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L’oblio tradito: cosa perdiamo se la memoria diventa prigione digitale



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La memoria digitale trasforma il nostro rapporto con ricordi e identità. Mentre i dispositivi archiviano tutto perfettamente, perdiamo la capacità umana di dimenticare, fondamentale per crescere e perdonare

Pubblicato il 2 ott 2025

Fabrizio Degni

AI Ethics and Governance



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La memoria umana nell’era dell’IA si trova in bilico tra ricordo biologico e archivio digitale. Questo dualismo non riguarda solo la tecnologia, ma investe identità, etica e società, spingendoci a riflettere sul nostro rapporto con il passato e il futuro.

Memoria umana e memoria digitale: due domini a confronto

Cos’è per voi la memoria umana? E quella digitale?

La risposta non è banale perché in un mondo dominato dalla tecnologia, dove gli algoritmi influenzano e condizionano, spesso senza che ne siamo consapevoli, gran parte della nostra vita e l’intelligenza artificiale permea ogni aspetto del quotidiano, la distinzione è tanto sottile quanto impalpabile. In realtà sono due i domini con cui quotidianamente ci confrontiamo, tanto diversi quanto fra loro comunicanti: da un lato, i dispositivi digitali che offrono una memoria apparentemente perfetta, un archivio infinito di dati accessibile in un istante, liberandoci dall’onere di ricordare tutto, dall’altro la nostra memoria e questa crescente dipendenza dalle macchine che ci porta a delle inevitabili domande: chi siamo quando i nostri ricordi sono ridotti a sequenze di bit? Siamo ancora i protagonisti delle nostre storie o solo riflessi di un sistema che non dimentica mai?

Cerchiamo di rispondere o quantomeno offrire prospettive da cui guardare questa divergenza fondamentale tra la memoria umana, intesa come processo biologico ricostruttivo, emotivo e adattivamente fallibile e la memoria digitale, artefatto tecnologico riproduttivo, letterale e persistentemente perfetto, andando oltre il tecnicismo perché questo dualismo porta a valutazioni sulla stessa identità del singolo, nonché sulle dinamiche di potere sociale e sui principi etici fondamentali della nostra epoca.

In questo viaggio, cinque tappe: le fondamenta scientifiche e filosofiche, analizzando le architetture cognitive e biologiche della memoria umana per dimostrare come le sue “imperfezioni” siano, in realtà, caratteristiche evolutive essenziali, rimandando per approfondimenti alla consultazione dei riferimenti nella bibliografia. Nella seconda parte esamineremo le conseguenze psico-sociali dell’esternalizzazione della memoria, un fenomeno noto come cognitive offloading, e il suo impatto sulle nostre capacità di attenzione e pensiero critico. Nella terza parte sposteremo l’attenzione sulle sfide etiche e legali poste dall’archivio digitale permanente, esplorando il concetto di “diritto all’oblio” e la problematica gestione della memoria post-mortem. Per la quarta parte sposteremo l’analisi dal piano individuale a quello collettivo, investigando come la memoria condivisa venga oggi plasmata e manipolata dalle logiche algoritmiche e dagli imperativi economici del “capitalismo della sorveglianza”. Infine, l’ultima parte con riflessioni su ciò che siamo o potremmo essere.

L’oblio come funzione adattiva e la sfida dell’archivio digitale

Perché dimenticare è umano.

Per comprendere appieno le implicazioni etiche e psico-sociali della memoria digitale, è indispensabile partire da una disamina delle differenze ontologiche che separano il ricordo biologico da quello computazionale, caratteristiche spesso percepite come “difetti” della memoria umana, ma la sua fallibilità, la sua natura emotiva e la sua tendenza a dimenticare sono in realtà funzioni adattive frutto di milioni di anni di evoluzione, parte del nostro essere. La perfezione letterale della memoria digitale, al contrario, si rivela essere una forma di rigidità che, pur offrendo vantaggi in termini di archiviazione, è di sua natura aliena ai processi vitali della cognizione umana. Descriviamo la memoria umana con termini presi in prestito dalla tecnologia: “annoto” un’idea, “recupero” un’informazione, tuttavia, questa analogia, per quanto intuitiva, è profondamente fuorviante e oscura la vera natura del ricordo biologico.

Le basi biologiche della memoria umana

La memoria umana non è un semplice contenitore di dati, ma un processo dinamico, creativo e incarnato nella biologia stessa del nostro sistema nervoso.

A livello cellulare, la memoria non è un “file”, non è qualcosa di direttamente individuabile grazie ai singoli ricordi, naturalmente, ma un cambiamento fisico e dinamico nella struttura del cervello, la capacità del sistema nervoso di modificare la forza e la struttura delle connessioni tra neuroni (le sinapsi) in risposta all’esperienza: questo processo è il fondamento neurobiologico dell’apprendimento e della memoria (il meccanismo più studiato alla base della plasticità sinaptica è il Potenziamento a Lungo Termine (LTP)), fenomeno per cui una stimolazione intensa e ripetuta di una sinapsi ne aumenta la forza in modo duraturo, rendendo la comunicazione tra i neuroni coinvolti più efficiente. In altre parole, la memoria non è un’entità astratta, ma è letteralmente “scolpita” nella struttura neurale.

