Per molti anni i microchip sono stati un dettaglio invisibile della nostra vita quotidiana. Sono rimasti esattamente dove sono: dentro smartphone, computer e centraline delle automobili, ma lontani dal dibattito pubblico.
Un grosso problema, tra i tanti, che si pongono come massi enormi sulle ambizioni dell’Europa di creare una propria sovranità sui chip.
Vediamo bene.
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Il dominio di Taiwan sui chip
La pandemia, le tensioni crescenti tra Cina e Taiwan e la corsa all’intelligenza artificiale hanno fatto emergere un dato scomodo: una parte enorme della produzione mondiale di chip avanzati è concentrata in un’unica area geografica, l’isola di Taiwan, e in particolare nelle fabbriche di un solo colosso, la Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (TSMC).
Questa concentrazione è frutto di una scelta industriale ormai storica. A partire dalla fine degli anni ‘80, TSMC ha inventato il modello di business: molte aziende tecnologiche – per esempio Apple o Nvidia – progettano i loro chip ma non li producono direttamente. Affidano la produzione fisica proprio a TSMC, che si è specializzata nel ruolo di “fonderia” globale. Nel tempo sempre più imprese hanno chiuso o ridimensionato le proprie divisioni di produzione interne, preferendo delegare la parte più complessa e costosa del processo. Il risultato è che gran parte dei chip più sofisticati che fanno funzionare i data center, automobili e molti dispositivi elettronici nascono negli impianti di TSMC in Taiwan.
Quando la pandemia ha interrotto le catene logistiche globali e, allo stesso tempo, milioni di persone si sono spostate verso lo smartworking, la domanda di dispositivi e infrastrutture digitali è esplosa. Proprio in quel momento la produzione era frenata da lockdown, colli di bottiglia nei trasporti, carenza di manodopera. L’onda d’urto è arrivata fino alle fabbriche europee: costruttori di auto costretti a fermare linee di montaggio, elettrodomestici che non arrivavano nei negozi, tempi di consegna dilatati. L’Europa ha scoperto di dipendere in modo cruciale da un “monopolio di fatto” geograficamente vulnerabile, situato a pochi chilometri dalla costa cinese, in un contesto politico sempre più teso.
La consapevolezza è aumentata ulteriormente man mano che l’intelligenza artificiale ha cominciato a richiedere quantità enormi di chip. I supercomputer per la ricerca scientifica, i sistemi di guida autonoma hanno bisogno di semiconduttori molto potenti, che solo poche fabbriche al mondo sono in grado di produrre. Il rischio è apparso chiaro: un incidente, una crisi politica o una guerra nello Stretto di Taiwan potrebbero avere effetti immediati sulla capacità dell’Europa di produrre auto, apparecchiature mediche, infrastrutture energetiche e fornire continuità nei servizi digitali.
Crisi dei semiconduttori: la risposta industriale europea
In questo quadro, la domanda politica e industriale è diventata: come ridurre la dipendenza senza distruggere una filiera globale che, fino a ieri, era stata fonte di efficienza e innovazione? La risposta europea si è articolata in due direzioni. Da un lato, il varo dell’European Chips Act, un grande piano che punta a raddoppiare la quota dell’Unione nella produzione mondiale di semiconduttori entro il 2030, mobilitando circa 43 miliardi di euro di investimenti pubblici e privati. Dall’altro, la decisione di invitare proprio TSMC a costruire nuove fabbriche sul suolo europeo, a partire dalla Germania.
Dresda e la Silicon Saxony nella crisi dei semiconduttori
L’arrivo di TSMC a Dresda, in Sassonia, è un progetto imponente: una fabbrica di semiconduttori, costruita in joint venture con tre campioni europei del settore, Bosch, Infineon e NXP. La società veicolo si chiama European Semiconductor Manufacturing Company (ESMC) e punta ad avviare la produzione nel 2027, con un investimento complessivo superiore ai 10 miliardi di euro, circa la metà dei quali coperti dal governo tedesco e da fondi europei, all’interno della Silicon Saxony, un network di aziende che combina innovazione, ricerca, responsabilità e sostenibilità.
L’area scelta non è casuale. Attorno a Dresda esiste già un ecosistema di elettronica e microelettronica, inoltre Infineon e Bosch possiedono già impianti nella zona, specializzati in chip e sensori per l’automotive. La nuova fabbrica TSMC non produrrà i chip più sofisticati per l’intelligenza artificiale, ma dispositivi “maturi”, robusti e certificati, destinati soprattutto alle auto, ai macchinari industriali, agli elettrodomestici e alle infrastrutture energetiche. È proprio quel segmento dove i colli di bottiglia degli ultimi anni hanno fatto più male all’economia europea.
