Il movimento #StopKillingGames ha acceso il dibattito sulla preservazione videogiochi digitali, ponendo una domanda fondamentale: cosa succede quando i server si spengono e i giochi acquistati diventano inaccessibili? La questione non riguarda solo i diritti dei consumatori, ma tocca temi più profondi come la memoria culturale e l’archivio collettivo dell’industria videoludica.
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La nascita di Stop Killing Games e il caso The Crew
Ma di cosa si tratta nello specifico? Creato nell’aprile 2024 dallo YouTuber Ross Scott (noto per la serie Freeman’s Mind) in risposta alla chiusura dei server di The Crew di Ubisoft, gioco del 2014 che richiedeva una connessione costante anche per il single player. Questa decisione lo rese completamente inaccessibile anche a chi lo aveva acquistato da tempo. L’obiettivo del movimento è chiedere agli sviluppatori di mantenere i giochi giocabili anche dopo la chiusura dei server, prevedendo modalità offline o server privati/comunitari. Sono state lanciate numerose petizioni in Francia, nel Regno Unito e a livello europeo, come l’Iniziativa dei Cittadini Europei (ICE) chiamata eloquentemente Stop Destroying Videogames, che in poco tempo ha superato centinaia di migliaia di firme.
Dematerializzazione e perdita della memoria digitale
La questione si ramifica in tantissimi temi, tra i quali dematerializzazione, tracciabilità, testimonianza, proprietà. Se ne parla da decenni, fino ad ora spesso in termini specificamente teorici e controfattuali, denunciando — con consecutio incerta — i pericoli della liquidità e della perdita della memoria digitale; in questo caso, invece, la possibilità si sta manifestando concretamente, creando danni non solo al singolo ma alla società tutta.
Possesso o affitto: il problema della proprietà digitale
Non è solo il possesso individuale che dovrebbe essere garantito dall’acquisto di un bene, con la possibilità di beneficiarne idealmente ad libitum, salvo diversa indicazione che, tuttavia, andrebbe dichiarata al momento della compera: come se più che acquisto si trattasse di un affitto a lungo raggio. Per esempio, per quanto concerne il Game Pass, è dichiarato si tratti di un abbonamento per un certo periodo ai giochi ospitati dal cloud Microsoft – nessuno si sognerebbe di voler giocare al di fuori del mensile pagato. Con queste formule si ha il vantaggio di poter switchare tra un intero catalogo di giochi, cambiando e provando continuamente. Affezionarsi? Poco consigliabile. Dipende che tipo di giocatori si è e se non si desiderano titoli particolari da platinare al di fuori della libreria a disposizione. In quel caso l’acquisto è necessario. Tuttavia, cosa succede se la console si rompe? Tutti gli acquisti digitali diventano un ricordo solo personale, impossibile da tramandare: l’oggetto, la prova, la testimonianza del prodotto. E se nel tempo si perde la memoria per giochi non tripla A? Restano solo un sentore, come di aver provato qualcosa ma senza poterne dare i contorni. È la perdita dell’archivio personale, il sogno che al mattino svanisce.
L’addio al fisico e il mercato dell’usato
Non è più il tempo delle cartucce e del gioco fisico, esibito nella propria vetrina, con una scelta maniacale di accostamenti tra giochi e altri collezionabili: goduria per qualunque nerd e videogiocatore che si rispetti. Ormai le console, infatti, sono sempre più orientate verso la versione solo digitale, tralasciando per sempre l’ibrido. Personalmente ho scelto ancora la versione doppia. Il mio ennesimo hobby è fare giri su Vinted, Subito e Marketplace per sbirciare l’usato. Ho trovato in questa maniera giochi a metà prezzo, recuperando titoli non proprio nuovissimi, ma intramontabili, a prezzi imbattibili. Questo mercato di scambi tra privati (rimembranza dei giochi Game Boy scambiati alle medie con i compagni, dividendoci le spese tra famiglie e compensando la fame del gotta catch ’em all tipica del gamer) verrebbe anch’esso meno; una fetta di connessione e di movimento nel settore non indifferente.
Il feticcio del gioco e l’identità del gamer
Poi, ripeto, la possibilità di mostrare il feticcio è essenziale: la postazione del gamer è metà del gioco. Ho visto i fissati-del-lavoro arredare la scrivania e l’ufficio per comunicare la propria identità, con foto di famiglia, oggetti, poster appesi; altri meno calvinisti si limitano ad arredare la propria camera/casa, con un’estensione nell’auto fatta di sticker, pupazzi, frasi.
Quest’esibizione del Sé tramite la materializzazione dei propri interessi è ciò che porta gli utenti oggi a riscoprire il vinile e le cassette per la musica, o a cercare fruizioni innovative che preservino l’ottimo del liquido (tracce lossless e portabilità) e la bellezza dell’oggetto: una reificazione laica del dio fattosi statua o icona, che in alcune culture animiste viene addirittura sfamato con offerte vere e proprie.