Immagine 1: Potenziamento a lungo termine (fonte: wikipedia)

Ci sono naturalmente altre componenti coinvolte, l’ippocampo, ad esempio, una struttura situata in profondità nei lobi temporali, gioca un ruolo cruciale in questo processo, agendo non come un’unità di archiviazione passiva, ma come un “hub” dinamico per la codifica e il consolidamento dei ricordi, trasformando le esperienze a breve termine in memorie stabili a lungo termine.

Se ci pensate, questa natura biologica e plastica marca una linea netta tra memoria umana e memoria digitale: da un lato le unità di archiviazione digitali che salvano i dati in locazioni discrete senza alterare la propria struttura fondamentale dall’altra il cervello che “vive” e “diventa” i suoi ricordi, modificando costantemente la propria architettura.

La memoria (umana) è, quindi, un vero e proprio atto ricreativo e psicologi come Frederic Bartlett hanno dimostrato come questi ricordi non sono affatto una riproduzione fedele del passato ma un processo di ricostruzione attiva, in cui le persone utilizzano le proprie conoscenze pregresse, le proprie aspettative e i propri “schemi” mentali per dare un senso a frammenti di informazione passata. Tale visione è stata ampiamente confermata e approfondita da ricercatori contemporanei come Daniel Schacter secondo il quale “la memoria non è una fotografia, ma un dipinto”, un’immagine che si trasforma con il tempo, arricchita o distorta da nuove esperienze, emozioni e riflessioni. I ricordi non sono entità monolitiche, ma mosaici composti da frammenti di informazioni sensoriali, emotive e semantiche distribuiti in diverse aree del cervello.

L’atto del ricordare consiste, quindi, nel riunire questi frammenti in un’esperienza coerente, un processo che è intrinsecamente vulnerabile a errori e distorsioni, ma che conferisce anche alla nostra mente una straordinaria flessibilità. Si tratta di una capacità peculiare della memoria, una dote unica nello scomporre le esperienze passate nei loro elementi costitutivi e nel ricombinarli in modi nuovi e flessibili in grado di dar vita a costruire simulazioni mentali di eventi futuri plausibili, qualcosa del tutto avulso e inconcepibile pensando ai sistemi di archiviazione digitale, capaci solo di ricalcare fedelmente registrazioni passate, che finiscono per intrappolarci in un eterno presente, senza questa capacità di proiettarci creativamente nel futuro. Abbiamo parlato di perfezione della memoria digitale e questa caratteristica la rende retrospettiva, uno strumento perfetto per guardare indietro, al passato, ma inadatta come l’imperfezione ed imprecisione della memoria umana ad intraprendere percorsi creativi, di adattare ed immaginare per guardare e costruire futuri non già scritti.

Il ruolo delle emozioni nei ricordi

Un ulteriore elemento che separa la memoria umana da quella digitale sono le emozioni: un ricordo umano non è mai un dato neutro, è sempre intriso di una valenza affettiva che ne determina la salienza, l’intensità, l’importanza, la continuità e il significato inteso come impatto che ha su ciascuno di noi. La memoria digitale, al contrario, è un’istantanea fredda e immutabile, priva di queste sfumature emotive che costituiscono l’essenza dell’esperienza vissuta (centro di questa fusione tra cognizione ed emozione è l’amigdala, un “evidenziatore” emotivo per i nostri ricordi, che fa sì che gli eventi emotivamente carichi vengano codificati in modo più profondo e duraturo rispetto a quelli neutri).

CaratteristicaMemoria UmanaMemoria Digitale
NaturaRicostruttiva, dinamica, associativaRiproduttiva, statica, letterale
SubstratoBiologico (reti neurali, sinapsi, …)Fisico/Elettronico (silicio, magnetismo, …)
CodificaSemantica, emotiva, multi-sensorialeBinaria, acontestuale
RecuperoFallibile, suggestionabile, dipendente dal contestoPerfetto (se non corrotto), letterale, indipendente dal contesto
OblioProcesso attivo e adattivo (decadimento, interferenza)Anomalia (cancellazione deliberata, corruzione)
TemporalitàFluida, soggettiva (e.g. durata di Bergson)Discreta, oggettiva, indicizzata
Relazione con l’IdentitàCostitutiva, narrativa (e.g. Locke, Proust)Archivistica, referenziale
Funzione primariaAdattamento, previsione, apprendimentoArchiviazione, riproduzione fedele

Tabella 1: confronto tra memoria digitale e memoria umana

Il ricordo di un evento non è semplicemente la registrazione di “cosa” è accaduto, ma è inseparabile dal “come ci si è sentiti” in quel momento: la memoria digitale può registrare i fatti con precisione assoluta ma non può catturare la qualità dell’esperienza vissuta proprio perché manca della dimensione soggettiva perché tendiamo a ricordare le esperienze non nella loro interezza, ma in base ai loro picchi emotivi (i momenti più intensi) e alla loro conclusione.

