Il self-prompting nasce da una constatazione semplice ma potente: ogni prompt che scriviamo per dialogare con l’intelligenza artificiale è anche uno specchio del nostro modo di pensare.
Se per ottenere buone risposte dall’IA dobbiamo chiarire intento, contesto e criteri di qualità, allora quella stessa logica può diventare una lente per osservare come parliamo con noi stessi. Progettare le proprie domande interiori significa trasformare il dialogo interno in un vero e proprio spazio di consapevolezza, dove linguaggio, emozioni e decisioni smettono di essere automatiche e diventano intenzionali.
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Self-prompting, dal prompt all’autoconsapevolezza
Il prompting non è solo una tecnica per parlare con l’Intelligenza Artificiale: è anche una nuova lente per osservare come parliamo con noi stessi. Progettare le proprie domande interiori, chiarire le intenzioni, guidare i pensieri: il self-prompting apre scenari interessanti in ambito formativo, decisionale e persino emotivo. Un ponte inedito tra IA, comunicazione e consapevolezza umana.
Nell’era dell’intelligenza artificiale generativa, il prompt è diventato una parola chiave del nostro tempo. È l’innesco di un dialogo con la macchina, la formula con cui diamo forma e sostanza alla nostra richiesta e, nello stesso tempo, orientiamo la risposta dell’IA. In poche parole, condensa la logica di un pensiero che si fa richiesta e la ricerca di un dialogo che sia efficace.
Ma forse il prompting non potrebbe riguardare solo l’interazione con l’IA, ma essere un nuovo modo di comunicare con noi stessi: ogni volta che scriviamo un prompt, infatti, ci poniamo più o meno consapevolmente l’obiettivo di chiarire ciò che vogliamo, distinguere l’essenziale dal superfluo, fornire contesto, definire criteri di efficacia e di qualità. Tutto questo rappresenta un processo cognitivo ed emotivo, e non solo puramente tecnico.
E se imparare a formulare buoni prompt fosse, in fondo, imparare a pensare meglio?
Il self-prompting nasce da questa intuizione, ovvero che le stesse regole che ci aiutano a dialogare con l’IA possono diventare strumenti di autoconsapevolezza. Farsi delle domande con chiarezza, definire il contesto del proprio pensiero, esplicitare le intenzioni, iterare sulle risposte: tutto questo coincide con la stessa architettura del prompting, ma rivolta verso noi stessi.
In questa prospettiva, il self-prompting può diventare una lente per comprendere la mente contemporanea — una mente sempre più disponibile e abituata al dialogo, anche con sé stessa, in forma di prompt — e una pratica che apre scenari inediti non solo sul piano tecnologico, ma anche su quello formativo, decisionale ed emotivo: perché imparare a farsi bene le domande significa anche imparare a conoscersi meglio.
Il prompting come specchio del nostro modo di pensare
Ogni prompt nasce da un desiderio di definizione e di chiarezza. Prima ancora di scriverlo, infatti, ci chiediamo: che cosa voglio davvero ottenere? È un atto di consapevolezza cognitiva: individuare l’intento, definire e circoscrivere il contesto, dare forma a una richiesta.
Nel prompting efficace c’è sempre una piccola lezione di pensiero: ciò che non è chiaro dentro di noi non potrà mai diventare chiaro nel dialogo con l’Intelligenza Artificiale.
Il prompting, così, riflette la qualità del pensiero di chi lo formula. Non è solo un’abilità tecnica, ma una metafora cognitiva. Progettare un prompt significa, in fondo, costruire una rappresentazione mentale del problema: scegliere il punto di vista, definire i confini, anticipare le implicazioni.
È una forma di pensiero riflessivo (Schön, 1983), ovvero la capacità di “pensare mentre si agisce” — o, nel nostro caso, di pensare mentre si scrive ciò che chiederemo a un sistema “diversamente intelligente”.
