the social dilemma

La realtà online è la causa di tutti i mali, o l’ignoranza? I social e il processo di “costruzione del nemico”

Informare la popolazione delle regole che governano il web è importante perché i cittadini smettano di essere passivi, alla mercé di varie strategie manipolatorie. Tuttavia informare non basta, è necessario allenare il ragionamento critico. E il dibattito sul docudrama The Social Dilemma lo dimostra

Pubblicato il 20 Gen 2021

Lorenza Saettone

Filosofa specializzata in Epistemologia e Cognitivismo, PhD Student in Robotics and Intelligent Machines for Healthcare and Wellness of Persons

social-dilemma

Se ne è già parlato tanto (forse addirittura troppo) di The Social Dilemma. Tanto che addirittura siamo fuori tempo massimo. Ma vogliamo trarre spunto dal noto documentario (o meglio Docudrama) di Netflix, diretto da Jeff Orlowski e concernente le manovre consce e gli effetti inintenzionali dei social network, per ampliare l’orizzonte e riflettere sul perché per evitare ogni estremizzazione, ogni dualismo banalizzante e per non cadere in inganni che scambiamo per libera scelta, c’è sempre e sempre più la necessità di alfabetizzazione, di conoscenza dei termini del digitale

“1000 non più 1000” è scritto in codice binario?

Sorveglianza, dipendenze, design oscuro, dataismo, violenza, fake news, manipolazione, tutti temi che The Social Dilemma tratta attraverso le testimonianze dirette dei programmatori (tutti ex dipendenti delle Big Tech) e attraverso una drammatizzazione stereotipata della tipica famiglia americana, le cui relazioni e individualità sono manovrate dal neuromarketing, dalla dipendenza generata dai social e dai Big Data.

Perché tanto clamore? Cos’è che ha reso così appealing The Social Dilemma? I toni apocalittici aiutano sempre a convogliare tanto pubblico, pronto ad accogliere la prospettiva millenaristica del nuovo Giovanni o a rifiutarla. Sia gli adepti sia i detrattori sono accomunati dalla certezza con cui giudicano il “nemico” preso in esame e altrettanto netto è il sermone del “profeta-regista”.

Non c’è spazio per un’analisi del fenomeno realmente critica, capace di tenere conto delle innumerevoli sfumature che lo riguardano. L’estremismo si nutre dell’incertezza delle persone e della loro richiesta di risposte facili e, pertanto, inevitabilmente parziali. In presenza di vuoto esistenziale, ogni radicalismo è il solo che, in tempi brevissimi, può colmare la mancanza. Diversamente, un approccio che relativizza le questioni, teso a evidenziare come nulla, in realtà, sia dualistico, diviso in posizioni rigide, in antitesi, svuoterebbe ancora di più l’essere umano, ponendolo di fronte all’incertezza connaturata all’essere di ogni cosa. Una puntuale critica al web lascerebbe il discorso aperto a ulteriori domande e possibilità ogni volta da contestualizzare. Ecco perché il tono millenaristico di The Social Dilemma ha avuto così tanta presa!

Secondo Hume tendiamo a collegare i fenomeni deterministicamente per un bisogno psicologico dell’essere umano e non ci sono evidenze che tali legami abbiano una qualche oggettività. Allo stesso modo la necessità di categorizzare e distinguere le cose tra buone e cattive si ricollega all’esigenza umana di ordinare, normalizzando il mondo sotto liste e categorie, tuttavia irreali. Dobbiamo agire, quindi ci inventiamo giudizi di valore su cui concordare in coro. Raggiungere la consapevolezza di non poter essere sicuri di nulla, nemmeno del fatto che domani il sole sorgerà, potrebbe porci in una condizione di immobilismo e di perdita esistenziale, pertanto ci convinciamo che la Natura sia regolare e che l’uomo possa conoscerne le leggi. In realtà, si tratta solo di una professione di fede: si proclama che la verità esiste e che non ha confini sfumati.