La nostra memoria seleziona e organizza il passato in base al suo significato emotivo, creando una storia personale che è unica per ciascuno di noi.

La fallibilità come caratteristica adattiva

Naturalmente questa sensibilità, questo legame tra emozioni e ricordi rende la memoria umana anche estremamente malleabile e soggetta a distorsioni per cui, ad esempio, emozioni intense possono focalizzare la nostra attenzione su alcuni dettagli a scapito di altri o, come dimostrato dalla psicologa Elizabeth Loftus nel suo studio sull’effetto della disinformazione dove informazioni fuorvianti introdotte dopo un evento possano essere incorporate nel ricordo originale, creando falsi ricordi. La suggestionabilità della memoria umana, specialmente in stati di alta emotività, rivela che i nostri ricordi non sono archivi sicuri, ma narrazioni in continua evoluzione, plasmate non solo dal passato reale, ma anche dalle nostre esperienze, credenze ed emozioni successive però queste “problematiche” in realtà viste sotto una differente sono proprio parte della nostra capacità di reinterpretare il passato alla luce del presente, di perdonare e di andare avanti.

La memoria non è quindi solo qualcosa che abbiamo ma ciò che siamo?

È una riflessione filosofica da John Locke su cui si può essere o meno concordi, tuttavia, è evidente quanto complessa possa essere riportarla ad una natura unicamente digitale in cui tutti questi aspetti, innati nell’uomo, devono essere codificati in un linguaggio “standard” ed universale, anzi binario. Potremmo toccare altre interessanti riflessioni in questa analisi (Henri Bergson, con la distinzione tra memoria abitudine e memoria pura, Marcel Proust tra memoria volontaria e involontaria) tuttavia il concetto chiave è che la memoria agisce come un filo che lega passato, presente e futuro in una storia coerente, sebbene mutevole, un filo che l’avvento della memoria digitale sta trasformando radicalmente in eventi discreti, oggettivi e indicizzati dove il nostro rapporto con il passato si sta spostando dal “raccontare una storia su di me” al “cercare un dato su di me”. La tecnologia deve essere a supporto dell’uomo non stravolgerne l’esistenza come invece sta accadendo ed il mutamento di cui siamo complici impatta direttamente la costruzione dell’identità: stiamo transitando da un “sé narrativo”, capace di integrare, reinterpretare e crescere, a un “sé di contesto”, potenzialmente più frammentato, meno integrato e più vulnerabile alla tirannia di dati passati, presentati come fatti immutabili e decontestualizzati.

L’effetto Google e il cognitive offloading

Il quadro finora affrescato mostra questa tendenza alla delega, all’esternalizzazione delle attività cognitive, agevolata per la sempre maggiore disponibilità e diffusione di dispositivi digitali, per tutte le fasce economiche e, purtroppo, anche di età: pensare di vivere o anche solo di uscire senza uno smartphone oggi appare impossibile, irrealistico ed impraticabile perché sono a tutti gli effetti delle protesi mnemoniche: si parla infatti di “cognitive offloading” (scarico cognitivo) che se da un lato offre innegabili vantaggi in termini di efficienza e liberazione di “risorse mentali”, dall’altro solleva profonde preoccupazioni riguardo alle sue conseguenze a lungo termine sulle nostre capacità cognitive intrinseche, in particolare sull’attenzione, la memoria e il pensiero critico.

Il cognitive offloading può essere definito come la tendenza a utilizzare strumenti e risorse esterne per ridurre il carico cognitivo interno, un comportamento che viene naturalmente incentivato quando lo strumento è facilmente accessibile e il compito mentale è percepito come oneroso. Sebbene l’uso di supporti esterni per la memoria non sia una novità (in passato si usavano tavolette d’argilla, fino a qualche anno fa block-notes cartacei), la pervasività, l’immediatezza, le loro capacità di integrazione con li mondo esterno e la potenza dei dispositivi digitali hanno portato questo comportamento ad un livello da massa critica, quindi significativo.

Il fenomeno è stato identificato e concettualizzato per la prima volta in modo scientifico da Betsy Sparrow, Jenny Liu e Daniel Wegner in un celebre studio del 2011 in cui hanno introdotto il concetto di “effetto Google” dimostrando come le persone, quando sanno che un’informazione sarà salvata e facilmente reperibile in un secondo momento (ad esempio, su un computer), mostrano una minore tendenza a memorizzare l’informazione stessa.

Immagine 2: “AI Tools in Society: Impacts on Cognitive Offloading and the Future of Critical Thinking” MDPI

Invece di codificare il contenuto (“cosa”), la nostra memoria si concentra sul percorso per recuperarlo (“dove”).

Internet, in questo senso, viene percepito e utilizzato come una sorta di memoria transattiva esterna, un partner cognitivo a cui deleghiamo la responsabilità di ricordare i fatti ma naturalmente questo approccio in realtà ha un notevole impatto, rimodellando l’architettura della nostra cognizione, trasformandola da un sistema primariamente focalizzato sulla conservazione dei dati a uno specializzato nella gestione dei percorsi di accesso a tali dati ma non senza punti di attenzione in quanto sebbene questo adattamento possa sembrare una strategia efficiente per gestire il sovraccarico informativo dell’era digitale, il costo da pagare è un evidente trade-off cognitivo sul consolidamento della memoria a lungo termine per il quale sacrifichiamo la profondità dell’apprendimento in cambio di un’efficienza immediata e superficiale.

