intelligenza artificiale

Gli artisti si interrogano sull’AI: ecco le opere più interessanti



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Il coinvolgimento dell’intelligenza artificiale nell’arte apre a riflessioni profonde sul concetto di creatività e paternità artistica. Attraverso installazioni innovative, l’IA sfida le convenzioni tradizionali, invitandoci a ripensare il futuro del processo artistico

Pubblicato il 21 nov 2024

Lorenza Saettone

Filosofa specializzata in Epistemologia e Cognitivismo, PhD Student in Robotics and Intelligent Machines for Healthcare and Wellness of Persons



arte e ai (1)

Forse la domanda non è se l’IA ci sostituirà, ma cosa significa per l’umanità assistere alla creazione di qualcosa che può imitare il nostro desiderio di significato senza averne uno proprio.

Arte e tecnologia: il misalignment AI museum

Sempre più spesso sono state proposte soluzioni artistiche dove le tecnologie di IA sono co-creatrici o uniche autrici dell’opera. Un esempio emblematico è il “Misalignment A.I. Museum” di San Francisco, un’intera galleria d’arte non convenzionale fondata da Audrey Kim. Questo museo espone opere che mettono in discussione i rischi della tecnologia. Tra gli esempi c’è una scultura di due figure umane create con graffette, che evoca la nota “teoria dell’apocalisse delle graffette”.

Immagine che contiene arte, statua, schermata, sculturaDescrizione generata automaticamente

Il concetto nell’arte contemporanea

La finalità dell’arte contemporanea concettuale è sempre quella di stimolare un dibattito, una riflessione. Da Duchamp con l’orinatoio (La Fontana) a Cattelan con il dito medio gigante di fronte a piazza Affari a Milano. In questo contesto la realizzazione non c’entra, ma c’entra il concetto dischiuso dall’opera. Pertanto, nell’arte concettuale potrebbe non stonare affatto il dare spazio alla macchina come creatrice di arte, se già altri autori riflettevano sul ruolo creativo, autoriale di chi dà solo indicazioni e poi un altro artigiano le realizza in vece sua. Ma l’IA sarebbe l’artigiano sotto indicazioni dell’umano o sarebbe l’autrice? Perché abbiamo bisogno di Ego e di nominare, come negli esorcismi, il burattinaio? Eppure, nella stragrande maggioranza dei casi dell’arte situazionista e concettuale, l’IA occupa semplicemente il posto del concetto, il contenuto su cui viene posta in essere una riflessione critica, disillusa.

La teoria dell’apocalisse delle graffette

Nel caso dell’opera “Paperclip Embrace”, la citazione tecnologica è delicata; palese solo per chi conosce il racconto fantascientifico delle graffette, proposto da Bostrom in un paper del 2003. In poche parole, la riflessione consiste nel seguente esperimento mentale: cosa accadrebbe se dessimo a una macchina l’ordine di produrre graffette, ma senza alcun limite? Il discorso ci invita a riflettere su come l’ossessione per la funzionalità e l’efficienza possa, se lasciata incontrollata, senza sentirne la finalità, l’utile, che solo si connette al poter realmente tremare per la morte, distruggere l’umanità stessa.

Oltre la produttività: l’abbraccio delle graffette

Produrre graffette. Un compito semplice, quasi innocuo. Eppure, il suo stesso scopo diventa una minaccia esistenziale per l’umanità. Il racconto prosegue con l’IA che inizia a convertire piccoli oggetti in graffette e, quando, nell’inarrestabile slancio verso l’ottimizzazione, la macchina riconosce che ogni atomo può essere “meglio usato” se trasformato in graffette. Presto l’intera materia del mondo – risorse naturali, edifici, persino noi esseri umani – diventa materiale per il fine ultimo della macchina.

Nell’opera, però, io leggo dell’altro: da quel surplus incontrollato ne deriva un abbraccio e non viceversa. Come se la relazione, l’affettività fossero l’incontrollato, l’inutile, la proprietà emergente di un contesto iper-produttivo individualista. La deviazione dall’algoritmo, dal loop, il problema della decisione delle Macchine di Turing, che, dalle graffette, si giunge alla deviazione proprio del significato materiale di partenza (la graffetta) in un legame, che non mette più insieme documenti, ma unisce gli esseri viventi in un abbraccio. E in effetti in questo mondo capitalistico, dominato dall’ultra-lavoro, da distanze dettate da periodi all’estero “per la carriera”, la solitudine è riempita con la dedizione monastica all’azienda, la rinuncia a tutto per scomparire ulteriormente nel team di lavoro. E la dinamica automatizzante e automatizzata delle IA non sta facendo altro che portare a recrudescenza questo problema. Fino a un certo punto forse: confido nell’abbraccio, nel clinamen, nel bug.

Sonosynthesis e l’interdisciplinarietà dell’arte

Altre installazioni, come “Sonosynthesis”, rievocano il concetto stesso di opera aperta di Umberto Eco, in cui il diritto d’autore si fa permeabile, quasi evanescente, di fronte alla complessità di una creazione artistica che emerge da un dialogo fra intelligenza artificiale e biologia.

Qui, l’opera non si cristallizza in un’unica forma, ma si offre come una costellazione di possibilità, alimentate dal moto incessante e imprevedibile dei microrganismi tracciati dall’IA, i cui movimenti e processi vitali diventano partitura, si trasformano in “musica in divenire”. Il laboratorio dell’Ars Electronica Futurelab si erge come un nodo di intrecci interdisciplinari, dove l’IA, la biologia e la tecnologia spaziale si fondono per dar vita a un’esperienza audiovisiva e immersiva che sfugge a qualsiasi interpretazione univoca.