In questo senso, il prompting funziona come uno specchio. Mostra, in tempo reale, i limiti del nostro linguaggio, le lacune del nostro ragionamento, la vaghezza delle nostre intenzioni. L’IA non fa che amplificare ciò che le sottoponiamo, e restituisce la qualità della domanda (o la non-qualità: principio del garbage in, garbage out).
Per questo il prompting può essere anche uno strumento di metacognizione (Flavell, 1976), quella consapevolezza del proprio pensiero che è alla base dell’apprendimento profondo.
Il primo significato di “prompt”, secondo il Cambridge Dictionary, è “to make something happen”, ovvero “far succedere qualcosa”: in questa relazione causa-effetto, quando un prompt è generico o confuso, la risposta dell’IA è spesso incoerente, mentre quando è preciso, contestualizzato e coerente, l’output migliora visibilmente.
Lo stesso vale per noi: le nostre decisioni, emozioni e percezioni rispondono alla qualità delle domande interiori che ci poniamo. Così, imparare a “stimolare” bene l’IA significa anche allenare una forma di auto-dialogo strutturato, in cui il linguaggio diventa strumento di conoscenza.
Un prompt non è solo testo: è un pensiero che prende forma, e ci insegna che — per comprendere l’ambiente, le altre persone o noi stessi — la prima competenza comunicativa è “imparare a chiedere bene”.
Che cos’è il self-prompting e quali principi lo guidano
Se il prompting è la capacità di formulare richieste chiare e contestualizzate a un sistema intelligente, il self-prompting può essere definito come la capacità di formulare intenzionalmente domande a sé stessi per orientare il pensiero, le emozioni e le azioni.
È, a tutti gli effetti, una forma di auto-stimolo cognitivo ed emotivo: il processo con cui una persona costruisce e affina la propria comprensione attraverso il dialogo interiore.
Così come, nel prompting verso l’IA, ci esercitiamo a definire intento, contesto, formulazione linguistica e criteri di qualità, nel self-prompting questi stessi elementi diventano componenti della riflessione personale, di cui possiamo individuare quattro principi chiave:
I quattro principi fondamentali del self-prompting
- Chiarezza dell’intento – “Cosa sto davvero cercando?”
Il primo passo del self-prompting è esplicitare lo scopo: infatti, ogni richiesta nasce da un’intenzione, ma spesso questa intenzione resta implicita. Portarla alla luce è un atto di consapevolezza: ci obbliga a distinguere tra ciò che effettivamente vogliamo sapere e ciò che vogliamo solo sentirci dire. - Contesto e prospettiva – “Da che prospettiva sto guardando?”
Come nel prompting verso un Large Language Model, il contesto influenza la risposta. Nel dialogo interiore, riconoscere il proprio stato mentale, le emozioni dominanti e i vincoli cognitivi significa fornire alla mente le “coordinate” da cui ragiona: è un esercizio di prospettiva, e allo stesso tempo di umiltà cognitiva. - Precisione linguistica – “Le parole che utilizzo mi aiutano o mi confondono?”
Il linguaggio non solo descrive la realtà, ma contribuisce anche a costruirla: il modo in cui esplicitiamo le emozioni ne modifica la percezione e l’intensità. Un self-prompt efficace sceglie parole che possano aprire possibilità, e non che chiudano interpretazioni. - Iterazione e apprendimento – “Quali cose nuove ho capito dopo questa risposta?”
Un prompt non è mai “definitivo”, e ovviamente nemmeno una domanda interiore lo è. Il self-prompting funziona per cicli iterativi, in cui si formula, si prende atto della risposta, si riformula e così via, in un processo di apprendimento riflessivo, dove ogni risposta diventa un nuovo contesto.
In questa dinamica c’è molto della logica del coaching e del journaling riflessivo, ma con una dimensione più consapevolmente progettuale, in cui il self-prompting costituisce, di fatto, una progettazione del proprio pensiero: non quindi un monologo, ma un dialogo interno progettato con cura, per una sempre maggiore autoconsapevolezza.