L’atrofia del pensiero critico

Possiamo quindi parlare di atrofia del pensiero critico?

Le implicazioni del cognitive offloading cronico vanno oltre la semplice memorizzazione di fatti e questa crescente dipendenza da strumenti esterni, e le intelligenze artificiali generative non limitandosi a fornire informazioni ma elaborandole e le sintetizzandole per noi rappresentano un ulteriore rischio, solleva preoccupazioni riguardo a un potenziale indebolimento di facoltà cognitive di ordine superiore, come l’attenzione sostenuta e il pensiero critico. L’ambiente digitale in cui avviene l’offloading è caratterizzato da un flusso costante di stimoli e interruzioni basti pensare alle notifiche, il multitasking, la rapida alternanza tra diverse fonti di informazione ed input che frammentano la nostra attenzione, rendendo difficile mantenere la concentrazione prolungata necessaria per il pensiero profondo e l’apprendimento significativo. Il neuroscienziato David Eagleman ha sottolineato che la neuroplasticità non è selettiva: il cervello rafforza le connessioni che usa e lascia indebolire quelle che trascura ma ciò significa che delegando costantemente funzioni come l’analisi, la sintesi e la valutazione a strumenti esterni si rischia di portare a una regressione funzionale delle aree cerebrali e delle reti neurali dedicate a tali compiti.

Atrofia del pensiero pensiero critico, quindi?

Nel reiterare questa domanda, possiamo evidenziare come studi recenti hanno esplorato il legame tra l’uso di strumenti di IA e le capacità di pensiero critico identificando una significativa correlazione negativa: gli individui che utilizzavano più frequentemente strumenti di IA per ottenere risposte rapide e risolvere problemi mostravano abilità di pensiero critico più deboli. Il cognitive offloading?

E’ stato identificato proprio come il fattore mediatore chiave in questa relazione. Affidarsi all’IA per compiti cognitivi sembra ridurre le opportunità e la necessità di impegnarsi in un’analisi indipendente, nella valutazione delle fonti e nella sintesi riflessiva per ore, non minuti. Il fenomeno è particolarmente pronunciato tra le generazioni più giovani (17-25 anni), i cosiddetti “nativi digitali”, che mostrano una maggiore tendenza all’offloading e, correlativamente, punteggi più bassi nei test di pensiero critico rispetto alle generazioni più anziane.

Tuttavia, lo stesso studio ha evidenziato un interessante “fattore protettivo”: un livello di istruzione più elevato aiuta a mitigare questo effetto quindi gli individui con un’istruzione superiore tendono a mantenere forti capacità di pensiero critico anche con un uso frequente dell’IA, suggerendo che l’educazione formale può fornire le strategie metacognitive necessarie per interagire con la tecnologia in modo più critico, senza subirla. Si tratta di risultati che sebbene correlazionali e non ancora in grado di stabilire una causalità definitiva, delineano uno scenario preoccupante, alla base di un ciclo di feedback auto-rinforzante: un individuo delega un compito cognitivo all’IA per efficienza, il mancato esercizio indebolisce le competenze cognitive associate, al compito successivo, lo sforzo richiesto per eseguirlo internamente è percepito come maggiore, rendendo l’offloading ancora più attraente. Un circolo vizioso quindi? A quanto pare, sì, un processo dinamico che potrebbe portare a una spirale di dipendenza cognitiva, con implicazioni allarmanti per l’autonomia intellettuale a lungo termine, specialmente per le generazioni che entrano in questo loop fin dalle prime fasi del loro sviluppo cognitivo.

La sfida per la società e per il sistema educativo per mitigare e riallineare questa atrofia del pensiero cognitivo diventa quindi quella di promuovere, ed introduciamo un altro interessante concetto, una vera e propria ecologia digitale consapevole, che insegni a governare la tecnologia invece di esserne governati, distinguendo tra il “sapere” e il semplice “accedere” all’informazione.

Sfide etico-legali dell’archivio digitale permanente

Giunti fin qui è chiaro che la caratteristica più rivoluzionaria e, al contempo, critica della memoria digitale è la sua persistenza, una caratteristica che a differenza della memoria umana, soggetta a un naturale e salutare processo di oblio, è progettata per la permanenza. Ogni dato, una volta registrato, può potenzialmente rimanere accessibile per sempre, creando un archivio onnicomprensivo e indelebile del nostro passato, una “registrazione totale” che sfida presupposti millenari sulla natura del tempo, del perdono e dell’identità, sollevando, come anticipato, questioni etiche e legali senza precedenti.

Il diritto all’oblio nell’era digitale

Contrariamente alla percezione comune che vede la dimenticanza come un fallimento, la psicologia e le neuroscienze contemporanee riconoscono sempre più l’oblio come una funzione attiva e adattiva del cervello perché in realtà dimenticare non è un processo passivo di decadimento, ma un meccanismo indispensabile che ci permette di filtrare le informazioni irrilevanti, generalizzare dall’esperienza, superare eventi traumatici e adattarci a un mondo in continuo cambiamento.

