettivo della techne, ciò che ho definito come tecnopoiesi. L’essere umano nudo, imperfetto, incompleto, portatore di mancanze e di insufficienze – e qui i diversi autori che si sono susseguiti nella lettura antropologica e filosofica del predicare umano ci hanno consegnato una miriade di versioni differenti seppur tutte sullo stesso principio – si rivolge alla techne per supplire ma altresì per rafforzare l’intento di verticalizzazione esistenziale o di esonero. Possiamo dire che tutta la parabola umanistica, che entra in crisi all’inizio del XX secolo, si fonda su questa mitopoiesi dell’incompletezza della natura umana. La mancanza si traduce in libertà, plasticità, svincolo, autodeterminazione, disgiunzione, distinzione, sostenendo quell’antropocentrismo ontologico che sarà la base su cui costruire l’età moderna e tutti i suoi presupposti.

Questa lettura considera pertanto l’atto-evento tecnopoietico come:

  • i) compensazione, rispetto a una mancanza biologica, capacità di sostenere e riequilibrare, in modo molto simile a una stampella;
  • ii) risarcimento, rispetto a un’insufficienza, contrappasso di un’ingiustizia, che rende fattibile una sopravvivenza altrimenti impossibile;
  • iii) completamento, rispetto all’esito performativo, potremmo dire perfezionamento o contenimento, in grado di incanalare oltre che dare forma a un’energia altrimenti fuori controllo;
  • iv) tutela, rispetto alla larvalità biologica, in grado cioè di fungere da seconda pelle o da amnios protettivo, abitazione dell’essere umano privo di una propria nicchia ecologica;
  • v) autarchia, cioè autosufficienza rispetto alla declinazione e parimenti decontaminazione rispetto al non-umano, espressione emanativa della purezza umana e parimenti ricorsività nel mantenere o enfatizzare tale purezza;
  • vi) emancipazione, dai vincoli della natura, con conseguente libertà nel definire i propri fini e parimenti autopoiesi nel costruire se stesso.

Inoltre si ritiene che la tecnopoiesi produca di conseguenza una disgiunzione e un esonero, interpretabile secondo diverse prospettive, per esempio nella differenza tra Gelhen e Plessner, che introducono sostanzialmente due conseguenze: 1) l’esubero, da cui il bisogno di un contenimento dall’esterno; 2) il distanziamento, da cui l’immagine dell’umano contemplativo o non povero di mondo.

Le caratteristiche della techne nella lettura umanista

La techne nella lettura umanista assume pertanto alcune caratteristiche: i) veste funzionalmente l’umano, accordandogli le dotazioni mancanti; ii) potenzia e ancor più incanala una forza predicativa inerente; iii) è ergonomica, in quanto frutto di una antropoplastica, per cui si adatta al corpo che la informa; iv) è ancillare e svolge il ruolo di strumento al servizio dei nostri fini; v) accresce l’indipendenza e la distanza tra umano e mondo, non immerge cioè nella performatività ma emancipa dalla funzione; vi) è il frutto autarchico ed emanativo dell’ingegno umano, è l’espressione più autentica dell’essere umano e del suo empito ascensionale; vii) rimane esterna e mantiene la purezza interna dell’umano, per cui ogni evento culturale viene considerato un rito di purificazione; viii) distingue l’essere umano dalle altre specie rendendolo speciale e non specifico; ix) ha una sua direzionalità quella compensativa o risarcitoria, contenitiva o normativa, abitativa e disgiuntiva rispetto alla natura; x) è sotto il pieno controllo dell’essere umano.

Posthumanismo

Sono questi i punti che desidero mettere in discussione, partendo dalla lettura dell’essere umano, sia sotto il profilo antropologico che ontologico. Possiamo allora chiederci se ha ancora senso, per esempio in una visione darwiniana della processualità filogenetica, parlare di una mancanza ab-origine della dotazione umana e soprattutto se ha senso il concetto stesso di completezza-incompletezza. A mio avviso no: 1) sotto il profilo puramente teorico per due ragioni di base, i) perché la filogenesi non completa-perfeziona alcunché, cioè non prevede questa metrica valutativa, di fatto un retaggio essenzialista, ii) perché in una logica replicativa, ossia di fitness differenziale dei soggetti presenti in una popolazione, non è possibile un azzeramento delle pressioni selettive, ma solo uno slittamento; 2) sotto il profilo dell’indagine morfo-funzionale, perché di fatto l’essere umano si presenta semmai specializzato-ridondante piuttosto che carente, i) prendiamo ad esempio la conformazione specialistica rispetto alle altre antropomorfe della differenziazione anatomo-funzionale del treno anteriore rispetto a quello posteriore, ii) senza dimenticare la ridondanza del sistema neurobiologico che presenta non solo l’esorbitante numero di neuroni ma altresì una particolareggiata architettura del sistema stesso. E sono solo due piccoli esempi.

