Il rapporto tra intelligenza artificiale e diritto d’autore è al centro di un dibattito giuridico e culturale sempre più urgente. La recente legge italiana sull’intelligenza artificiale (L. 132/2025) ribadisce un principio in realtà tradizionale: l’opera dell’ingegno nasce dal pensiero dell’uomo.
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La nuova legge italiana e il principio dell’autore umano
Eppure, in un tempo in cui l’IA traduce istruzioni in immagini, suoni, parole e testi, il confine tra creazione e generazione sembra farsi più incerto. Il diritto riafferma la centralità dell’autore ma il processo creativo si va trasformando. E così la domanda si riapre, con rinnovata urgenza: quando creiamo con l’IA, di chi è davvero l’opera?
Il tema della paternità segna il limite della tutela
L’articolo 25 della nuova legge italiana sull’IA modifica l’articolo 1 della legge sul diritto d’autore (LDA), aggiungendo un inciso apparentemente ovvio ma non privo di significato: sono protette le opere dell’ingegno “umano”, anche se realizzate “con l’ausilio di strumenti di intelligenza artificiale”, purché “costituenti risultato del lavoro intellettuale dell’autore”.
A prima vista, il richiamo all’origine “umana” dell’opera può sembrare superfluo. In realtà, è il riflesso di una nuova tensione tra autore e tecnologia:
Il confine tra creatività tutelabile e generazione algoritmica
quella tra il pensiero che crea e l’algoritmo che elabora. L’aggettivo “umano” serve a ricordare che anche quando la macchina contribuisce al risultato la fonte dell’originalità deve restare l’intelletto e la sensibilità dell’autore. E segna la linea di confine tra ciò che è tutelabile e ciò che non lo è. È un chiarimento più dichiarativo che innovativo. Ma è significativo nel contesto attuale: riafferma che la creatività per essere meritevole di tutela deve restare radicata in una mente e in una volontà umana.
La giurisprudenza europea e il requisito dell’originalità
Il diritto italiano ed europeo già riconosce da tempo che la protezione autorale presuppone una creazione intellettuale umana. La Corte di giustizia dell’Unione europea – nei celebri casi Infopaq (C-5/08), Painer (C-145/10) e Cofemel (C-683/17) – ha stabilito che un’opera è protetta solo se costituisce una creazione intellettuale propria dell’autore che rifletta la sua personalità e si manifesti attraverso scelte libere e creative. In altre parole, l’originalità nasce dal “tocco personale” dell’autore. Vale a dire quel margine di libertà decisionale che imprime all’opera la sua impronta individuale.
La nuova disposizione italiana non fa che trasporre espressamente questo principio, chiarendo che la tutela si estende anche alle opere realizzate con l’ausilio di strumenti di intelligenza artificiale, purché il contributo intellettuale umano sia effettivo e riconoscibile. È un rafforzamento simbolico che ribadisce la continuità del diritto d’autore con la tradizione europea: l’IA può essere un supporto tecnico o creativo, ma la titolarità resta ancorata all’apporto intellettuale dell’autore umano.
Il problema irrisolto: cosa significa contributo intellettuale
La nuova norma lascia aperta una domanda decisiva: che cosa significa, in concreto, che un’opera è il “risultato del lavoro intellettuale dell’autore” quando interviene un sistema di IA?
È sufficiente un prompt articolato, che contenga un’idea e alcune indicazioni esecutive? Ricordiamoci che le idee, in sé, non sono protette dal diritto d’autore. E che le indicazioni esecutive potrebbero comunque lasciare un ampio margine decisionale ed espressivo all’IA.
E allora, il contributo umano deve consistere in qualcosa di più strutturato, come la progettazione del training o la definizione di parametri dettagliati che determinano il modo in cui l’algoritmo genera l’opera? Oppure, ancora, la creatività può manifestarsi nella scelta estetica e nella messa a punto dell’output, attraverso selezione, editing o composizione di più risultati?