L’oblio ci rende cognitivamente flessibili e psicologicamente resilienti: “per ogni agire ci vuole oblio” (Nietzsche) poiché l’incapacità di dimenticare ci renderebbe prigionieri del passato, incapaci di vivere nel presente.

Nel suo libro “Delete: The Virtue of Forgetting in the Digital Age”, Viktor Mayer-Schönberger analizza le profonde conseguenze della fine dell’oblio nell’era digitale: egli sostiene che la combinazione di digitalizzazione, archiviazione a basso costo e facile reperibilità ha invertito il rapporto storico tra ricordo e oblio in quanto per millenni dimenticare era la norma e ricordare richiedeva uno sforzo mentre oggi, ricordare è l’impostazione predefinita e dimenticare richiede un’azione deliberata e spesso inefficace. La memoria digitale totale, secondo Mayer-Schönberger, ha diverse conseguenze deleterie: in primo luogo, mina la nostra capacità decisionale, inondandoci di informazioni passate, spesso irrilevanti o fuorvianti, che possono paralizzare il giudizio nel presente; in seconda istanza, ci nega la possibilità di evolvere perché in un certo qual modo ci ancora a versioni precedenti di noi stessi, alle nostre opinioni giovanili, ai nostri errori, alle nostre relazioni passate rendendo difficile la crescita e il cambiamento.

Ci viene negata la “seconda occasione” che l’oblio sociale un tempo garantiva ma anche quella capacità al perdono, sia a livello interpersonale che sociale, mantenendo vive le offese e i conflitti del passato con una chiarezza cristallina, anzi digitale.

L’impatto di questo archivio permanente sull’identità personale è significativo perché se, come visto nella, il Sé è una narrazione fluida e in continua evoluzione, la memoria digitale rischia di fissarlo in una forma statica e immutabile: ciascuno di noi possiede un “doppione digitale”, un profilo costruito algoritmicamente attraverso le tracce lasciate online, che modella una rappresentazione predittiva del nostro essere.

L’”io digitale” però è spesso parziale, decontestualizzato e non tiene conto della nostra evoluzione interiore, ma può esercitare un’influenza potente sulla nostra vita, dalle opportunità lavorative alle relazioni sociali.

La discrepanza tra il nostro Sé vissuto, che cambia e si adatta, e il nostro Sé archiviato, che rimane fisso, può generare una profonda dissonanza psicologica: l’ansia reputazionale diventa una condizione pervasiva, poiché siamo costantemente giudicati sulla base di un passato che non possiamo né modificare né lasciar svanire.

La legislazione europea sull’oblio

La memoria digitale, in questo senso, può trasformarsi da utile strumento a una “forma di tirannia”, una prigione biografica da cui è impossibile evadere però in risposta a questa nuova “tirannia” del passato, è emersa in Europa una nuova e controversa costruzione giuridica: il diritto all’oblio come tentativo di reintrodurre artificialmente la dimenticanza in un ecosistema digitale progettato per ricordare, e incarna una lotta per il controllo sulla propria narrazione identitaria.

Il diritto all’oblio ha radici nella giurisprudenza nazionale di diversi paesi europei, in particolare in Italia, dove è stato riconosciuto come un’espressione del diritto alla privacy e all’identità personale fin dagli anni ’90 ma ha acquisito una dimensione continentale e una notorietà globale con la storica sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea nel caso Google Spain c. Costeja González del 2014, un caso scuola, in cui la Corte ha stabilito che gli individui hanno il diritto di richiedere ai motori di ricerca la de-indicizzazione (la rimozione dai risultati di ricerca associati al loro nome) di link a informazioni che, sebbene originariamente lecite e veritiere, sono diventate “inadeguate, non pertinenti o non più pertinenti o eccessive” con il passare del tempo. La Corte ha qualificato i motori di ricerca come “titolari del trattamento” dei dati personali, rendendoli direttamente responsabili e soggetti alla normativa europea sulla privacy, anche se l’informazione rimane presente sul sito web originale. In Italia è stato successivamente codificato e rafforzato nell’Articolo 17 del Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (GDPR), entrato in vigore nel 2018, noto come “Diritto alla cancellazione (“diritto all’oblio”)”. Il GDPR stabilisce le condizioni specifiche in cui un individuo può richiedere la cancellazione dei propri dati personali e obbliga il titolare del trattamento non solo a cancellare i dati, ma anche a informare altri titolari che li stanno trattando della richiesta di cancellazione. Il diritto all’oblio non è assoluto ed ogni richiesta di oblio richiede quindi un complesso bilanciamento di interessi tra il diritto alla privacy e all’identità personale dell’individuo e il diritto del pubblico a essere informato, bilanciamento che è al centro di un acceso dibattito internazionale tra dare una forte protezione ai dati personali a primeggiare la libertà di espressione: come sempre e giusto che sia non c’è mai una verità assoluta, un punto di vista unico ed universale… o in realtà per alcuni principi o diritti si dovrebbero adottare metriche e criteri di valutazione universali, indipendentemente dalla storia o cultura?