Progettare il dialogo interiore: architettura e tono delle domande
Ogni giorno dialoghiamo con noi stessi: lo facciamo spesso senza accorgercene, in un flusso continuo di pensieri, giudizi, immagini, micro-decisioni e, in ogni caso, raramente “progettiamo” come farlo.
Il self-prompting ci invita invece a considerare il dialogo interiore come qualcosa che può essere strutturato, non subìto: una conversazione che possiamo progettare con la stessa cura con cui diamo forma e sostanza a un buon prompt.
Come accade con l’IA, la qualità della risposta dipende dalla qualità della domanda: le nostre “bias” linguistiche — generalizzazioni, distorsioni, giudizi impliciti — funzionano infatti come filtri cognitivi che deformano la realtà interna.
Ad esempio, chiederci “Perché mi capita sempre così?” può produrre un’eco di frustrazione e impotenza, mentre chiedere “Cosa posso fare diversamente la prossima volta?” può aprire uno spazio di azione: cambiare la forma della domanda significa anche cambiare la direzione del pensiero.
Il dialogo interiore è, in questo senso, una forma di context engineering (Pirozzi, 2025) personale. Ogni volta che formuliamo un self-prompt, stiamo infatti anche definendo il contesto mentale entro cui la nostra mente elaborerà la risposta.
Ad esempio, se ci chiediamo “Perché non ci riesco mai?”, il contesto è una mancanza, mentre se ci chiediamo “Cosa mi serve per riuscirci?”, il contesto diventa una possibilità: sostanzialmente la dinamica è la stessa che, nel prompting verso l’IA, distingue una risposta povera di contenuti da una risposta effettivamente utile.
Anche il tono interiore è parte dell’architettura: nel self-management dell’intelligenza emotiva (Goleman, 1995), la “regolazione emotiva” inizia dal modo in cui ci rivolgiamo a noi stessi.
La mente infatti non risponde solo al contenuto delle domande, ma anche alla loro “cortesia”. Un self-prompt efficace, pertanto, non giudica ma esplora; non impone ma guida; non pretende ma ascolta.
Progettare il proprio dialogo interiore significa quindi trasformare il linguaggio in uno strumento di consapevolezza.
L’obiettivo non è naturalmente quello di sostituire il pensiero spontaneo con un protocollo artificiale, ma è quello di imparare a distinguere le domande che alimentano la comprensione da quelle che la bloccano: è una pratica di lucidità, ma anche di attenzione, perché ciò che chiediamo a noi stessi, ogni giorno, contribuisce al nostro comportamento e, quindi, al nostro modo di essere.
Self-prompting come tecnologia del pensiero: ambiti di applicazione
Il valore del self-prompting non è solo teorico, ma si concretizza in una pratica che si radica in contesti concreti — educativi, professionali, relazionali — in cui la qualità delle domande che ci poniamo influenza direttamente la qualità delle nostre decisioni, delle interazioni e persino delle emozioni.
In questo senso, il self-prompting può essere inteso come una tecnologia del pensiero che, applicata consapevolmente, rafforza quattro grandi aree di competenza: apprendimento e formazione; decision-making e problem solving; consapevolezza emotiva e relazionale; comunicazione efficace e lavoro in team.
Tutte queste aree convergono in un obiettivo comune: sviluppare una mente riflessiva, capace di connettere chiarezza, intenzione e azione.
Formazione e apprendimento: domande per imparare meglio
Nel campo della formazione, il self-prompting diventa uno strumento di metacognizione attiva, in cui la metacognizione viene definita come “la conoscenza e il controllo che l’individuo esercita sui propri processi cognitivi” (Flavell, 1976).
Formulare “buone” domande a sé stessi è proprio un modo per esercitare questo controllo: permette di riflettere non solo su ciò che si apprende, ma su come lo si apprende.
Ad esempio, invece di chiedersi “Ho studiato abbastanza?”, uno studente o un professionista può domandarsi “Che cosa ho davvero capito di questa lezione?” oppure “Quali collegamenti posso creare con ciò che già so?”.
Questo spostamento, da un linguaggio di quantità a un linguaggio di qualità, trasforma l’apprendimento da un semplice accumulo di informazioni a una costruzione integrata di significato.