Ma allora ci chiediamo, perché è così forte, direi quasi intuitiva, l’idea di carenzialità dell’essere umano, tale per cui leggiamo la tecnopoiesi come un evento compensativo?

Dal mio punto di vista la “sensazione di carenza”, perché di questo si tratta, non è altro che una distorsione cognitiva riconducibile al cosiddetto bias dell’interpretazione a-posteriori. E’ normale, infatti, che una volta assunta una partnership tecnomediata vi siano: 1) una percezione di carenza sotto il profilo performativo, perché abituati ad altri standard di efficacia; 2) una percezione di deficit di accreditamento, perché la techne inaugura nuovi costumi sociali e di appartenenza; 3) una dipendenza ontogenetica rispetto al supporto tecnologico, giacché ogni strumento esercita alcune facoltà deprimendone altre; 4) una correlazione evolutiva nella prassi ontogenetica, perché la consuetudine con una tecnica-tecnologia produce informazione organizzativa capace di dare una specifica cablatura ai sistemi biologici, soprattutto d’interfaccia; 5) degli slittamenti filogenetici nel lungo periodo, perché una tecnica o un supporto modifica le pressioni selettive vigenti all’interno di una popolazione, ridefinendo il bauplan morfogenetico della specie.

La tecnopoiesi declina l’umano sulle proprie coordinate

In questa chiave abbiamo perciò una tecnopoiesi che non compensa ma declina l’essere umano – lungo le cinque scansioni suesposte – sulle proprie coordinate. Potremmo dire che l’essere umano, attraverso il supporto tecnico-tecnologico, si correla a una dimensione performativa, esattamente come nella costruzione della nicchia in ecologia evoluzionistica, per cui ogni emergenza tecnopoietica produce una condizione di carenza. L’umanismo considera la mancanza un “a-priori” che mette in moto la tecnopoiesi. Rispetto a quanto detto sopra, occorre, viceversa, considerare la mancanza una percezione “a-posteriori” della tecnopoiesi stessa. La tecnopoiesi è come l’innamoramento, solo in seguito a essa si sente la mancanza del partner.

La mancanza è pertanto la conseguenza e non la causa della proiezione tecnopoietica. Questo significa che il modo di leggere la natura umana, come carenziale rispetto alle altre specie, altro non è che una distorsione cognitiva, che tuttavia può dirci molto sul volano della tecnopoiesi. Il mito, infatti, non fa riferimento solo all’ingegnosità da trickster del titano Prometeo, ma parimenti sottolinea la pluralità dei predicati che dispensa Epimeteo, predicati che albergano nelle virtù somatiche degli altri animali.

Ciò è la migliore cartina di tornasole per comprendere la fonte ispirativa della tecnopoiesi stessa: l’essere umano ha costruito la propria collezione di technai avendo gli animali come protocollo di rivelazione di possibilità da raggiungere.

Ecco, allora, che dobbiamo considerare l’evento tecnopoietico come un atto dialogico e non solipsistico, eteronormato e non autarchico, riferito e non autoreferenziale, frutto:

  • della proiettività prometeica di un essere umano ridondante, desideroso e fortemente empatico-immaginativo, ma altresì
  • del valore epifanico dei predicati epimeteici presenti nelle altre specie. In una concezione postumanistica l’essere umano, come specie biologica, esito di un percorso filogenetico che non può contraddire le dinamiche della fitness, non può definirsi incompleto o carente, ma nello stesso tempo, proprio in virtù della propria esuberanza immedesimativa e immaginativa, che lo ha portato a vedere negli animali delle epifanie esistenziali, il suo dimensionamento non è riconducibile in modo esclusivo alla sua natura filogenetica. La condizione umana è un frutto ibrido.