La memoria dopo la morte

La permanenza della memoria digitale solleva questioni ancora più complesse e delicate quando si confronta con la sensibilità e finitezza della vita umana:

Cosa succede alle nostre tracce digitali i nostri profili social, le nostre e-mail, le nostre foto dopo la nostra morte?

Chi ha il diritto di accedervi, gestirle o cancellarle?

In che misura e modo tali informazioni possono essere condivise?

Quanto di tali informazioni il defunto avrebbe voluto condividere?

Immagine 3: “The Afterlife in the Age of AI A psychological, ethical, and technological analysis” I rischi associati.

In un’era di connessione pervasiva, diventa difficile “lasciar andare”.

I profili dei defunti rimangono spesso attivi, generando notifiche di compleanno, suggerimenti di amicizia e ricordi algoritmici (“In questo giorno…”) che irrompono inaspettatamente nella vita dei vivi. La presenza costante di questo “fantasma digitale” dissolve il confine tra passato e presente, intrappolando i superstiti in una condizione sospesa, un ciclo di ricordo perpetuo che rende difficile per la sofferenza sfumare, come definito dalla sociologa Sherry Turkle, un “lutto impossibile”, una “memoria in loop” che può interferire con il naturale processo di elaborazione del lutto e richiedere un graduale distanziamento e una rinegoziazione del legame con la persona scomparsa.

A livello legale, la gestione dei dati post-mortem è un territorio ancora largamente inesplorato e non armonizzato e la situazione è ulteriormente complicata dalle policy dei singoli provider, che spesso agiscono come veri e propri legislatori privati: piattaforme come Facebook hanno sviluppato meccanismi specifici, come la trasformazione di un profilo in un account commemorativo o la designazione di un “contatto erede” con poteri limitati.

Google, attraverso la sua funzione di “Gestione account inattivo”, permette agli utenti di decidere in anticipo cosa fare dei propri dati dopo un periodo di inattività. Altri servizi, come Yahoo!, prevedono semplicemente la non trasferibilità e la cancellazione dell’account alla morte dell’utente. La frammentazione e bulimia di regole, spesso contenute in termini di servizio complessi e soggetti a modifiche unilaterali, crea incertezza non poche incertezze in quanto affida decisioni di profondo valore personale e affettivo al potere discrezionale delle aziende tecnologiche: un campanello d’allarme, una privatizzazione su vasta scala delle funzioni mnemoniche e rituali della società perché in passato la gestione della memoria pubblica e dei riti del lutto erano funzioni sociali, culturali e religiose, mediate dalla comunità (monumenti, archivi, cerimonie funebri) mentre oggi le decisioni fondamentali su chi ha il diritto di essere dimenticato e su come i defunti debbano essere ricordati sono sempre più dettate dai termini di servizio e dagli imperativi commerciali di un piccolo numero di aziende tecnologiche globali.

Il capitalismo della sorveglianza

Le conseguenze? Il passaggio del controllo sulla narrazione della nostra vita e morte in una sfera opaca, algoritmica e non democraticamente responsabile, in cui le esperienze più intime e umane finiscono per essere burocrazia da policy aziendale.

Se la memoria digitale sta trasformando l’identità individuale, il suo impatto sulla memoria collettiva il modo in cui le società e i gruppi ricordano e interpretano il loro passato condiviso è altrettanto profondo e rivoluzionario perché nell’era digitale, la memoria collettiva non è più fondata primariamente da istituzioni tradizionali come la famiglia, lo stato, la scuola ma è sempre più il prodotto di interazioni complesse e decentralizzate che avvengono su piattaforme digitali, dove forze tecnologiche ed economiche volutamente opache plasmano attivamente ciò che viene ricordato, come viene ricordato e da chi. Il concetto classico di memoria collettiva, introdotto dal sociologo Maurice Halbwachs, la descriveva come un processo sociale, in cui i ricordi individuali sono inquadrati e sostenuti da strutture sociali (la famiglia, la classe sociale, la nazione) ma ora appare fuori tempo, anacronistica perché viviamo in un mondo con narrazioni relativamente instabili con un controllo decentralizzato in cui in pochi decidono per molti.

Per descrivere questa nuova ecologia della memoria, lo studioso dei media Andrew Hoskins ha coniato il termine “memoria connettiva” (connective memory) in cui a differenza della memoria collettiva tradizionale, che enfatizza l’appartenenza a un gruppo, la memoria connettiva emerge dalle connessioni tra innumerevoli utenti, dati e archivi digitali quindi non più una narrazione top-down, ma un processo bottom-up e distribuito, co-prodotto in tempo reale da milioni di utenti che condividono, commentano e rimodellano i contenuti in cui un evento passato può essere “riattivato” e vissuto in tempo reale attraverso la condivisione di ricordi, foto e video, creando un’esperienza di “memoria vivente”. Il prodotto di un’interazione costante tra l’agire umano e l’agire tecnologico (gli algoritmi, le architetture delle piattaforme), de-gerarchizzata, in grado di sfidare le tradizionali strutture di potere che controllavano la narrazione storica, introducendo al contempo nuove e complesse forme di controllo algoritmico.