Nel self-prompting, l’apprendimento non è più quindi un processo da subire, ma piuttosto un processo da progettare (learning design).
Nella formazione aziendale, il self-prompting può diventare una pratica trasversale di apprendimento continuo: in un’epoca in cui le competenze si aggiornano con velocità crescente, la vera differenza la potrebbe fare non tanto chi sa (o crede di sapere) di più, ma chi sa farsi meglio le domande.
Ad esempio, domande come “Che cosa mi serve davvero per migliorare questa competenza?” o “Quale abilità mi manca per contribuire meglio al mio team?” possono aiutare a identificare gap formativi reali e a definire percorsi di sviluppo personalizzati; il self-prompting, in questo senso, alimenta la curiosità strutturata, ovvero la capacità di trasformare l’incertezza in ricerca, e la ricerca in apprendimento.
Decision-making e problem solving: ridefinire le domande
Ogni decisione è, in fondo, una risposta a una domanda implicita: tuttavia spesso rischiamo di decidere non a proposito perché quella domanda non è stata formulata con chiarezza.
Ad esempio, magari ci chiediamo “Qual è la scelta giusta?” quando dovremmo forse chiederci “Quali opzioni ho davvero?” o “Cosa sto trascurando?”.
Il self-prompting può in questi casi aiutare a ridefinire le domande alla base dei processi decisionali, portandole da una logica binaria (giusto/sbagliato) a una logica esplorativa (possibile/utile/consapevole).
Le ricerche sul critical thinking mostrano come il modo in cui poniamo un problema ne determini le soluzioni percepite. Un self-prompt ben costruito può ampliare lo spazio cognitivo, aprendo alternative, stimolando visioni laterali, evidenziando i bias.
Ad esempio, chiedersi “Quali rischi sto minimizzando?” o “Quale emozione sta influenzando questa decisione?” significa aggiungere un livello di consapevolezza al processo di scelta, introducendo anche una dimensione etica ed emotiva che spesso resta implicita.
Nel project management, il self-prompting può diventare una pratica di leadership riflessiva: un project manager che si domanda “Sto rispondendo a un problema o a una mia preoccupazione?” o “Questa decisione serve davvero al progetto o piuttosto alla mia immagine?” sta applicando la logica del self-prompting per gestire complessità e ambiguità.
La qualità della decisione dipende evidentemente non solo dalle informazioni disponibili, ma dal modo in cui (ci) poniamo le domande.
Consapevolezza emotiva e relazionale: il ponte tra parola ed emozione
Il self-prompting non è solo un esercizio freddo o razionale, ma è profondamente connesso alla sfera emotiva.
Nell’intelligenza emotiva, di solito si identificano quattro dimensioni chiave, che poi corrispondono ad altrettanti gruppi di competenze (Goleman, 1995): autoconsapevolezza, gestione di sé, consapevolezza sociale e gestione delle relazioni.
Utilizzando il self-prompting, tutte e quattro possono essere allenate e/o esercitate attraverso domande ben progettate.
Ad esempio, domande come “Cosa sto provando davvero?” attivano l’autoconsapevolezza; “Come posso rispondere senza reagire?” supporta la gestione di sé; “Che cosa sta vivendo l’altra persona in questo momento?” coltiva l’empatia cognitiva; “Cosa voglio che resti dopo questa conversazione?” orienta la gestione della relazione.
In questo senso, il self-prompting diventa un ponte tra linguaggio ed emozione: il modo in cui caratterizziamo le nostre emozioni ne determina la forma, la consistenza e l’intensità.
Ad esempio, dire “Sono arrabbiato” è ben diverso da dire “Mi dispiace perché il mio contributo non è stato riconosciuto”: il primo prompt mette immediatamente gli interlocutori sulla difensiva, mentre il secondo prompt, ben più preciso, apre la strada alla comprensione e al dialogo.
