CDN e AGCOM

Regolare le Content Delivery Networks, l’Italia ci prova: ecco gli effetti



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Siamo il primo Paese a mettere regole alle Content delivery networks, con una delibera Agcom. Una mossa molto controversa, con diversi punti di interesse e critici. Facciamo chiarezza

Pubblicato il 7 nov 2025

Sergio Boccadutri

Consulente antiriciclaggio e pagamenti elettronici



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Con la delibera numero 207/25/CONS del 30 luglio 2025, l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni ha stabilito che le Content Delivery Network rientrano nella definizione di rete di comunicazione elettronica e sono quindi soggette al regime di autorizzazione generale previsto dal Codice delle comunicazioni elettroniche italiano.

La decisione colloca l’Italia come primo Paese europeo ad estendere formalmente la regolamentazione delle telecomunicazioni alle infrastrutture CDN aprendo un dibattito che si intreccia con le discussioni in corso a livello comunitario sul futuro Digital Networks Act che la Commissione europea prevede di pubblicare entro gennaio 2026.

La reazione di alcune piattaforme non si è lasciata attendere tanto che Amazon, Netflix e Cloudflare hanno proposto un ricorso al TAR del Lazio contro il provvedimento dell’Agcom che rappresenta dunque un precedente controverso che divide il mercato digitale.

Cosa sono le CDN e perché sono importanti per Internet

Le Content Delivery Network sono reti composte da server distribuiti geograficamente che ottimizzano la consegna dei contenuti digitali agli utenti finali. Questi server, spesso indicati come cache, sono installati all’interno delle reti degli operatori di comunicazioni elettroniche o negli Internet Exchange Point, i punti di interconnessione dove si scambiano i flussi di traffico Internet.

La collocazione in prossimità degli utenti consente di migliorare la qualità del servizio riducendo la latenza (vale a dire il tempo necessario perché un dato viaggi dal server all’utente), di evitare congestioni nelle dorsali durante i picchi di traffico simultaneo e di ottimizzare l’efficienza della trasmissione dati, aspetto particolarmente cruciale per il live streaming di eventi ad alta audience come le partite di calcio.

Tre tipi di Cdn

Nel mercato si distinguono tre tipologie principali di CDN. Le CDN private sono quelle nelle quali il fornitore di contenuti mantiene il controllo completo dei server e li utilizza esclusivamente per i propri asset. Le CDN pubbliche sono invece gestite da provider specializzati che offrono i loro servizi a una pluralità di fornitori di contenuti. Esistono infine le CDN “mixed-use”, in cui un fornitore usa la propria infrastruttura sia per i propri contenuti sia per offrire servizi a terzi, un modello ibrido sempre più diffuso nel settore.

La posizione di Agcom: una nuova interpretazione del Codice

L’Autorità fonda la propria decisione su una specifica interpretazione del Codice delle comunicazioni elettroniche. Agcom sostiene che una CDN può essere considerata un tipo specifico di rete di comunicazione elettronica, costituita da apparati che consentono la trasmissione di segnali tramite fibre ottiche e implicano la gestione di elementi di rete attivi con capacità di amministrazione centralizzata.

In alternativa, la CDN può essere qualificata come risorsa correlata a una rete di comunicazione elettronica quando un operatore tradizionale la possiede e la gestisce all’interno della propria rete.

La delibera chiarisce che il servizio fornito mediante un’infrastruttura CDN è inquadrabile come servizio di comunicazione elettronica, in quanto consistente esclusivamente o prevalentemente nella trasmissione di segnali, facendo riferimento alla definizione contenuta nell’articolo 2 del Codice. Questa interpretazione rappresenta un’estensione significativa del perimetro regolatorio tradizionale delle telecomunicazioni.

Questo approccio non nasce nel vuoto ma trae origine dall’atto di indirizzo per il corretto dimensionamento e la dislocazione geografica della rete per la trasmissione delle partite di calcio di Serie A in live streaming, approvato con la delibera numero 206/21/CONS del giugno 2021. L’Autorità aveva già ricondotto l’attività connessa alla rete di distribuzione indicata come “DAZN Edge” ad alcuni aspetti dell’ambito di applicazione del Codice, in relazione alla trasmissione delle partite di calcio come servizio di interesse pubblico nazionale.