Facciamo un ulteriore passo avanti: se la memoria connettiva descrive il come la memoria collettiva opera oggi, la teoria del capitalismo della sorveglianza spiega il perché opera in un certo modo, svelando gli imperativi economici che guidano la curatela algoritmica del nostro passato condiviso. In “The Age of Surveillance Capitalism”, Shoshana Zuboff propone una nuova logica di accumulazione capitalistica che ha trasformato l’esperienza umana in una risorsa da estrarre. Secondo Zuboff, le aziende tecnologiche non si limitano a usare i dati che forniamo volontariamente per migliorare i loro servizi ma si appropriano unilateralmente del “surplus comportamentale”: i metadati, le tracce digitali, le inferenze sui nostri stati d’animo, interessi e relazioni, che vengono generati come “scarto” delle nostre interazioni online. Il surplus derivante, che include le nostre memorie condivise, i nostri “mi piace” su eventi storici, le nostre conversazioni sul passato, viene trasformato in “prodotti predittivi”, prodotti che non prevedono solo cosa compreremo, ma anche cosa penseremo, come voteremo e come ci comporteremo per essere poi venduti in nuovi tipi di mercati, che Zuboff chiama “mercati dei futures comportamentali”, a clienti interessati a influenzare e modificare il comportamento umano su larga scala.

La memoria (sia individuale che collettiva) cessa quindi di essere un’esperienza personale o un bene culturale per diventare un asset economico strategico in cui banalmente le funzioni di “ricordo” delle piattaforme social, come “accadde oggi” o i riepiloghi annuali, non sono strumenti neutrali progettati per il nostro benessere psicologico ma in realtà meccanismi per generare engagement, riattivare dati “dormienti” e raccogliere nuove informazioni sul nostro stato emotivo e sulle nostre reti sociali, al fine di affinare i modelli predittivi.

L’algoritmo che sceglie quale ricordo mostrarci non è un archivista benevolo, ma un agente economico che opera secondo una logica di massimizzazione del profitto. Zuboff sostiene che la fase più avanzata di questo processo non è più solo la previsione, ma l'”attuazione”: le piattaforme non si limitano a scommettere sul nostro futuro, ma intervengono attivamente per “sintonizzare, guidare e condizionare” il nostro comportamento verso i risultati più redditizi e questi concetti se applicati alla memoria collettiva, questo implica la possibilità di plasmare l’opinione pubblica su eventi storici, promuovendo narrazioni che servono specifici interessi economici o politici.

Deepfake e manipolazione della memoria

Tra gli apici della manipolazione della memoria collettiva nell’era digitale indubbiamente ciò che definiamo come deepfake, una minaccia qualitativamente superiore rispetto alla disinformazione testuale o fotografica, a causa del primato cognitivo che attribuiamo all’informazione visiva: tendiamo a credere a ciò che vediamo. L’impatto psico-sociale di questa tecnologia è devastante: studi sperimentali hanno dimostrato che l’esposizione a deepfake, anche quando vengono riconosciuti come falsi, può erodere la fiducia generale nelle istituzioni, nei media e persino nella nostra stessa capacità di discernere la realtà. In realtà, il pericolo non è tanto la possibilità di essere ingannati su un singolo fatto, quanto quella che il filosofo Don Fallis ha definito la “minaccia epistemica”, ovvero la consapevolezza diffusa che qualsiasi video o audio possa essere falsificato rischia di distruggere il valore probatorio delle prove audiovisive, portando a uno scetticismo radicale in cui nulla può più essere creduto.

Verso un’ecologia digitale consapevole

Un’ecologia digitale consapevole?

Se non possiamo più accordarci sui fatti di base, come possiamo discutere delle loro interpretazioni o prendere decisioni collettive?

In questo contesto, emerge con chiarezza come l’algoritmo non sia più solo uno strumento passivo che usiamo per accedere alla memoria ma un agente mnemonico attivo e non-umano dove accanto agli attori tradizionali della memoria collettiva (individui, comunità, stati), operano oggi agenti algoritmici con logiche proprie (massimizzazione dell’engagement, estrazione di dati, ottimizzazione pubblicitaria) che sono non chiare e spesso in conflitto con gli obiettivi umani di comprensione, coesione sociale e verità storica.

La nostra memoria collettiva è sempre più il prodotto di un’interazione ibrida e complessa tra intelligenza umana e intelligenza artificiale, un’alleanza instabile le cui conseguenze a lungo termine stiamo solo iniziando a comprendere. La divergenza tra la memoria umana, fluida e ricostruttiva, e la memoria digitale, permanente e riproduttiva, non è una semplice questione tecnologica, come discusso ed argomentato, perché con lo stesso impatto di un terremoto o di uno tsunami sta rimodellando i continenti della nostra identità, della nostra società e della nostra etica dove la nostra dipendenza da protesi mnemoniche esterne indebolisce le nostre facoltà cognitive interne, dove l’archivio digitale permanente minaccia la nostra capacità di evolvere e perdonare, dove l’ingegnerizzazione algoritmica del passato privatizza e mercifica la nostra memoria collettiva.