Nelle relazioni professionali, questo si traduce in una maggiore capacità di dialogo consapevole: ascoltare senza reagire automaticamente, rispondere dopo aver chiarito a sé stessi cosa si vuole davvero comunicare.
In altre parole, il self-prompting aiuta a pensare prima di parlare, ma anche ad ascoltare prima di giudicare.
Comunicazione efficace: progettare le conversazioni partendo dalle domande
La comunicazione efficace non è naturalmente solo una trasmissione di informazioni, ma è anche una costruzione condivisa di significati: infatti, ogni messaggio nasce da un’intenzione, ma spesso l’intenzione non è chiara neppure a chi comunica.
Il self-prompting introduce qui un cambio di paradigma, in quanto ci invita a progettare la comunicazione partendo dalle domande, non dalle affermazioni.
In questo senso, ad esempio, domande come “Cosa voglio che l’altro capisca davvero?”, “Cosa serve dire esplicitamente, e cosa posso lasciare implicito?”, “Quale tono favorisce l’ascolto?” o “Come posso essere chiaro senza essere percepito come rigido?” diventano strumenti di progettazione comunicativa.
In generale, un self-prompt efficace agisce su tre livelli:
- cognitivo, che chiarisce il contenuto e l’intenzione;
- emotivo, che regola il tono e l’impatto affettivo del messaggio;
- relazionale, che orienta la comunicazione al risultato condiviso (approccio win-win), non alla supremazia personale (approccio win-lose).
In definitiva, la qualità del dialogo con gli altri dipende dalla qualità del dialogo interno che lo precede.
Se, ad esempio, non ci facciamo domande del tipo “Cosa voglio ottenere da questa conversazione?” o “Quale bisogno sto cercando di soddisfare?”, rischiamo di comunicare in modo strettamente reattivo, ovvero di provocare puramente una reazione, peraltro in molti casi negativa.
Il self-prompting è, in questo senso, un esercizio di leadership comunicativa, in quanto trasforma la parola in un atto intenzionale, consapevole, calibrato e, nelle organizzazioni, questa competenza è cruciale.
Infatti, la capacità di formulare e condividere domande chiare — invece di sole risposte — alimenta cultura, apprendimento e innovazione: mentre le domande tendono a creare spazi di possibilità, le risposte, in particolare se premature, tendono a chiuderli.
Una cultura organizzativa che valorizza il prompting reciproco — cioè la capacità di “stimolare (prompt)” anche le altre persone, in modo rispettoso e costruttivo — diventa una cultura realmente collaborativa.
Lavoro in team e collaborazione consapevole
Il self-prompting non è solo un dialogo con sé stessi, ma può diventare anche una pratica di meta-dialogo collettivo.
Nei team, soprattutto in quelli multidisciplinari o distribuiti, la qualità della collaborazione dipende infatti dal modo in cui i membri pongono domande, a sé stessi e agli altri.
Ad esempio, un team che pratica il self-prompting collettivo non si limita a chiedere “Chi fa cosa?”, ma si interroga su “Perché lo stiamo facendo?”, “Cosa stiamo cercando di ottenere insieme?”, “Quali ipotesi stiamo dando per scontate?”.
In questa logica, il prompting diventa uno strumento di pensiero collettivo: aiuta a disinnescare conflitti, a rendere visibili i bias di gruppo, a migliorare l’allineamento cognitivo.
Nelle metodologie agili e nei contesti di project management, il self-prompting può essere integrato nei momenti di retrospective o lessons learned, per migliorare la riflessione collettiva: ad esempio, prompt come “Cosa abbiamo imparato da questo errore?”, “Cosa potremmo fare meglio la prossima volta?” o “Quali pattern si ripetono?” favoriscono apprendimento condiviso e miglioramento continuo.
Inoltre, nel lavoro ibrido e remoto, il self-prompting può diventare un presidio di connessione umana.
Ad esempio, domande come “Chi potrebbe aver bisogno di un mio feedback oggi?” o “Cosa non ho comunicato chiaramente nel mio ultimo messaggio?” trasformano la distanza digitale in un’occasione di attenzione alla relazione.