L’intenzione con cui è stato diretto The Social Dilemma è subito chiara. L’obiettivo è quello di dipingere la realtà online come la causa di tutti i mali. Dietro quest’accusa vi è, a mio avviso, il processo di costruzione del nemico, descritto anche da Alberoni a proposito dei gruppi in statu nascendi e della rottura con un paradigma fino a quel momento strutturale.

Quando una società attraversa un momento di crisi, si può mantenere lo status quo utilizzando meccanismi freudiani di proiezione e rimozione. Le persone tendono, infatti, a costruire un nemico esterno, su cui proiettare tutte le colpe, liberando, in questo modo, il vero colpevole dall’accusa. L’obiettivo è mantenere inalterata la situazione attuale, sulla quale abbiamo investito amore incondizionato. Immaginiamoci di aver creduto, fino ad ora, che la realtà sia necessaria, buona, giusta e che, ad un certo punto, cominciamo a scontrarci con il suo limite. Inizieremmo a maturare frustrazioni e risentimento, sentendoci profondamente traditi. Per salvare il nostro investimento nell’oggetto d’amore (società, famiglia, amici, istituzioni, Stato, Facebook, Amazon, capitalismo, Dio, soviet) e non rischiare di perderci nel vuoto, senza più appigli alle nostre credenze, cominciamo a proiettare l’aggressività verso un colpevole altro, un capro sacrificabile. È la soluzione più veloce, ma non può durare a lungo: a un certo punto si genererà una dissonanza cognitiva troppo ampia, che ci costringerà a riconoscere chi è il vero nemico (e soprattutto chi non è il male assoluto).

Cambiare la routine, le norme implicite ed esplicite, le istituzioni sulle quali fino ad ora abbiamo riposto la fiducia più piena sarebbe risolvere il problema alla radice. Per farlo dovremmo mettere in discussione noi stessi, il nostro investimento e, si sa, gli esseri umani non sono facili ad ammettere la propria debolezza. È preferibile pensare sia tutta colpa degli immigrati o di qualche complotto mondiale.

Anche The Social Dilemma, come The Verge ha intuito, assume la forma di una dietrologia. Il nostro male è il risultato degli algoritmi su cui vengono costruite le Big Tech. Basterebbe, allora, spegnere il telefono o licenziare Zuckerberg per creare una società di giusti. In realtà l’ambivalenza che proviamo in relazione alle tecnologie, agli strumenti, alla famiglia, alle istituzioni, agli amici, alla natura è la più pertinente delle reazioni emotive. Ogni oggetto con cui entriamo in rapporto non sarà mai totalmente buono o cattivo. Ogni cosa sarà utile o nociva a seconda delle circostanze. Pertanto non ha senso estremizzare il web, collocandolo su una qualche polarità morale. I social network e le loro proprietà non sono tranchant.

Tu quoque

Una delle accuse più facili che vengono mosse al documentario è quello di essere anche lui parte di una delle più importanti piattaforme online, anch’essa bulimica di dati: Netflix. The Social Dilemma potrebbe facilmente essere squalificato con l’argomento del “tu quoque”, per fortuna, però, si sa essere una nota fallacia logica. Non ha senso giustificare o negare il valore di un’affermazione, screditando chi la sta riportando solo perché anche lui (tu quoque) ne è vittima. Insomma, il fumo continuerebbe a essere nocivo, anche se il mio medico fosse fumatore e mi consigliasse di smettere.

Usare le testimonianze dei programmatori, mentre, pentiti, ammettono di aver manipolato l’opinione pubblica, creando radicalizzazioni, invidie, tristezza, narcisismo, ha un forte impatto di marketing. Se un Nobel per la medicina afferma che i vaccini sono il male, ha molta più forza rispetto al fatto che lo possa sbraitare una qualunque signora di Mondello. Non dico che le testimonianze nel docufilm siano viziate, ma di certo c’è una precisa cornice ideologica che guida tutta la regia. La propaganda insiste nel drammatizzare la rete, dipingendo Facebook, Pinterest, Twitter come gli attori invisibili di una manipolazione globale.