A seguito di quell’atto di indirizzo, DAZN ha ottenuto l’autorizzazione generale per l’installazione e la fornitura di una rete pubblica di comunicazione elettronica. Con la nuova delibera 207/25/CONS Agcom estende ora questo impianto a tutti i provider CDN e ai fornitori di contenuti che dispongono di infrastrutture CDN sul territorio italiano, creando un precedente che potrebbe influenzare le politiche regolatorie in altri Paesi europei.

Secondo la delibera, devono ottenere l’autorizzazione generale i provider CDN la cui infrastruttura è installata sul territorio nazionale e i fornitori di contenuti e applicazioni che possiedono, gestiscono o controllano una CDN in Italia per la distribuzione dei propri contenuti. La stessa delibera chiarisce che un soggetto che si limiti a fornire contenuti senza possedere o gestire una CDN non necessita dell’autorizzazione generale ai sensi dell’articolo 11 del Codice, pur rimanendo qualificato come fornitore di servizi media audiovisivi quando applicabile.

L’autorizzazione generale comporta il pagamento di diritti amministrativi come previsti dall’Allegato 12 del Codice, recentemente modificato dal Decreto Legislativo 48/2024 per menzionare esplicitamente le CDN. Si aggiungono obblighi di trasparenza e di comunicazione verso l’Autorità e una potenziale supervisione regolamentare in caso di controversie con altri operatori. Questi adempimenti rappresentano un cambiamento significativo per operatori abituati a operare in un contesto meno regolamentato.

Content delivery networks, un mercato profondamente diviso

La consultazione pubblica ha visto la partecipazione di 27 stakeholder e ha evidenziato una divisione netta nell’ecosistema digitale. I sostenitori della misura, prevalentemente operatori di telecomunicazioni tradizionali, sostengono che l’estensione ha l’effetto di stabilire condizioni più eque tra tutti gli attori della filiera, essendo dunque coerente con la definizione di rete di comunicazione elettronica già presente nel Codice e con l’aggiornamento normativo che include le CDN tra i soggetti tenuti ai contributi. Inoltre, le telco ritengono che questo approccio agevola l’Autorità nel dirimere controversie tra operatori e provider di CDN o di contenuti e abiliti una vigilanza su un segmento cruciale della catena tecnologica per garantire qualità ed efficienza.

Le posizioni contrarie sono espresse soprattutto da fornitori di contenuti, provider CDN globali e associazioni di settore. Questi soggetti insistono sull’assenza di una reale convergenza tra reti di telecomunicazioni e servizi cloud e Internet moderni. Le CDN sono viste come infrastrutture di ottimizzazione e caching piuttosto che come mezzi di trasmissione nel senso stretto del Codice. La mera presenza di server destinati a stoccaggio e instradamento non sarebbe sufficiente a qualificare l’attività come fornitura di mezzi di trasmissione.

Un punto centrale delle obiezioni riguarda la mancanza di un fallimento di mercato che giustifichi l’intervento regolatorio. L’Europa è considerata un ecosistema digitale di successo, con un mercato dell’interconnessione IP, il protocollo di Internet, efficiente e a bassa frizione nel quale tre delle quattro città più connesse al mondo risultano europee. In questo mercato, la stragrande maggioranza degli accordi di peering, ovvero gli accordi di scambio di traffico tra reti, viene conclusa senza contratti formali, con esempi come DE-CIX a Francoforte che ospitano un numero molto elevato di reti interconnesse.

Uno studio di Plum Consulting del 2025 ha sottolineato come il mercato dell’interconnessione IP si sia dimostrato competitivo anche in assenza di interventi ex ante, avvertendo che un eccesso di regolazione potrebbe penalizzare la concorrenza e rallentare la digitalizzazione europea. Altri rilievi riguardano il rischio di “gold plating”, ovvero l’aggiunta di requisiti nazionali più stringenti rispetto a quelli europei, e di frammentazione europea, poiché nessun altro Paese membro ha finora esteso la regolazione telco alle CDN. Questo renderebbe l’Italia un caso isolato, con possibili effetti di incertezza normativa per operatori globali, disincentivo agli investimenti in infrastrutture digitali sul territorio e frammentazione regolatoria in attesa del Digital Networks Act.