Sono interrogativi tutt’altro che teorici, perché delimitano il perimetro del contributo umano nel processo creativo. Al momento, la giurisprudenza europea è piuttosto rara su questi temi. Solo in un recente caso in Repubblica Ceca, il Tribunale di Praga ha escluso la protezione per un’immagine interamente generata attraverso l’IA, ritenendo che non potesse considerarsi “opera dell’ingegno” in mancanza di un autore umano. Ma si tratta di una decisione che affronta la (pacifica) non tutelabilità di un contenuto in assenza della prova di un apporto creativo umano. Non analizza nel dettaglio il prompting né il ruolo del contributo umano nella definizione del risultato, in difetto di evidenze sul punto.
Non troviamo quindi indicazioni utili a delimitare in cosa consista il contributo intellettuale richiesto dalla nuova norma italiana. Resta questione aperta e tutta da esplorare.
L’approccio americano: il ruolo del Copyright Office
Per comprendere dove potrebbe condurre questo principio, è utile guardare agli Stati Uniti, dove il Copyright Office (U.S. Copyright Office) ha già affrontato numerose richieste di registrazione di opere “AI-assisted”.
A differenza del sistema europeo, infatti, negli Stati Uniti la registrazione del copyright è un passaggio amministrativo necessario per far valere in giudizio i diritti d’autore. Il Copyright Office svolge quindi spesso un ruolo di controllo preventivo sulla proteggibilità delle opere. In Italia e nell’UE, invece, la protezione non è subordinata ad alcuna registrazione: la SIAE consente di depositare un’opera a fini probatori, ma non esercita funzioni di verifica analoghe a quelle dell’Ufficio statunitense.
Théâtre d’Opéra Spatial e i limiti del prompt
Negli Stati Uniti, dunque, il Copyright Office ha svolto un ruolo interpretativo del concetto di “human authorship”. Nei casi Théâtre d’Opéra Spatial (Jason M. Allen) e A Recent Entrance to Paradise (Stephen Thaler), l’Ufficio ha negato la registrazione, affermando che un prompt, anche complesso e dettagliato, non basta a generare paternità autoriale.
Secondo il Copyright Office, l’IA interpreta in modo autonomo le istruzioni ricevute, determinando in maniera non prevedibile i dettagli espressivi dell’opera. L’utente formula un’idea, ma non controlla direttamente la forma finale: il suo contributo resta concettuale, non espressivo.
Nel report “Copyright and Artificial Intelligence – Part 2: copyrightability” (gennaio 2025), l’Ufficio ha precisato: “prompts alone do not provide sufficient human control to make users of an AI system the authors of the output”.
Perché i prompt non bastano secondo gli USA
La posizione del Copyright Office è quindi che i prompt, da soli, non forniscono un controllo umano sufficiente per rendere l’utente autore dell’output. I prompt, infatti, “essentially function as instructions that convey unprotectable ideas”: sono idee, non espressioni, e come tali restano al di fuori dell’ambito del diritto d’autore.
L’Ufficio riconosce che prompt complessi potrebbero contenere elementi espressivi desiderati dall’utente. Ma osserva che oggi tali elementi non sono effettivamente controllati nel processo generativo: l’IA “riempie” autonomamente i dettagli espressivi che traducono l’idea in forma concreta. Come scrive il Copyright Office: “[w]hile highly detailed prompts could contain the user’s desired expressive elements, at present they do not control how the AI system processes them in generating the output.”
Nemmeno la selezione di un singolo risultato basta (“selection of a single output is not itself a creative act”): scegliere ciò che “piace di più” non equivale a determinare la forma espressiva dell’opera.
L’approccio dell’Ufficio è dunque prudente: allo stato attuale, nella maggior parte dei casi il controllo creativo appare situato nel modello di IA più che nell’utente umano, ma questa valutazione potrebbe cambiare con l’evoluzione degli strumenti.