Alla base di tutto c’è un principio: la qualità del team nasce dalla qualità delle sue domande.
Un gruppo che sa interrogarsi in modo costruttivo diventa un “sistema” intelligente, capace di adattarsi e innovare: e questo, in effetti, è il concetto chiave dell’intelligenza — sia umana che artificiale.
In sintesi, il self-prompting non è soltanto una pratica di introspezione individuale, ma una vera e propria competenza trasversale che amplifica la capacità di imparare, decidere, comunicare e collaborare, ovvero una forma di design cognitivo applicato alla vita reale: un modo per progettare il proprio pensiero e, attraverso di esso, migliorare la qualità delle relazioni e delle organizzazioni.
Imparare a “stimolare (prompt)” sé stessi e gli altri non significa certo automatizzare il dialogo, ma invece renderlo più autentico, più profondo, più generativo: in un’epoca in cui i sistemi artificiali ci rispondono sempre più rapidamente, il self-prompting ci ricorda che la vera evoluzione non sta tanto nel trovare risposte più veloci, ma nel saper porre domande più umane.
Dal self-prompting al dialogo con l’intelligenza artificiale
Il self-prompting non è solo una pratica interiore, ma è anche una palestra per comunicare meglio con l’intelligenza artificiale.
In un certo senso, dialogare con un sistema generativo è una forma di auto-dialogo esternalizzato: l’IA restituisce ciò che le offriamo, non tanto in termini di verità, quanto in termini della struttura del nostro pensiero che siamo riusciti a esprimere.
Quando impariamo a formulare buoni prompt, stiamo in realtà apprendendo a pensare in modo trasparente: ogni componente del prompt – contesto, obiettivo, tono, vincoli – corrisponde a un elemento della consapevolezza cognitiva, ed è come se l’interazione con l’IA ci costringesse a rendere visibili le architetture mentali che normalmente operano nello sfondo, e in silenzio.
Da questo punto di vista, il rapporto tra prompting e self-prompting è simmetrico: ciò che impariamo nel dialogo con l’IA possiamo applicarlo a noi stessi, e viceversa.
L’IA diventa così uno specchio cognitivo, capace di riflettere non solo le nostre conoscenze ma anche le nostre modalità di pensiero.
Milioni di utenti hanno sperimentato la sensazione che un sistema come ChatGPT “li aiuti a pensare”, mentre, in realtà, ciò che accade è più sottile: l’IA non “pensa” al posto nostro (in realtà non “pensa” proprio, fa correlazioni statistiche), ma ci costringe a pensare con più chiarezza.
Scrivere un prompt efficace implica rendere espliciti i presupposti, distinguere tra ciò che sappiamo e ciò che vogliamo sapere, definire il livello di profondità e il tipo di linguaggio desiderato: è un esercizio di consapevolezza cognitiva e linguistica che, nel tempo, allena la mente umana tanto quanto l’algoritmo che risponde.
In questa prospettiva, il self-prompting e il prompting diventano due facce di una stessa competenza emergente, ovvero la capacità di progettare il pensiero attraverso il linguaggio, che agisce sia verso l’interno che verso l’esterno, e che ridefinisce la nostra relazione con la conoscenza, con la tecnologia e con noi stessi.
Self-prompting, etica personale e responsabilità
Ogni forma di introspezione porta con sé una responsabilità: quella di non trasformarsi in autocompiacimento o, peggio ancora, autoinganno.
Il self-prompting, proprio perché è una tecnica di orientamento del pensiero, potrebbe infatti diventare anche uno strumento di auto-manipolazione se venisse usato per confermare convinzioni o nascondere conflitti interiori.
Infatti, formulare una domanda è un atto comunque potente, che decide su cosa ci concentriamo e anche cosa ignoriamo: ad esempio, chiedersi “Come posso giustificare questa scelta?” è ben diverso da chiedersi “Quali rischi sto trascurando?”.