Il contesto europeo: il Digital Networks Act e il dibattito sul fair share

La decisione dell’Agcom si inserisce in un contesto europeo in evoluzione. La Commissione Europea prevede di adottare il Digital Networks Act entro i primi mesi del 2026, una normativa che rappresenta la riforma più importante del settore telecomunicazioni dell’UE in decenni, promettendo di ridisegnare il panorama normativo. La consultazione sul futuro di questa normativa ha esplorato tre direttrici interconnesse.

  • La prima riguarda il cosiddetto level playing field, cioè l’ipotesi di estendere la regolamentazione delle telecomunicazioni a servizi cloud e Internet sulla base di una presunta convergenza con le reti tradizionali. Tale convergenza è contestata da molti operatori digitali, che ritengono profondamente diverso costruire reti di accesso last-mile, l’ultimo miglio che connette l’utente finale alla rete, soggette a obblighi regolamentari, rispetto all’offerta globale di risorse computazionali e servizi applicativi.
  • La seconda direttrice riguarda l’introduzione di meccanismi di risoluzione delle controversie per l’interconnessione IP, un tema emerso con forza nel 2023 in parallelo al dibattito sul cosiddetto fair share, che aprirebbe alla possibilità di interventi regolatori sui termini commerciali tra operatori di rete e grandi generatori di traffico. Questioni sull’interconnessione IP sono centrali nel dibattito sul finanziamento delle reti Internet ad alta velocità, con i fornitori di telecomunicazioni che sostengono che le aziende tecnologiche dovrebbero contribuire ai costi dell’infrastruttura di rete dato il loro sostanziale utilizzo del traffico dati.
  • La terza direttrice fa riferimento ai cosiddetti “innovative services”, con possibili modifiche al Regolamento Open Internet, che stabilisce le regole sulla neutralità della rete, per consentire differenziazioni di traffico e contenuti, specialmente su reti 5G, con il rischio di un Internet “pay to play” in contrasto con i principi fondamentali della neutralità della rete.

Un elemento rilevante per comprendere la posta in gioco è la trasformazione del potere di mercato lungo la catena del valore digitale. Una quota molto ampia del traffico globale origina oggi da un numero ristretto di grandi piattaforme e il loro controllo su sistemi operativi, dorsali private, CDN e servizi cloud consente di influenzare qualità e instradamento oltre la sfera di gestione degli Internet Service Provider e al di fuori del perimetro delle regole del Regolamento Open Internet.

Circa il 60% del traffico di rete globale proviene da sette grandi attori e questi soggetti gestiscono in misura crescente backbones privati, Content Delivery Network e servizi cloud, spostando quote crescenti di traffico fuori dall’ambito delle regole di Open Internet applicabili agli Internet Sercice Provider.

L’Agcom precisa che dall’autorizzazione generale non deriva alcuna previsione di tariffe regolamentate per l’IP peering. Ciononostante, il timore latente è che la classificazione delle CDN come operatori telco costituisca un passo propedeutico all’introduzione di contributi economici a carico di fornitori di contenuti e provider CDN. Il concetto di network fees, tariffe per l’uso della rete, è riemerso in forme diverse in precedenti dibattiti internazionali ed era stato a suo tempo rigettato dalla maggior parte degli stakeholder.

Questioni pratiche ancora da risolvere nella regolazione Cdn

La delibera solleva interrogativi applicativi non del tutto risolti. Restano da chiarire i confini dell’ambito territoriale: occorre definire cosa significhi avere un’infrastruttura sul territorio nazionale, se basti un singolo server, se sia necessario un punto di presenza o una certa numerosità di nodi cache. È inoltre da precisare la nozione di controllo nei confronti dei fornitori di contenuti che impiegano esclusivamente CDN pubbliche di terze parti, in particolare dove esistono modelli ibridi.