Oltretutto, che i Big Data restituiscano video e contenuti in base agli interessi di ciascuno mi pare, al contrario, una funzione utile. Banalmente, in quanto appassionata di ginnastica, ricevere nello scrolling di Instagram esercizi nuovi è un’informazione funzionale per il mio percorso. Non solo, se essere adulti è scegliere che si è, rinnovando tale decisione nel tempo, paradossalmente, i data analysts ci aiutano a mantenere fede alla nostra identità.

Il fatto che gli algoritmi ci suggeriscano in bacheca solo le tematiche che probabilmente potrebbero interessarci, anche in relazione al nostro stile cognitivo e personologico, non è lontano da quello che normalmente un essere umano fa. La nostra attenzione si attiva già selettivamente per i discorsi che ci toccano da vicino, mentre per ciò che non ci interessa restiamo disattenti. Per questa ragione, spesso, si rischia di pensare che il mondo sia perturbato dal nostro modo di essere o che sia una sorta di “The Truman Show”, misconoscendo il ruolo dell’attenzione nella scelta di cosa sia rilevante per i nostri scopi e di cosa si possa ignorare.

La realtà è prospettica, dipendente dal modo di osservare di ciascuno, tanto da poter quasi sostenere che tutti abbiano un mondo individuale e una propria verità. Pertanto, anche se i social network ci inviassero contenuti random, non necessariamente in linea con i nostri interessi e opinioni, essi tornerebbero a essere contenuti soggettivi. Ogni ente è interpretato in base alle categorie personali; ogni cosa è, come disse Kant, “fenomenica”. Ciò che osserviamo viene modellato sul nostro modo di vedere, come se ognuno guardasse dietro lenti colorate, aventi peculiari modi di deformare le proporzioni. Ogni post verrebbe, dunque, accomodato sui pre-giudizi di ciascuno, assumendo la forma che a priori viene assegnata alla “verità”. Non si può prescindere dalle proprie griglie interpretative, l’osservazione non sarà mai neutra. Sia che gli algoritmi ci facilitino questo tipo di ermeneutica soggettiva, sia che ci vengano somministrati post senza l’ausilio dei Big Data, ogni contenuto verrà comunque filtrato dal modo di pensare del soggetto e la bacheca apparirà sempre come un mondo personale.

Come conoscere criticamente il web

Certamente informare la popolazione delle regole che governano il web è importante perché i cittadini smettano di essere passivi, alla mercé di varie strategie manipolatorie. Allorché il funzionamento della tecnologia e i termini del web resteranno questioni non approfondite, le regole che sottendono internet appariranno invisibili e quindi ancora più pericolose. Tuttavia informare non basta, è necessario allenare il ragionamento critico dei soggetti, proponendo loro alternative tra cui scegliere. Per ora, infatti, l’aut-aut (o meglio “out-out”) resta quello di accettare il monopolio delle Big Tech o di disconnettersi, ed entrambe sono estremizzazioni non democratiche. Il pluralismo di istituzioni scolastiche, pubbliche, paritarie e non, è salutare per la scuola stessa, così anche per il web l’esistenza di una concorrenza valorizzerebbe anche le aziende.

Geert Lovink, noto teorico dei media e fondatore dell’Istituto di Network Culture di Amsterdam, da anni si impegna perché i cittadini acquisiscano consapevolezza, proponendo, allo stesso tempo, piattaforme meno “piatte”, nullificanti.

Quando si accenna alla necessità di sviluppare la digital literacy tra i cittadini, spesso si intende l’alfabetizzazione intorno alle tecniche di digital marketing, quindi il sapersi vendere online, il saper condividere e non di certo il pensiero critico. Quest’ultimo si configura proprio quale ragionamento intorno all’alfabetizzazione digitale, perché si possano comprendere le regole del web, ponendo dei limiti ai condizionamenti.

Sad by design

Nel 2019 Lovink pubblicava un saggio eloquentemente intitolato Sad by design. Secondo lui, siamo sempre più tristi a causa delle affordances suggerite dalle interfacce della rete. Online veniamo indirizzati a compiere azioni, di modo che le Big Tech ottengano sempre più dati. Veniamo ingannati che le nostre azioni siano il frutto di una libera scelta. Secondo Geert è proprio questa menzogna che ci porta a una condizione di nichilismo. Nulla è in nostro potere. Il mondo che ci viene posto dinanzi è solo una realtà priva di senso, pre-formata. Il significato invece dovrebbe essere un’attribuzione soggettiva, volontaria, libera e responsabile, una stima con cui definire la nostra “potenza”, il nostro essere.