Questo può farci credere che la critica che viene mossa si riferisca esclusivamente all’analisi biologica della natura umana. Non è così, perché il paradigma dell’incompletezza e la genealogia esclusivamente prometeica rappresentano le fondamenta di tutta una serie di considerazione il cui insieme sostiene l’edificio umanistico.

Se crollano questi due presupposti a venir meno è l’immagine vitruviana a decadere: i) l’essere umano non può più essere considerato un’entità totalmente svincolata da caratterizzazioni interne, perde quella totale plasticità che è condizione sine qua non della pretesa verticalizzazione ontologica; ii) non può altresì aspirare a porsi come unità di misura del mondo se rinuncia alla condizione di neutralità declinativa; iii) non può più fondarsi iuxta propria principia ovvero non può definirsi un’entità autarchica, spiegabile per ricognizione interna; iv) deve rinunciare a qualsiasi ipotesi di purezza, disgiunzione e distinzione rispetto a tutto ciò che lo circonda, riconoscendosi nell’immersione e nell’ibridazione e non nel distanziamento; v) deve abbandonare altresì la pretesa di essere al timone del proprio progetto antropo-poietico, riconoscendo altre co-fattorialità ed eteronomie nella costruzione della propria condizione.

La lettura postumanistica dell’atto tecnopoietico

Secondo la lettura postumanistica l’atto tecnopoietico va perciò diversamente interpretato:

  • i) non compensa-riequilibra un deficit o una condizione disadattativa, ma crea condizioni di instabilità interna e una percezione di carenza;
  • ii) non risarcisce, ma crea maggiori dipendenze e nuovi bisogni;
  • iii) più che di compensazione è corretto parlare di correlazione e di nuove declinazioni performative;
  • iv) non mantiene una purezza anzi ibrida e antropodecentra;
  • v) non si compie in autarchia, ma è il frutto di un’epifania d’incontro con alterità;
  • vi) non emancipa dalla natura, ma accresce le dipendenze rispetto alle evoluzioni ecologiche;
  • vii) non realizza le finalità dell’essere umano, bensì aggiunge dei fini o sposta l’asse progettuale dell’umano;
  • viii) non veste o tutela l’integrità del corpo, ma lo forza attraverso una somatizzazione del supporto.

La tecnopoiesi porta a un distanziamento dal mondo? Solo in apparenza, perché quanto più numerosi sono gli intermediari tra soggetto-mondo tanto maggiore è la dipendenza, per esempio la specializzazione performativa.

La visione umanistica è irenica e tranquillizzante nel suo porsi come “storia proprio così”. Qui la tecnica aiuta perché compensa una carenza e perché esonera da un compito. La techne nella tradizione classica è costruita sul principio ergonomico, deve cioè adattarsi al corpo. Oggi scopriamo, forse con sorpresa – da cui la tendenza alla rimozione – che è il corpo che deve adattarsi alla techne, che ogni tecnopoiesi produce non-equilibrio non stabilità, che inaugura campi d’imprevedibilità, proprio come uno tsunami ontologico.

La techne non mostra un come, non dà mai vita a un fenomeno da seguire-imitare, bensì mostra un perché, una dimensione esistenziale.

Impatto della techne sull’umano

La techne pertanto:

  • i) sveste l’umano rendendolo più esposto al mondo;
  • ii) come un virus produce nuovi predicati;
  • iii) non è ergonomica, adatta e disseziona il corpo;
  • iv) aggiunge o inaugura nuovi fini, cui ci sottoponiamo;
  • v) accresce la dipendenza, pensiamo solo alla nostra attuale esposizione ecologica;
  • vi) riporta in modo archetipico l’imprimatur epifanico rendendo l’umano non esplicabile iuxta propria principia; vii) si introietta profondamente, declina il corpo, ed è sempre interna;
  • viii) ha diversi livelli in natura, non esiste una dicotomia naturale vs artificiale;
  • ix) è sempre creativa, occasionale, frutto storico e di serendipity e incontri;
  • x) non è mai sotto il pieno controllo dell’uomo.