Occorre poi comprendere come si applichino le regole a CDN globali distribuite, che operano come sistemi sovrapposti a molteplici reti fisiche in Paesi diversi, e se sia opportuno introdurre soglie o metriche di capacità, throughput o permanenza dell’installazione. Un ulteriore elemento riguarda i modelli multi-CDN adottati da molti fornitori di contenuti per ragioni di resilienza e copertura geografica, con conseguenti complessità nella determinazione degli obblighi.

Sul piano dell’efficienza, l’Agcom ritiene che l’estensione del regime autorizzatorio possa favorire una migliore ottimizzazione del traffico. Anche se un intervento inappropriato sull’interconnessione IP potrebbe ridurre l’efficienza complessiva, spingendo lo scambio di traffico a maggiore distanza dagli utenti per effetto di distorsioni regolatorie. Mentre un altro rischio concreto è rappresentato dai nuovi oneri amministrativi e potenziali costi aggiuntivi applicabili solo in Italia e che dunque potrebbero scoraggiare investimenti in infrastrutture digitali nel nostro Paese, ponendolo in una condizione di svantaggio competitivo rispetto a contesti regolatori meno gravosi.

Agcom qualifica la delibera come intervento di natura pre-regolamentare, classificatorio e volto alla trasparenza, senza l’introduzione di rimedi specifici ulteriori rispetto a quelli strettamente derivanti dall’autorizzazione generale.

L’Autorità afferma che un eventuale intervento di merito avverrebbe nell’ambito di controversie concrete, privilegiando, in prima battuta, il raggiungimento di un accordo tra le parti. Rimane il dubbio, tuttavia, che tale impostazione non sia sufficiente a dissipare le preoccupazioni di operatori internazionali rispetto al rischio di futuri obblighi più gravosi, soprattutto qualora il Digital Networks Act prendesse una direzione più interventista.

La neutralità della rete e l’Open Internet in bilico

Le CDN nascono per migliorare l’esperienza di un Internet aperto, avvicinando i contenuti richiesti dagli utenti e riducendo costi per gli operatori. La loro regolamentazione come operatori telco potrebbe però ripercuotersi negativamente sull’ecosistema aperto se portasse a poteri discrezionali per i fornitori di accesso nel differenziare trattamenti tra diversi provider di contenuti o di CDN in base a condizioni commerciali.

Il rischio è quello di frammentare il mercato digitale europeo con regole diverse tra Paesi, innalzare barriere all’ingresso per nuovi operatori e mettere in tensione i principi del Regolamento sulla neutralità della rete. In parallelo, va registrata l’evoluzione del perimetro effettivo delle tutele di neutralità: le regole di Open Internet limitano principalmente l’azione degli ISP, mentre quote crescenti di traffico e di controllo su qualità e routing sono gestite da soggetti non sottoposti agli stessi obblighi, inclusi i livelli di CDN, interconnessione e cloud operati da grandi piattaforme.

L’esperienza maturata con la delibera del 2021 e con il Tavolo tecnico istituito per coordinare operatori e fornitore di contenuti nel contesto della Serie A evidenzia la necessità di un coordinamento operativo capace di mitigare congestioni durante i picchi di traffico, di un’ottimizzazione geografica della distribuzione delle cache in base ai pattern di fruizione e di un monitoraggio continuo tramite un osservatorio dedicato. Questi elementi suggeriscono che, almeno per il live streaming ad altissima audience, una certa supervisione può risultare utile. Resta dubbia, tuttavia, l’estensione generalizzata del medesimo impianto a tutte le CDN, comprese quelle dedicate a contenuti on-demand che seguono pattern di traffico più distribuiti nel tempo e più facilmente gestibili.

Per comprendere la delibera è necessario considerare alcune specificità nazionali. Gli operatori affrontano pressioni competitive e margini in diminuzione, mentre gli investimenti in FTTH pesano sui bilanci. L’adozione crescente di servizi video in streaming ha generato una crescita esponenziale del traffico dati e la necessità di dimensionare adeguatamente le reti.