Online tutto è ingegnerizzato perché si risponda a precise call to action, illudendoci che l’ipertesto non sia una visita guidata. La navigazione, metafora dei nostri movimenti su internet, appare simile a quella di Ulisse. Il noto eroe non era mosso dal libero arbitrio, ma era specificamente indirizzato da Poseidone, in collera con l’acheo a causa del figlio ciclope. In ogni caso, anche a livello più profondo, Ulisse non è mai libero di decidere. Egli, come personaggio inventato, è volontariamente mosso da Omero, che esiste e non esiste, un po’ come l’algoritmo. Anche noi siamo spinti a scegliere ciò che è già scelto per noi, non potendo interrompere la navigazione. Non possiamo tornare a casa: dobbiamo restare collegati e smarriti in questa vana curiosità di non poterci perdere nulla (fear of missing out).

In realtà, anche la dipendenza dai social, per come è descritta nel docufilm, non è precipua di internet. Anche Leopardi era dipendente dallo studio. Tuttavia, siccome la conoscenza è ritenuta un valore, non giudichiamo nella stessa misura il tempo che un ragazzo passa sui libri o, ad esempio, alla Playstation.

Gli smartphone, inoltre, integrano moltissimi media. Se un tempo sembrava che durante la giornata ci occupassimo di più attività rispetto a un Millenial qualunque, è solo perché informarsi, studiare, guardare un film, sentire la musica, contattare gli amici, produrre, scattare foto, disegnare non erano azioni eseguibili attraverso un unico strumento come invece oggi, grazie alla digitalizzazione delle informazioni.

Non solo, secondo Lovink le Big Tech hanno ormai troppi dati relativi alle attività in rete. Si rischia, a tal proposito, il noto fenomeno dell’overfitting. Tale effetto sussiste quando, essendoci una mole sterminata di informazioni, si ottengono, come output, correlazioni fantasiose. È superstizione 2.0. Al data mining servono molti meno dati rispetto a un tempo. Gli smartphone hanno incluso timer che ci informano sul tempo trascorso online così da indurci sensi di colpa e spingerci a uscire, compiendo altre azioni rispetto a quelle che potremmo eseguire su Facebook. Da una parte si eviterebbe l’overfitting, dall’altra gli algoritmi disporrebbero di nuove fonti di dati da computare e da cui trarre benefici. Non si tratta di umanesimo ed etica del design: ogni azione è quasi sempre strategicamente costruita per ottenere un profitto (e nemmeno questa è una novità esclusiva del web).

Conclusione

Da un lato The Social Dilemma fallisce nell’obiettivo di stimolare un dibattito veramente critico, ma dall’altro, proprio per questo, può dare l’abbrivo a un’analisi fondata, capace di tener conto della complessità della questione, evitando di banalizzare il web in un dualismo duro a morire, quello che separa gli apocalittici dagli integrati. Conoscere i termini del digitale è importantissimo anche per difenderci da molti truffatori. Il recente caso portato sullo schermo dalle Iene, “Do you know Mirco Scarcella?”, è stato possibile solo perché l’Italia e i suoi media tradizionali restano apocalittici, diffidenti e allo stesso tempo attratti dal web e dalle sue possibilità. Se avessimo avuto un’infarinatura su cosa sia “l’algoritmo” e su come funzionano i social, non avremmo permesso che il millantatore di Instagram si riempisse la bocca (e le tasche) con una bica di sciocchezze. Chiunque avrebbe avuto gli strumenti per capire che il discorso di Scarcella era privo di senso. L’algoritmo non non è una parola magica che, se strofinata, può esaudire tre desideri.

Insomma, sul web, come in ogni altro ambiente, deve sempre valere il consiglio “Sapere Aude!” e cioè “Abbi il coraggio di servirti della sua ragione!”.

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