Dietro l’immagine delle ruspe che preparano il terreno, però, il racconto mette in luce un elemento spesso trascurato. Un impianto di semiconduttori non è solo un grande capannone pieno di macchine costose. È una sorta di città industriale, alimentata da una fitta rete di fornitori ultra-specializzati. Uno di questi è la taiwanese Taiwan Puritic Corporation (TPC), che da anni fornisce a TSMC i sistemi di tubazioni per i gas ultra-puri nelle camere bianche. Senza quei gas, filtrati e gestiti in modo impeccabile, la produzione si fermerebbe.
Il trasferimento di questa rete di imprese in Europa è tutt’altro che lineare. Chi è incaricato di costruire la filiale tedesca di una impresa che ha base a Taiwan deve scontrarsi con una serie di ostacoli che vanno ben oltre il tecnico: procedure di visto complesse per i dipendenti stranieri, contratti di lavoro da adattare a regole diverse, barriere linguistiche, un mercato del lavoro in cui molti ingegneri preferiscono aziende locali piuttosto che una società straniera che richiede lunghe trasferte in Asia e disponibilità praticamente 24 ore su 24 in fase di avviamento degli impianti.
Secondo alcuni manager di Taiwan della rete di imprese che collaborano con TSMC, servono alcuni mesi per trovare un ingegnere tedesco disponibile e all’altezza della sfida, ciò nonostante, la necessità urgente di persone con competenze tecniche elevate. Mentre i tecnici taiwanesi hanno visti di tre anni: sono fondamentali per l’avvio, ma non possono garantire continuità a tempo indeterminato, a meno di non essere supportati anche per sostenere le spese di trasferimento della famiglia. Perfino trovare e affittare gli uffici vicino all’aeroporto di Dresda richiede quasi un anno, in parte per la difficoltà di interagire con proprietari e agenzie poco abituati a trattare con aziende straniere del settore microelettronico.
Questo si inserisce in un problema più ampio. Gli esperti del settore sottolineano che costruire una fabbrica di chip in Europa può costare quasi il doppio rispetto a un impianto equivalente in Taiwan, anche a causa di standard edilizi e ambientali più rigidi, costo del lavoro più alto e minore abitudine delle pubbliche amministrazioni a gestire progetti industriali di questo tipo in tempi stretti. Mentre TSMC a casa propria è abituata a mettere in funzione tre nuovi impianti l’anno, contando su procedure autorizzative collaudate e su una filiera già radicata, in Germania ogni passo richiede un negoziato con molteplici autorità.
Nonostante questi ostacoli, l’ambizione è grande. Le autorità locali parlano di migliaia di posti di lavoro diretti e indiretti, di un indotto che coinvolgerà università, centri di ricerca, fornitori di chimica, logistica, servizi. La visita a Dresda dell’ex presidente taiwanese Tsai Ing-wen, che ha incoraggiato gli ingegneri a “lavorare sodo all’estero, senza dimenticare Taiwan”, è un segnale del valore simbolico di questo progetto. È una fabbrica, ma anche un ponte politico e industriale tra due mondi che, fino a poco fa, si incontravano solo lungo la rotta delle navi container.
L’automotive europeo nella crisi dei semiconduttori
Per capire perché l’Europa si stia spingendo a tanto, è utile guardare al settore che più sta soffrendo la crisi dei semiconduttori: l’automotive. Come già raccontato su queste pagine le catena di fornitura di chip per la manifattura automobilistica europea è a rischio. Le auto moderne sono computer su ruote. Ogni veicolo contiene decine, a volte centinaia di microchip: per il controllo motore, la gestione della batteria, i sistemi di sicurezza, i sensori di parcheggio, l’infotainment, la connettività, i dispositivi di assistenza alla guida.
In questa giungla di componenti ce ne sono alcuni molto sofisticati, prodotti da poche fabbriche al mondo, e altri relativamente semplici, dal costo unitario di pochi euro. Ma tutti sono necessari, e basta che uno manchi perché il veicolo non possa essere completato e venduto.
Negli anni passati, i costruttori europei hanno adottato il modello del “just in time”, riducendo al minimo le scorte di magazzino per contenere i costi. Finché la catena globale dei chip ha funzionato senza intoppi, la scelta è stata razionale. Quando però la pandemia, la ripresa a scatti della domanda, persino gli eventi climatici estremi e poi le tensioni geopolitiche hanno colpito diversi anelli della filiera, il sistema ha mostrato tutta la sua fragilità.
Linee di montaggio in Germania, Francia, Italia e Spagna sono state fermate o rallentate non perché mancassero acciaio o plastica, ma per la carenza di un componente elettronico marginale in termini di costo, ma essenziale in termini funzionali.