L’avvento della tecnosfera nella rivoluzione digitalica

La trasformazione sociale introdotta dalla rivoluzione informatica del XX secolo è sotto gli occhi di tutti e, ciò nonostante, a mio avviso ancora non ha fatto intravvedere che poche e sparute risultanze delle conseguenze che sta determinando e delle potenzialità che andrà dispiegando nel corso dei prossimi decenni. L’esplosione di entità computative, che segnano il lavoro alla scrivania, ci accompagnano sotto forma di smartphone, dettano il ritmo delle nostre occupazioni durante i viaggi attraverso i tablet o infiltrano in modo non sempre evidente gran parte del nostro mondo, non ha, se non in minima parte, modificato quella percezione da elettrodomestico che ancora informava la mitica Programma 101 dell’Olivetti, quale entità destinata al progetto di funzionalità della casa.

La prospettiva che s’inaugura negli anni ’60 di una dimensione a consumo familiare, la stessa che trasforma gli animali domestici in pet, non è in grado di comprendere la liquefazione dei rapporti sociali che sta prendendo avvio come contropartita di un’apparente liberazione edonista.

Le generazioni che si susseguono negli ultimi decenni del Novecento, a partire dal baby boom, prendono sempre più confidenza con la digitalizzazione delle diverse prassi operative  e fruitive, ma continuano a ragionare in maniera analogica. Lo strumento, in tale ottica, è qualcosa che riposa in un posto ben preciso e che serve a ottenere una particolare funzione, per cui se ne interpreta l’utilizzo attraverso l’ergonomia di accesso.

Se televisione, cellulare, videocamera o lettore mp3 utilizzano tecnologia informatica, ugualmente vi si accede in modo disgiunto, ovvero attraverso strumenti ben distinti, com’era prassi nel mondo analogico. Tale atteggiamento muta radicalmente sullo scorcio di secolo e le nuove generazioni, definite all’uopo nativi digitali, mostrano un accesso alle tecnologie completamente diverso, non più di utilizzo bensì d’immersione. La cosiddetta realtà virtuale assorbe sempre di più l’esistenza quotidiana delle persone, divenendo dimensione di vita. Ma sono i giovani, cresciuti all’interno di questo milieu, coloro che non riescono a immaginare un mondo senza computer, a mostrare le prime trasformazioni in modo palese, accentuando il distacco dalla relazione diretta con il prossimo ed enfatizzando quella mediata dalla finestra digitalica, che sempre meno ricorda, non solo concettualmente ma altresì fruitivamente, l’immagine dello strumento domestico, collocabile in uno spazio ben preciso della casa.

La svolta dei social media per il digitalico

I social media rappresentano l’espressione più esplicita di questo cambiamento, dando vita a una filiazione di situazioni e di terminologie difficilmente comprensibili per chi ha vissuto la propria giovinezza nella seconda metà del Novecento: i più si limitano a utilizzare queste nuove forme di partecipazione sociale, ma di certo non sono in grado di far emergere in modo innovativo le immense potenzialità che esse nascondono.

Ed è proprio nei termini di adattamento partecipativo che si gioca la grande partita delle metamorfosi indotte nel passaggio da una cultura dell’analogico a una del digitalico.

Se ha senso quanto esposto nel paragrafo precedente, vale a dire se è vero che il rapporto con la techne non ha valore compensativo e non si basa su un mero utilizzo – che: i) lascia lo strumento all’esterno, ii) lo pone in modo ergonomico e addirittura iii) preserva il corpo dalla contaminazione – in altri termini, se è vero il contrario, abbiamo più di una ragione per preoccuparci rispetto ai mutamenti di partecipazione sociale indotti dall’immersione.

Non è una posizione neoluddistica

Vorrei a questo riguardo sgombrare subito il campo dall’equivoco di sostenere un atteggiamento tecnofobico o neoluddistico: non credo che le nuove tecnologie rappresentino di per sé un problema o addirittura un male anzi, le considero delle grandi opportunità anche per riflettere sul significato ecologico dei predicati. La mia riflessione si riferisce piuttosto al rischio di approcciare l’accelerazione digitalica con una chiave di lettura umanistica che, se scorretta anche per le cosiddette tecniche tradizionali – perché fondata su presupposti di centralità, purezza e autarchia della condizione umana – diviene conclamatamente paradossale di fronte a una techne che si basa sul principio d’ibridazione e d’immersione.