Il confine tra autocomprensione e auto-razionalizzazione è sottile, e attraversarlo è facile: la responsabilità etica del self-prompting consiste proprio nel mantenere la trasparenza con sé stessi, accettando anche le risposte scomode.
La psicologia cognitiva ci ricorda che la mente tende a proteggersi dal dissonante, e per questo il self-prompting richiede una dose di coraggio intellettuale: non tanto per trovare le risposte giuste, quanto per formulare le domande giuste, ed è qui che la pratica incontra l’etica — non nel risultato, ma nel processo.
Il parallelismo con l’IA può essere anche qui istruttivo; infatti, anche nei sistemi generativi, la trasparenza e la tracciabilità sono condizioni di fiducia: auditability, provenance, explainability non sono solo requisiti tecnici, ma anche modelli di comportamento cognitivo.
Il self-prompting può essere letto come la versione interiore di questa esigenza: imparare a rendere tracciabile il proprio ragionamento, a esplicitare i presupposti, a riconoscere gli errori.
La razionalità non è separata dalle emozioni, ma radicata in esse (Damasio, 1995): pensiamo attraverso ciò che sentiamo; per questo il self-prompting non è una “fredda tecnica”, ma una vera e propria pratica umana, in cui la responsabilità verso la verità di sé coincide con la responsabilità verso la qualità del pensiero.
La nuova arte di farsi domande nell’era dell’intelligenza artificiale
Viviamo in un’epoca in cui, paradossalmente, le risposte sono diventate facili da ottenere, ma le domande difficili da formulare.
L’intelligenza artificiale ci offre infatti risposte istantanee — a volte assolutamente pertinenti, altre volte meno — ma la vera sfida resta, come sempre, quella di “saper chiedere” bene.
È in questo spazio, tra domanda e risposta, che nasce la nuova arte di farsi delle domande: il self-prompting.
Ogni volta che scriviamo un prompt per l’IA, stiamo anche allenando una parte di noi che impara a pensare in modo più intenzionale, lucido, consapevole: sempre di più ci scopriamo architetti delle nostre parole e, di riflesso, delle nostre idee.
Il self-prompting porta in sé questa consapevolezza: ci invita a progettare il nostro pensiero con la stessa cura con cui progettiamo una buona interazione con l’IA.
In definitiva, il prompting e il self-prompting, insieme, delineano una nuova alfabetizzazione cognitiva: da una parte, la capacità di conversare efficacemente con i sistemi intelligenti e, dall’altra, la capacità di dialogare con sé stessi in modo onesto e generativo.
Due competenze che si rinforzano reciprocamente, e che definiscono una forma di intelligenza aumentata, non tanto tecnologica quanto umana.
In fondo, l’IA non fa che ricordarci una verità antica: che ogni dialogo — anche con un interlocutore virtuale — è uno specchio del nostro modo di pensare.
Se la qualità della risposta dipende dalla qualità della domanda, allora imparare a domandarsi meglio diventa un atto di padronanza personale, di responsabilità cognitiva, persino di gentilezza verso sé stessi.
Forse, nel futuro della relazione tra uomo e intelligenza artificiale, il vero progresso non sarà tanto nella potenza degli algoritmi, quanto nella maturità delle domande fatte dalle persone: perché, in definitiva, ogni volta che chiediamo qualcosa a un sistema generativo, stiamo rivolgendo — in sottofondo — anche una richiesta rivolta a noi stessi: Chi sono quando faccio questa domanda?
Bibliografia
Damasio, A. (1995), L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Adelphi.
Flavell, J. H. (1976), Metacognitive aspects of problem solving, in L. B. Resnick (Ed.), The nature of intelligence, Hillsdale, NJ: Erlbaum.
Goleman, D. (1995), Emotional Intelligence: Why It Can Matter More than IQ, Bantam.
Pirozzi, M. (2025), Engineering Synergy: The Role of Context and Prompt Design in AI-Enhanced Project Management, PM World Journal, September 2025.
Schön, D. A. (1984), The Reflective Practitioner: How Professionals Think in Action, Basic Books.