È in realtà ciò che vogliamo? A quanto pare sì, silenziosamente e tacitamente, depauperando l’uomo giorno dopo giorno delle sue unicità. La nostra umanità non risiede nella ricerca di una perfezione mnemonica simile a quella di un computer ma al contrario, essa si trova proprio in quelle che abbiamo definito le “imperfezioni” funzionali della nostra memoria biologica perché è la sua capacità di dimenticare per sanare, di ricostruire per dare un senso, di essere intrisa di emozioni per creare significato, di essere fallibile per poter immaginare un futuro diverso dal passato che permette di proiettarci verso un futuro possibile, un futuro in cui “la memoria è il presente del passato” (Paul Ricoeur): una forza viva, dinamica e creativa che resiste alla rigidità letterale delle macchine.

Dovremmo quindi sviluppare una ecologia digitale consapevole, un approccio equilibrato che ci permetta di sfruttare i benefici degli strumenti digitali senza abdicare alle nostre responsabilità cognitive agendo su fattori come l’educazione e la regolamentazione con programmi di alfabetizzazione mediatica e digitale a tutti i livelli, soprattutto prendendoci cura dei più piccoli, della società che aspirino a sviluppare un pensiero critico, insegnando ai cittadini a comprendere e non solo conoscere la tecnologia, a valutare le fonti, a riconoscere la disinformazione e a comprendere le logiche economiche che governano le piattaforme digitali.

Dobbiamo coltivare una “metacognizione digitale”, la capacità di riflettere sul modo in cui la tecnologia sta plasmando il nostro stesso modo di pensare. Abbiamo parlato anche di regolamentazione: è necessario porre dei limiti chiari alle pratiche estrattive del capitalismo della sorveglianza e riaffermare la sovranità degli individui e delle comunità sui propri dati e sulla propria memoria?

Eticamente ed umanisticamente si tratta di compiere una scelta consapevole su quale tipo di esseri umani e quale tipo di società vogliamo diventare perché il futuro lo scriviamo giorno dopo giorno, delegando passivamente la nostra memoria, il nostro pensiero e, in definitiva, la nostra autonomia a sistemi algoritmici di cui ignoriamo le logiche di funzionamento, di addestramento, di allineamento culturale il tutto in cambio del “contentino” dell’efficienza e della convenienza.

Ma consapevoli di tutto ciò, perché non scegliamo invece di abbracciare la tecnologia e di limitarci ad usarla soltanto per aiutarci a potenziare, e non sostituire ciò che ci rende unici?


Glossario dei Termini

  • Amigdala: Struttura cerebrale che processa le emozioni, rendendo i ricordi emotivamente carichi più persistenti e salienti.
  • Capitalismo della sorveglianza: Modello economico descritto da Shoshana Zuboff, in cui aziende tech estraggono dati comportamentali per prevedere e influenzare azioni umane a fini di profitto.
  • Cognitive offloading: Pratica di delegare funzioni cognitive (es. memoria) a dispositivi esterni come smartphone, riducendo il carico mentale ma potenzialmente indebolendo abilità intrinseche.
  • Deepfake: Tecnologia basata su IA per creare video o audio falsi realistici, manipolando immagini per diffondere disinformazione.
  • Diritto all’oblio: Principio legale (codificato nel GDPR Art. 17) che permette di richiedere la cancellazione o de-indicizzazione di dati personali obsoleti o irrilevanti.
  • Effetto Google: Fenomeno (da Sparrow et al., 2011) per cui le persone memorizzano meno informazioni sapendo di poterle reperire online, focalizzandosi sul “dove” invece del “cosa”.
  • Eredità digitale: Gestione post-mortem di dati online (profili, email), inclusi diritti di accesso e cancellazione, regolata da policy di piattaforme.
  • Ippocampo: Area cerebrale chiave per la codifica e consolidamento dei ricordi, agendo come hub dinamico per trasformare esperienze brevi in memorie durature.
  • Memoria connettiva: Concetto di Andrew Hoskins per descrivere la memoria collettiva digitale, emergente da connessioni tra utenti, dati e algoritmi, anziché da narrazioni top-down.
  • Oblio adattivo: Processo attivo del cervello per dimenticare informazioni irrilevanti, essenziale per flessibilità cognitiva, resilienza e adattamento (contrario alla permanenza digitale).
  • Plasticità sinaptica: Capacità del cervello di modificare connessioni neuronali in risposta a esperienze, fondamento biologico della memoria e dell’apprendimento.
  • Potenziamento a Lungo Termine (LTP): Meccanismo neuronale che rafforza sinapsi attraverso stimolazioni ripetute, rendendo la comunicazione tra neuroni più efficiente.
  • Sé narrativo: Concetto filosofico (es. da Locke) in cui l’identità è una storia fluida e mutevole, contrapposta al “sé da query” frammentato dalla memoria digitale.
  • Surplus comportamentale: Dati “scarto” generati dalle interazioni online, estratti e monetizzati nel capitalismo della sorveglianza per creare prodotti predittivi.

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