E non si tratta di saper leggere un fenomeno con il distacco epistemologico di chi continua a credere che non vi sia relazione produttiva tra descrittivo e prescrittivo, ma di comprendere che nella frequentazione dell’immersione tecnosferica è l’orizzonte dei valori a mutare, nella cifra estetica e in quella etica, entrambe assai più connesse di quanto si possa credere. Indubbiamente la connessione digitalica che caratterizza il panorama esperienziale di un bambino fin dai primissimi anni di vita, direi ancor prima del compimento del dodicesimo mese – al punto tale che sovente si apprende prima ad andare sul web rispetto a camminare – produce delle risultanze ben precise sotto il profilo ontogenetico.

Le trasformazioni dell’umano per il digitalico

Già è possibile notare alcune trasformazioni, spesso erroneamente attribuite a mancanze educative da parte dei genitori o a problemi riferibili alla scuola, ma in realtà assai più facilmente riconducibili all’orizzonte esperienziale che il bambino vive fin dall’infanzia, come:

  • i) una forte fluttuazione dei parametri di arousal, accompagnata da insicurezza, bassa resilienza ed emotività;
  • ii) una scarsa consapevolezza delle conseguenze concrete delle proprie azioni;
  • iii) un’incapacità di gestire le frustrazioni e in generali le emozioni;
  • iv) una propensione all’ipercinesi, correlata a un deficit di attenzione e concentrazione;
  • v) una marcata riduzione della capacità empatica e dell’immedesimazione; vi) una tendenza al narcisismo e un eccesso competitivo nelle relazioni sociali;
  • vii) una vertiginosa caduta delle vocazioni cooperative e collaborative;
  • viii) una diminuzione delle capacità mnestiche e dell’organizzazione di una coerente identità biografica. Vorrei a questo punto richiamare l’attenzione non solo sui caratteri di differenziale evolutivo che l’esperienza immersiva produce, ma altresì su quelli ordinari di socializzazione che nel radicarsi in familiarità consolidata nell’infanzia si traducono poi in valori o in prescrizioni.

Se è vero, infatti, che l’empatia come la propensione collaborativa sono qualità intrinseche dell’essere umano che tuttavia, esattamente come qualunque muscolo, richiedono l’esercizio evolutivo per poter crescere e raggiungere gli standard di adeguatezza, è altrettanto vero che sono i primi referenti d’interazione infantile quelli che poi vanno a definire i parametri di elezione valoriale dell’adulto.

Preoccupa l’eradicamento dal contesto naturale e sociale che la prevalenza immersiva produce, abituando il ragazzo a confrontarsi con un’altra realtà che inevitabilmente sarà per lui punto di riferimento, tanto nell’orientamento quanto nei valori che lo portano a eleggere gli enti da preservare e ciò verso cui manifesterà un atteggiamento negligente perché non facente parte del suo panorama di socializzazione. Vorrei dire che noi possiamo benissimo cercare di insegnare il rispetto per la natura, per gli equilibri ambientali, per la senzienza animale, ma se questi enti non trovano un corrispettivo di familiarizzazione nel giovane, non saranno cioè corrispondenti alla sua estetica e alla sua introiezione biografica, frutto delle esperienze d’infanzia, inevitabilmente questi precetti resteranno lettera morta e non si tradurranno in atteggiamenti sentiti e vissuti.

Nell’immaginario collettivo la natura è diventata uno sfondo, esattamente come nei fondali utilizzati nel cinema, una sorta di cartolina dai contorni ben definiti, da preservare nella sua staticità e nella disgiunzione degli enti, quasi immateriale e comunque iperreale, non è più un intreccio di vita, anche se caotica e collosa nei suoi parametri organici – questi muoverebbero il disgusto di un qualsiasi ragazzo – ed è così che nel comune sentire di un’amministrazione pubblica il verde diviene “arredo urbano”. A dispetto di tutto il movimento ambientalista della seconda metà del secolo scorso, era più ecologica la società rurale nella propria inconsapevole immersione nel fango e nel letame, nei ritmi stagionali e nell’autoctonia di produzione-consumo, nel riutilizzo capace di sopravanzare qualsiasi politica di riciclaggio.

Un discorso analogo può essere fatto nei confronti del rispetto degli animali, tanto sbandierato sui media fino a farlo diventare una captatio benevolentiae, quando in realtà attraverso le forme più nauseanti di costrizione antropomorfa si nega ai diversi animali di esprimere la propria identità specie specifica. Il perché è presto detto. Le persone hanno una maggiore frequentazione con i personaggi dei cartoni interpretati dagli animali piuttosto che dagli animali stessi. Gli animali sono diventati delle maschere chiamati a recitare la parte che l’essere umano impone loro, senza alcuna capacità critica.