Etica del lavoro e pirateria digitale
Il liquido fa perdere di vista anche il lavoro che c’è dietro a un videogame (come a un album musicale); la sostanza dell’oggetto tra le proprie mani trasferisce sostanza anche all’impegno nel portare a termine il prodotto: il lavoro. Perciò ecco che ci si dimentica facilmente dell’etica nella tutela e nella celebrazione della fatica, ricorrendo a furti più o meno palesi: dalle chiavi di accesso ai giochi a costi irrisori su G2A (paradiso di truffatori, rivenditori di chiavi sottratte o regalate dalle aziende stesse sperando in una recensione) fino alle piraterie personali. Si sente meno la colpa: è solo un titolo che sparirà, non un CD da nascondere sotto alla giacca cercando di non essere visti dalla cassiera in carne, occhi e ossa. Stesso discorso si applica alla musica, da molti più anni e con un’incapacità totale al contrasto del ladrocinio. Anzi, il furto musicale è stato addirittura esacerbato dalla legalità delle piattaforme di streaming, dove gli artisti vengono praticamente privati del guadagno: forse era più accettabile il master di miocuggino di fronte alla stazione di Napoli che la legalizzazione della perdita del merito, dove a guadagnarci sono i possessori dei server. L’unico tentativo di scongiurare la dispersione è proprio la fisicità e farla tornare un gesto “figo”. Le persone si dimenticano facilmente delle regole, ma non quanto hanno l’appeal dello status symbol.
Chi decide cosa cancellare dal cloud
Altro elemento grave della digitalizzazione e del cloud posseduto da privati chissà dove è la perdita di traccia, di una memoria che dovrebbe appartenere a tutti. Inizialmente il digitale è stato usato come contrasto alla scomparsa: “Mettilo online! Digitalizzalo!” Questi erano i moniti per impedire che il tempo rovinasse l’opera, i dati, l’identità. Oggi, siccome c’è troppo e il suo mantenimento ha costi enormi, a cui aggiungere i metadati, gli algoritmi per cercare nel Data Base grande quanto la libreria dei mondi possibili, diventa necessario cancellare e fare spazio: ma chi decide cosa cancellare?
L’epoca del mementa e la memoria condivisa
Peraltro, l’abitudine a salvare le cose online ci ha disabituato ai mezzi di memoria standard: le fotografie in cloud o sui social, una quantità esorbitante che, se sparissero, non avremmo più ricordo. È l’epoca del mementa, non del memento mori.
Ecco che il movimento iniziato da Ross Scott si propone proprio di sensibilizzare intorno alla necessità di impedire la scomparsa della memoria digitale.
Verità, testimonianza e i tre pilastri della prova
Avere memoria di una qualunque cosa non è autosufficiente alla Verità. Per avvicinarsi alla fattualità c’è bisogno, assieme alla convinzione di un ricordo, anche di una memoria condivisa (è più difficile esista un’allucinazione collettiva). Ma anche questa non è sufficiente: è sempre possibile che una qualche propaganda abbia indotto la comunità a credere il falso, oppure che si cada nell’effetto Mandela, fenomeno in cui un gruppo di persone condivide un falso ricordo di un evento o di un dettaglio che è diverso dalla realtà. C’è da aggiungere che la testimonianza collettiva, per avere forza, ha bisogno simmetricamente del ricordo del singolo isolato, della memoria individuale – la quale dia un check interno che non sia una grande menzogna, potendone sempre dubitare.
Prendiamo il film The Truman Show: Truman vive in una realtà interamente costruita, una gigantesca scenografia televisiva in cui tutti – amici, parenti, colleghi – sono attori. La sua “memoria individuale” non gli basta a scoprire la verità, perché ogni suo ricordo è manipolato da un contesto collettivo coerente (anche se falso). Ciò che lo porta a dubitare è una serie di incongruenze materiali e un altro soggetto che, sentendo la colpa, cerca di raccontargli cosa sta accadendo. Truman, pertanto, indaga a partire da incongruenze esterne, dalla comparsa nello show (Sylvia) e dal Sé che dubita.
La testimonianza deve avere prove e queste si reggono su tre pilastri inscindibili: l’ipseità, l’alterità e la realtà. Nessuno di essi può venir meno. Se le prove sono sempre da rintracciarsi nel mondo fisico, cosa succede se cominciano a scomparire i dati nei server dove abbiamo salvato Storia, oggetti culturali, tracce del Sé? Quello che sta venendo meno, o che rischia di venire meno, è proprio la Storia stessa: l’archeologia della fonte, garanzia di oggettività e giustificazione.
La risposta di Ubisoft e il futuro dei franchise
Concludendo, Ubisoft ha cercato di bilanciare mercato e nostalgia: da un lato il ciclo di vita dei giochi online ha una scadenza inevitabile, dall’altro ha promesso alcune concessioni nel supporto offline futuro. In particolare Guillemot, CEO di Ubisoft ha anche affermato che i giocatori vengono avvisati in tempo quando un gioco Ubisoft sta per essere dismesso. In particolare, con The Crew, Ubisoft ha offerto il suo successore, The Crew 2, in offerta a 1 euro per due settimane prima della chiusura del gioco originale, così da dare modo di passare al nuovo con una piccola spesa. Tuttavia, la risposta non soddisfa il movimento Stop Killing Games, che chiede piuttosto piani che garantiscano la giocabilità post-server anche per i titoli già venduti. Gestire il fine vita di un gioco attraverso il suo sequel appare un approccio riduttivo: ogni capitolo dovrebbe avere una propria autonomia, altrimenti il rischio è quello di trasformare i franchise in cloni seriali — un modello alla FIFA che riduce il valore di ogni singola esperienza videoludica.