La situazione si è ulteriormente complicata con il caso Nexperia, uno dei principali produttori europei di chip per applicazioni automobilistiche, controllato da un gruppo cinese. Per motivi di sicurezza economica e di governance, il governo olandese è intervenuto prendendo il controllo della società, dopo avere già limitato negli anni precedenti alcune acquisizioni nel settore. A valle di queste decisioni, si è innescato uno scontro interno tra la sede europea e quella cinese, culminato nel blocco delle spedizioni di semiconduttori verso l’impianto di packaging e test in Cina.
Per l’industria dell’auto europea è stato un campanello d’allarme fortissimo. Una parte significativa dei chip prodotti in Europa viene infatti inviata in Asia per la fase finale di confezionamento e collaudo, per poi tornare indietro come componenti pronti all’uso. Quando le spedizioni si fermano, non è semplice trovare alternative: servono certificazioni specifiche per l’automotive, e nuovi fornitori non possono essere inseriti nel giro di poche settimane.
Questo caso, che si aggiunge alle difficoltà generate dalla carenza globale di semiconduttori dal 2020 in poi, mostra due cose. La prima è che il problema non riguarda solo i chip “di frontiera” usati nei data center, ma anche dispositivi relativamente semplici, come i Mosfet (transistor a effetto di campo che viene utilizzato per amplificare o commutare segnali elettronici) che però sono prodotti in volumi enormi e con standard qualitativi molto severi. La seconda è che l’Europa non è vulnerabile solo nella produzione, ma anche nelle fasi a valle della catena, come il packaging e il test, dove la dipendenza da strutture situate in Cina o in altri paesi asiatici è ancora molto forte.
In questo contesto, la fabbrica TSMC/ESMC di Dresda assume un significato particolare. Non è solo una risposta al rischio di interruzioni provenienti da Taiwan, ma anche un tentativo di ribilanciare l’intera filiera, rafforzando sul suolo europeo quelle capacità produttive che garantiscono l’affidabilità nel tempo di settori come l’auto e l’energia. Allo stesso tempo, però, l’Europa deve fare i conti con i propri limiti: tempi lunghi per i permessi, difficoltà a coordinare gli aiuti pubblici tra diversi Stati membri, carenza di tecnici specializzati.
Taiwan, Stati Uniti ed Europa: una partita geopolitica sui chip
Se allarghiamo lo sguardo oltre l’Europa, arriviamo a Taipei, dove il presidente di Taiwan, Lai Ching-te, è intervenuto pubblicamente per rassicurare i cittadini dopo l’annuncio di un maxi piano di investimenti di TSMC negli Stati Uniti. La società taiwanese, infatti, ha comunicato l’intenzione di spendere 100 miliardi di dollari in quattro anni per espandere gli impianti in Arizona, portando il totale degli impegni nel paese a circa 165 miliardi. In gioco ci sono sei fabbriche, un centro di ricerca e sviluppo e circa 25.000 posti di lavoro, con clienti di prima grandezza come Apple, Nvidia, Qualcomm e Broadcom.
L’amministrazione statunitense ha spinto esplicitamente in questa direzione, chiedendo a Taiwan di “sbilanciare” meno la produzione verso l’isola e minacciando dazi elevati in caso di mancata collaborazione. Allo stesso tempo, alcune voci a Washington accusano Taipei di investire troppo poco nella propria difesa e di avere un surplus commerciale eccessivo. Per rispondere a queste pressioni, il governo di Lai ha promesso di aumentare la spesa militare oltre il 3% del PIL.
All’interno di Taiwan, però, la scelta di TSMC di portare una parte importante dei suoi processi produttivi più avanzati negli Stati Uniti non è vista da tutti con favore. Molti considerano il settore dei semiconduttori non solo come il pilastro dell’economia, ma anche come uno “scudo di silicio”: l’idea che il ruolo insostituibile di Taiwan nelle catene globali riduca la probabilità di un’aggressione militare cinese, perché il resto del mondo avrebbe troppo da perdere. Se TSMC investe massicciamente all’estero, la paura di alcuni politici e commentatori è che questo scudo si indebolisca.
Il presidente Lai e l’amministratore delegato di TSMC cercano di rispondere con un messaggio diverso. Le decisioni, spiegano, sono prese in base a valutazioni di mercato e non solo politiche. La domanda dei clienti americani è tale che anche il piano di espansione ufficialmente annunciato non basterebbe a coprirne le esigenze. Allo stesso tempo, l’azienda insiste sul fatto che gli impianti più avanzati, quelli dove si sperimentano i nodi tecnologici più spinti, resteranno a Taiwan, mentre quelli all’estero serviranno soprattutto applicazioni specifiche, come l’automotive e l’AI distribuita.
Questo equilibrio delicato riguarda da vicino anche l’Europa. Quando TSMC decide dove investire, valuta contemporaneamente incentivi economici, stabilità politica, accesso a una forza lavoro qualificata, costi operativi e, sempre di più, il quadro di alleanze tra i paesi interessati. La fabbrica di Dresda non è solo un’infrastruttura produttiva: è il segnale che l’Europa vuole essere parte attiva di questa nuova geografia dei semiconduttori, non un semplice cliente dipendente dagli umori di Washington, Pechino o Taipei.