Non è pensabile preservare gli equilibri ecologici, salvaguardare i diversi ambienti naturali, rispettare gli animali se questi non entrano nell’orizzonte esperienziale del bambino fin dalla prima infanzia, se sono vissuti come estranei, non sono stati introiettati come elementi elettivi, propri in quanto abitati e verso cui è avvenuto un processo di sodalizio. I valori hanno anche un prospetto affettivo, indicano un progetto nel loro definire piattaforme prescrittive, ma è evidente che si radicano all’interno di orientamenti che non possono basarsi sull’estraneità.

I valori definiscono delle priorità e delle scelte – per esempio: quali enti voglio preservare, cosa ritengo sia in linea con il mio giudizio di vita buona, quali le finalità verso cui vale la pena di battersi o sacrificarsi – ma queste non possono che fondarsi sul radicamento. L’immersione costante in una seconda realtà non può che produrre un’eradicazione e uno straniamento rispetto alla natura, agli ecosistemi e al mondo animale. Si tratta di un divorzio che non può non determinare delle influenze estetiche ed etiche. Quando osservo una famiglia seduta a tavola, ove ciascuno è totalmente compreso davanti al proprio smartphone, non posso pensare che ciò non abbia poi conseguenze sul piano valoriale perché, soprattutto sulle menti giovani, quello straniamento dal rapporto sociale si traduce in un ben preciso modello di partecipazione esistenziale e quindi di orientamento prescrittivo.

Affidarsi alla macchina

Il passaggio dall’utilizzo della macchina analogica all’immersione nella tecnosfera digitalica produce altresì una lenta consuetudine ad affidarsi alla macchina – non più solo sul profilo operativo, ma altresì in quello strategico-decisionale – arrivando al paradosso di elevarla ad àncora di salvezza, facendo cioè sulla techne quell’investimento soteriologico che l’uomo preumanistico individuava nella divinità e quello moderno in se stesso. La tecnosfera non è fatta di strumenti a pronto utilizzo, ma è dimensionale – potremmo dire accogliente e rassicurante, come una sorta di amnios – e assume in tal senso l’immagine di base sicura. La tecnosfera si abbraccia, in lei ci si abbandona, allentando le redini del comando. Si fa strada perciò il pensare che saranno le macchine a salvarci o comunque a prendere quel timone che pare bloccato nell’uomo contemporaneo: l’immersione nella tecnosfera ci mostra pertanto una progressiva perdita di titolarità che si affaccia all’orizzonte. D’altro canto, se riflettiamo in modo postumanistico circa l’illusione amniotica della techne, ci rendiamo conto di quanto bisogno abbiamo di nuovi paradigmi interpretativi rispetto alle accelerazioni in atto.

Una cosa va detta. L’essere umano appare disarmato e non in grado di affrontare le sfide più importanti – pensiamo a quella del riscaldamento globale, della crescita demografica, del riequilibrio della ricchezza, dei problemi di geopolitica a seguito della caduta degli stati nazionali, delle migrazioni dei popoli – e sembra così sperare di bypassare questa chiamata alla responsabilità affidandosi a un ente terzo in grado di decidere per lui. Non solo la fantascienza ma altresì alcune scuole di filosofia, pensiamo per esempio al movimento transumanista, immaginano un futuro dove saranno le macchine a programmare l’agenda dell’essere umano; d’altro canto è la stessa produzione industriale a prospettarci macchine con elevata autonomia performativa e funzionale: si pensi, per esempio, alle automobili a guida autonoma o alle nuove generazioni di robot o, ancora, agli avanzamenti nella ricerca sull’intelligenza artificiale. Siamo di fronte, inutile dirlo, a una metamorfosi antropologica, ancor prima che tecnopoietica, nei confronti della quale abbiamo sviluppato una scarsa capacità critica circa le conseguenze ontologiche possibili, nella falsa illusione di essere comunque noi al timone di questi processi.

Come cambia la macchina

Le ricerche di punta si stanno orientando verso una rivoluzione del concetto stesso di macchina, non solo in termini di autonomia operativa, ma altresì di capacità valutativa e decisionale, attraverso nuove strade progettuali.