Cosa resta del contributo umano nell’era dell’IA
Se dunque il Copyright Office nega in linea di massima la possibilità di riconoscere un contributo intellettuale personale dell’autore a fronte di un prompt anche molto complesso, allora ci si può chiedere, seguendo un approccio simile, quale spazio residuerebbe per l’applicazione della norma italiana e quindi dove si possa riscontrare un apporto umano sia effettivo e riconoscibile nella generazione di contenuti tramite IA.
La giurisprudenza tradizionale sulla “co-autorialità” (quando un’opera è formata dal contributo inscindibile di più autori) offre alcune indicazioni utili su cosa significhi, in concreto, contributo dell’autore. Non è necessario realizzare materialmente ogni parte dell’opera: può essere sufficiente ideare, coordinare, scegliere, montare o dirigere, purché da tali attività emerga una impronta creativa riconoscibile. Al contrario, chi si limita a fornire idee generiche, istruzioni o supporto tecnico non assume la qualifica di autore.
Il controllo creativo come criterio di autorialità
Trasposta nel contesto dell’intelligenza artificiale, questa prospettiva suggerisce che la titolarità dipenderà sempre dal grado di intervento umano effettivo: dall’intensità con cui la persona che utilizza l’AI orienta il processo, definisce le scelte espressive e riconosce nel risultato la propria visione.
L’effetto causale estetico come discrimine della tutela
Del resto, la linea di demarcazione forse non può essere tracciata solo sul piano tecnico del “controllo” creativo come suggerito dal Copyright Office, ma anche su quello causale-espressivo, e quindi estetico. Ciò che conta è se il risultato finale rappresenta un effetto estetico/espressivo ragionevolmente riconducibile alle scelte creative dell’autore umano.
Quando il prompt definisce la struttura, lo stile e la direzione espressiva dell’output – e l’utente seleziona e finalizza il risultato proprio in base a tali scelte, riconoscendovi una corrispondenza con la propria idea estetica/espressiva – si può parlare di un effetto causale estetico riconducibile all’autore. Al contrario, nei casi in cui l’IA elabora autonomamente, come nel celebre progetto The Next Rembrandt, il processo è sostanzialmente auto-generativo: il prompt innesca un’elaborazione statistica che, pur basandosi su un training estensivo, non riflette alcuna libertà estetica o decisione espressiva umana. Anzi, l’intento parrebbe proprio quello di allenare l’IA a un suo processo creativo. In questi casi, il “tocco personale” dell’autore si dissolve nel calcolo: l’output è frutto dell’IA, non di una scelta creativa riconoscibile.
Usi controllati vs usi passivi dell’intelligenza artificiale
Questa prospettiva richiede di distinguere tra diversi livelli di interazione tra autore e intelligenza artificiale. Da un lato vi sono usi controllati e complessi, in cui l’utente guida il sistema con un processo iterativo, affinando progressivamente il risultato, integrando il proprio giudizio estetico e assumendo decisioni di selezione, composizione o rifinitura. Dall’altro vi sono usi più o meno passivi, in cui l’utente si limita a immettere un comando e ad accettare uno degli output generati: in questi casi, il ruolo creativo resta sostanzialmente dell’algoritmo.
La prima situazione – quella in cui l’autore elabora “attraverso” l’AI e ne orienta in modo consapevole il risultato – rappresenta la forma più alta e promettente di creatività assistita. È quella che il diritto dovrebbe preservare e valutare caso per caso, sulla base di evidenze concrete del contributo umano e del controllo estetico esercitato. La seconda, più comune, automatizzata e routinaria, rimarrà probabilmente fuori dal perimetro della tutela autoriale, come semplice fruizione di strumenti generativi.
La valutazione caso per caso del contributo creativo
In definitiva, la valutazione dell’apporto creativo non potrà che avvenire caso per caso, distinguendo tra chi delega alla macchina e chi la usa per amplificare – e non sostituire – la propria libertà artistica.