Allo stesso tempo, però, l’Unione non ha la massa finanziaria degli Stati Uniti, né la capacità di concentrare le decisioni politiche e industriali tipica dei grandi stati nazionali asiatici. La recente decisione olandese su Nexperia, le tensioni con la Cina e le diverse sensibilità tra Stati membri su quanto spingere il “decoupling” tecnologico lo dimostrano chiaramente. L’Europa cerca un equilibrio tra difesa della propria sicurezza economica e apertura ai mercati globali, senza rompere i legami commerciali che sono ancora fondamentali per la sua prosperità.
Chips Act europeo e crisi dei semiconduttori
Tutto questo converge nell’European Chips Act, il pacchetto legislativo con cui la Commissione europea e gli Stati membri cercano di dare una risposta sistemica alla crisi dei semiconduttori. Approvato nel 2023, il piano punta a portare la quota dell’Europa nella produzione globale di chip dal 10 al 20 per cento entro il 2030, con uno stanziamento complessivo stimato in 43 miliardi di euro tra fondi pubblici e privati.
L’idea, sulla carta, è semplice. In primo luogo, rafforzare la ricerca e l’innovazione, sostenendo centri di eccellenza come imec, le università tecniche e le partnership pubblico–private. In secondo luogo, supportare economicamente la costruzione di nuove “mega-fab”, cioè impianti di ultima generazione in grado di produrre grandi volumi di chip su wafer di silicio di 300 millimetri, come appunto la fabbrica TSMC/ESMC di Dresda. In terzo luogo, istituire meccanismi di monitoraggio e intervento rapido per prevenire e gestire future crisi di approvvigionamento, evitando di ripetere il caos vissuto tra il 2020 e il 2022.
Ma bisogna rimanere in guardia rispetto alle ipotesi spesso ottimistiche. L’Europa non parte da zero: ospita aziende come ASML, leader mondiale nelle macchine per litografia estrema, e gruppi come STMicroelectronics, Infineon, Bosch e NXP, forti nei chip di potenza e dell’automotive. Tuttavia, fatica a trasformare strategie ambiziose in risultati concreti in tempi compatibili con la velocità del settore. Il rischio è che, mentre si discutono nuovi capitoli del Chips Act o addirittura un ipotetico “Chips Act 2”, altri paesi consolidino ulteriormente il loro vantaggio competitivo.
Le principali sfide sono almeno tre.
Burocrazia e tempi autorizzativi
La prima è la burocrazia. Se un’impresa e i suoi fornitori impiegano mesi o anni per ottenere permessi edilizi, autorizzazioni ambientali, visti per personale chiave, è difficile convincere un attore globale come TSMC ad espandersi ulteriormente in Europa, soprattutto quando può ottenere procedure più snelle altrove. La storia di manager taiwanesi a Dresda è, da questo punto di vista, un promemoria molto concreto.
Competenze e forza lavoro specializzata
La seconda sfida riguarda le competenze. Per far funzionare una fabbrica di chip servono non solo ingegneri altamente qualificati, ma anche tecnici di produzione, chimici, esperti di sicurezza, manutentori, operatori di clean room. L’Europa sta investendo in programmi di formazione, anche legati al Chips Act, ma parte con un ritardo rispetto a regioni dove la microelettronica è da decenni una priorità nazionale.
Coordinamento politico e strategia comune
La terza sfida è il coordinamento politico. Gli Stati membri hanno risorse e priorità diverse; alcuni possono offrire generosi sussidi nazionali, altri molto meno. Senza una regia forte, il rischio è una competizione interna per attrarre investimenti, invece di una strategia condivisa che valorizzi le specializzazioni di ciascun paese e costruisca filiere integrate.
Europa tra chip e autonomia strategica
La lezione è che la crisi dei chip non è un incidente passeggero, ma il sintomo di una trasformazione più profonda. I semiconduttori sono diventati l’infrastruttura invisibile su cui poggiano l’auto, l’energia, la difesa, la sanità, la stessa democrazia digitale. Decidere dove e come vengono progettati, prodotti e testati significa decidere chi avrà voce in capitolo sul futuro tecnologico del pianeta.
Nei prossimi mesi capiremo se l’Europa sarà riuscita a trasformare le lezioni dolorose degli ultimi tempi in una nuova capacità di produrre – non solo consumare – tecnologia critica. Se ci riuscirà, Dresda e la sua “Silicon Saxony” potrebbero entrare nelle mappe non solo degli addetti ai lavori, ma di chiunque si chieda da dove arriva, in pratica, l’intelligenza che fa funzionare il mondo digitale.