Ne cito due:

  • la costruzione di robot o intelligenze artificiali animalizzate, ossia dotate di sistemi motivazionali ed emozionali intrenseci, capaci quindi di non limitarsi a risolvere problemi che l’uomo pone loro, ma di agire in modo attivo nella ricerca di opportunità, ossia di intus-legere, in altre parole di porsi dei problemi;
  • la realizzazione di macchine ibride, in parte inorganiche e in parte organiche, costruendo reti di cellule neuronali in connessione tra loro, nello stesso modo di una rete sinaptica, in infusioni in grado di costruire nuove connessioni e di crescere, vale a dire dando vita a organoidi, in rapporto con strutture al silicio o altri parti meccaniche in grado di fornire quelle performatività che mancano agli apparati biologici.

Vorrei sottolineare che in entrambi i casi parlare di macchine, nel senso consueto del termine, avvalendosi delle strutture concettuali cui siamo abituati, più che fornirci un’immagine approssimata, è in tutto e per tutto fuorviante. Un robot che sente e desidera non è più una macchina.

Assegnare delle disposizioni a una macchina, potremmo dire “animalizzarla”, significa renderla portatrice d’interessi inerenti – un po’ come nel famoso esempio di Hal 9000 di Kubrick –  facendo emergere inevitabilmente una self-ownership. Ma, allora, avrebbe ancora senso chiamarla macchina? Un’intelligenza artificiale, dotata di un sistema disposizionale, caratterizzato da emozioni e da motivazioni, sarebbe, a tutti gli effetti, un’alterità portatrice di un certo livello di autoappartenenza: di certo non può più essere considerata uno strumento da utilizzare. Con quali conseguenze etiche? Il dibattito è aperto. D’altro canto, per avere un robot autonomo e intelligente non si può prescindere dal renderlo capace di intus-legere. A ben vedere siamo di fronte a una circolarità non facile da districare.

Le questioni etiche

Esistono anche in questo caso delle questioni etiche di primo impatto. Vorrei solo citarne qualcuna, senza alcuna pretesa di esaustività:

  • i) siamo veramente disposti a dare autonomia ideativa e decisionale alle macchine?;
  • ii) è percorribile una strada basata su una programmazione rigida delle scelte etiche che dovranno eseguire? ma, soprattutto, risponderebbe veramente alle esigenze di ordine etico?;
  • iii) quali caratteristiche disposizionali assegnare a un’intelligenza artificiale per evitare una situazione di conflittualità d’interessi?;
  • iv) dovremmo leggere come una nuova forma di schiavismo il dotare una macchina d’interessi e poi tenerla in una condizione di cattività?;
  • v) come regolare i rapporti tra l’essere umano e i robot, conoscendo le attitudini non certo pacifiche dell’essere umano?;
  • vi) davanti all’incapacità palese dell’essere umano di prendere decisioni interessate ma imparziali – utopistico è il velo d’ignoranza di Rawls – dobbiamo affidare ai robot le decisioni che riguardano il futuro dell’umanità?;
  • vii) come dobbiamo comportarci verso un’entità intelligente? quali limitazioni dovremmo imporci?;
  • viii) come evitare alleanze tra gruppi di umani contro altri umani entrambi dotati di robot decisionali?

In conclusione

Credo che la grande marea di dibattiti e riflessioni che si svolgono all’interno della filosofica postumanista riguardi essenzialmente alcuni problemi:

  1. vi è in primis la caduta di quella centralità universalista dell’essere umano, caratterizzante l’umanesimo, che, se prima offriva dei valori bussola, oggi non è più in grado di fare;
  2. la grande crisi ecologica in atto, al di là di tutte le considerazioni fantasiose e futuristiche,  ci mette di fronte a delle sfide non facili da dirimere, per cui l’essere umano sembra alla ricerca di un salvatore e di una salvezza tecnomediata;
  3. siamo sommersi dallo sviluppo di una pluralità esistenziale che rende ogni lettura omnicomprensiva e basata su dicotomie risolutive non più rispondente alle esigenze con cui ci dobbiamo confrontare;
  4. la trasformazione della techne stessa che sempre più diviene dimensionale e sempre meno è interpretabile all’interno della metrica concettuale dello strumento.

La tecno-etica sta proprio all’interno di questi problemi.

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