In questo quadro, la spinta di alcuni operatori per una regolamentazione delle CDN può essere letta come un tentativo di condividere gli oneri di investimento lungo la catena del valore, ottenere maggiore leva negoziale nei confronti dei grandi generatori di traffico e individuare nuove traiettorie di ricavo in un mercato maturo. All’interno del mercato italiano emergono inoltre profili di level playing field connessi a situazioni di integrazione verticale, nei casi in cui un ISP distribuisce contenuti proprietari tramite CDN interne e sovrappone ruoli industriali regolati con attività affini a quelle dei provider di CDN.

Nessun altro paese dell’Unione Europea ha attualmente esteso la regolamentazione telco alle CDN. L’Italia si distingue dunque come pioniere o, secondo altri, come outlier, un caso isolato nel panorama europeo. Fuori dall’UE, gli approcci variano dal mercato libero con enforcement ex-post all’intervento mirato in contesti specifici e non risultano modelli immediatamente sovrapponibili a quello italiano.

Cdn, regole Agcom: le conseguenze economiche e l’impatto sull’innovazione

L’ottenimento e il mantenimento dell’autorizzazione possono comportare in prospettiva costi diretti, come i contributi amministrativi annuali e gli oneri legali e organizzativi per la predisposizione della documentazione, e costi indiretti, come risorse dedicate alla compliance e possibili ritardi nel deployment di nuove infrastrutture. Per i grandi operatori globali questi costi sono assorbibili, mentre per operatori più piccoli o nuovi entranti possono rappresentare barriere significative.

L’estensione regolatoria può modificare la catena del valore dell’ecosistema digitale nazionale. In uno scenario negativo, i provider CDN potrebbero ridurre la loro presenza in Italia a scapito della latenza per gli utenti, inoltre i fornitori di contenuti dipenderanno maggiormente da infrastrutture extra-UE ma al contempo gli operatori telco tradizionali acquisirebbero maggiore leva negoziale con potenziali aumenti di costo a carico dei servizi. In uno scenario positivo, la nuova disciplina potrebbe invece promuovere trasparenza, cooperazione e prevedibilità, consentendo interventi mirati dell’Autorità in caso di controversie e stimolando investimenti coordinati.

Questioni ancora aperte

La delibera menziona infrastrutture presenti sul territorio nazionale ma non specifica soglie quantitative o qualitative. Restano aperti interrogativi sul numero minimo di cache, sulla capacità necessaria, sul carattere permanente o temporaneo delle installazioni e sulla misurazione del throughput. La natura “overlay” delle CDN, che operano sopra le reti fisiche degli operatori, suggerisce prudenza nella qualificazione: le CDN ottimizzano il percorso dei contenuti con logiche applicative senza sostituire la funzione di trasporto propria delle reti di accesso e di dorsale.

Non viene affrontato in modo esplicito il rapporto con edge computing e soluzioni MEC, Mobile Edge Computing, nel 5G. Se risorse computazionali vengono distribuite ai margini della rete per applicazioni in tempo reale, occorre stabilire se e come tali installazioni rientrino nella medesima categoria ai fini regolatori e con quali confini, evitando estensioni eccessivamente ampie.

Per Agcom risulta auspicabile la pubblicazione di linee guida implementative con soglie e definizioni operative chiare, un approccio proporzionato che distingua tra live streaming ad alta audience e on-demand, meccanismi di revisione periodica degli effetti della misura su investimenti, innovazione e qualità del servizio, un dialogo strutturato con altre autorità nazionali per evitare frammentazione e un focus su controversie effettive evitando un eccesso di regolazione preventiva.

Adesso la palla è al Tar che potrebbe persino bocciare la delibera , ma di certo la delibera è anche una grana per il Governo, in particolare per il Ministero delle Imprese e del Made in Italy che farebbe bene a svolgere una verifica della compatibilità della decisione con il diritto dell’Unione (in particolare i divieti di gold plating) e il suo coordinamento con l’evoluzione del Digital Networks Act.

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