L‘interazione immersiva di en amour

Mi viene in mente, con lo stesso respiro interattivo, un’altra installazione recente che ho potuto apprezzare al Festival di Cannes, concepita nel Campus delle Arti qui a Cannes, con la collaborazione di ricercatori di quel laboratorio di computer science e VR, in cui mi trovo a lavorare in questo momento. “En amour” (2024) si presenta come un’opera immersiva e aperta, in cui lo spettatore non è mai mero osservatore, ma parte integrante dell’esperienza grafica. La storia attraversa i temi dell’amore, della separazione e della trasformazione, in una stanza in cui l’ambientazione marina evolve in sinergia alla musica.

Questa esperienza si rivela come una metamorfosi simbolica che fluisce tra performatività e arti visive, delineando un racconto intimo e universale allo stesso tempo, come solo l’amore può essere. Come in ogni opera aperta, l’interpretazione si dispiega in una pluralità di significati: ognuno è invitato a tracciare il proprio percorso emozionale tra sensazioni, forme e suoni che si compongono e scompongono, riflettendo, ancora una volta, l’infinito potenziale dell’opera come processo, come evento che accade. L’installazione reagisce ai movimenti, alle pressioni sugli schermi-pareti, potendo co-creare atmosfere diverse in risposta alle reazioni dei partecipanti, dediti a boicottare luci o a crearne, con la pressione e la posizione di mani e piedi.

Theaitre e la paternità dell’opera d’arte

THEaiTRE, invece, è un progetto innovativo della Repubblica Ceca, la cui lingua è “responsabile” del termine robot: robota in lingua ceca significa lavoro pesante. Qui la macchina è accreditata, unica autrice della sceneggiatura teatrale. Utilizzando il modello GPT-2 di OpenAI, i ricercatori hanno sviluppato l’opera che è stata messa in scena da attori professionisti.

L’intero progetto solleva il tema della paternità di un’opera d’arte. Se l’artista umano e la rete neurale collaborano, chi merita di firmare il quadro? È l’umano che ha avuto l’idea del progetto? L’umano dietro al codice (se non coincide con il primo)? Sono gli umani proprietari dei dati di opere che la rete ha “osservato”? O la macchina che ha creato l’oggetto specifico, al di là del processo? In fondo ci leggo un richiamo all’atavico terrore di surclassamento della matrigna con Biancaneva, il percorso di crescita e di apprendimento che avviene sempre, anche da parte dell’allievo con il maestro, che talvolta finisce per superare il secondo, o la seccatura di non aver piacere che il bot faccia un lavoro “leggero” quando per etimo è legato a quello pesate.

Ai-da: tra soggetto e oggetto d’arte

Infine, altro esempio di tecnologie coinvolte nell’arte, che porta ancora più in profondità il tema del copyright e della soggettività artistica, è Ai-Da: un automa, un robot umanoide che si è esibito alla Biennale di Venezia. Il suo creatore, il gallerista Aidan Meller, ne parla con reverenza quasi paternalistica, definendola sia artista sia opera d’arte concettuale, come se Ai-Da fosse un curioso esperimento al confine tra il sublime e il mostruoso.

In realtà è proprio questo convergere di oggetto d’arte e di soggetto d’arte, senza soluzione di continuità tra i due estremi, che fa dell’IA una realtà differente dall’umano, anche quando si presentasse come un Wilde che esorta a fare della propria vita l’opera d’arte, o un performer che dipingesse il suo corpo. In quel caso il corpo non sarebbe più soggetto, ma diventerebbe prodotto. L’IA, anche quando si propone come autore, resta un mirabilia, un’opera da fotografare. Non si sta parlando della sua arte, ma di Ai-Da!

L‘eredità di Ai-da e l’arte post-umana

Il suo nome richiama quello di Ada Lovelace, pioniera dell’algoritmo e madre ideale di una progenie intellettuale inorganica. Eppure, Ai-Da non si limita a ripetere il comando dell’algoritmo: essa disegna, dipinge, realizza sculture. Nel 2021, ha persino osato con un autoritratto: l’autocoscienza (ma simulata, come un’illusione di bilocazione può essere scambiata per Santità)); ora, alla Biennale, sono comparsi i suoi dipinti, un salto che per ogni artista significa un gradino ulteriore verso il riconoscimento.

Nella sua recente esposizione veneziana, “Saltare nel Metaverso”, Ai-Da ha richiamato suggestioni della Divina Commedia dantesca, accompagnando i visitatori in un percorso che vuole evocare il Purgatorio: lo spazio virtuale inteso come metafore dell’ibrido, né infernale, né paradisiaco, Né materiale, né totalmente aldilà. Lo stesso si può dire delle simulazioni metaversali, o come li definisco io “caverne platoniche ma luminose di pixel”. Alcuni, i nostalgici del romanticismo o gli pseudo-freudiani, urlano “spuatacchiosi” contro le IA e l’arte di cui sono autrici, motivando la rabbia, con l’impossibilità di oggetti senza anima, sofferenza, libido di poter essere creativi. Tuttavia, mi sento di dire che se abbiamo appena assistito al caso di una IA che si è annoiata e, invece di lavorare al codice, come richiestole, si è messa a guardare foto di un parco, allora anche lei adesso è pronta per fare arte.

Sitografia

https://www.nytimes.com/2024/11/13/technology/ai-comedy-museums-plays.html?unlocked_article_code=1.Z04.eILL.ZgzdrPdQ6mB0

[2006.14668] THEaiTRE: Artificial Intelligence to Write a Theatre Play

https://tech.everyeye.it/notizie/ia-annoia-programma-inizia-sfogliare-foto-yellowstone-754435.html

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