la sentenza

Google Shopping è arbitro e giocatore: il flop della concorrenza



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La sentenza C-48/22 contro Google e Alphabet ha evidenziato l’abuso di posizione dominante di Google nel mercato dei motori di ricerca e comparatori di prezzo. La decisione europea potrebbe rivoluzionare il concetto di concorrenza digitale, enfatizzando l’importanza dell’interoperabilità e aprendo nuove prospettive per la regolamentazione delle piattaforme digitali

Pubblicato il 12 set 2024

Stefano Gigante

Avvocato, RTD presso CoA Bari



google (1)

Chi controlla la Spezia controlla l’universo, sentenziava Frank Herbert nella saga di Dune, parlando di una droga in grado di fornire ai Navigatori, casta di piloti spaziali, la capacità di viaggiare nel cosmo senza dover ricorrere all’ausilio dei computer.

Nel mondo dell’informazione e dell’ICT, la Spezia diventa l’informazione stessa: palese è che l’utente che voglia acquistare beni e servizi finirà a interpellare un motore di ricerca, mezzo per comparare i prezzi e le occasioni tra diversi negozi online, sostituendo all’atto fisico del window shopping il mezzo digitale della comparazione.

E come per molti utenti “di base” Windows è diventato sinonimo del mondo PC ed Apple e Android del mondo smart, Google è ormai sinonimo di motore di ricerca.

La premessa è il fulcro del ragionamento alla base di C-48/22, Google e Alphabet c/ Commissione

Google Shopping, le origini del contendere

È facile pensare a “Google” come un monolite, ma dobbiamo pensare a Google come una galassia di sistemi interconnessi il cui fulcro è in Google Search il motore stesso di ricerca. Una enorme vetrina di accesso a diversi servizi, tra cui Google Ads (precedentemente: Adwords), il servizio legato alla pubblicità di beni e servizi online che consente di ottenere una “corsia preferenziale” sul motore di ricerca stesso o su ulteriori servizi della compagnia (YouTube, Gmail, Shopping) e il citato Google Shopping, aggregatore per individuare diverse soluzioni di acquisto per lo stesso bene.

Ovviamente tale interoperabilità costituisce una fonte di remunerazione diretta e mediata per Google stessa: Google riceverà remunerazione per i link sponsorizzati da chi è pronto ad acquistare spazio promozionale e pagamento per ogni click (pay for click).

In tutto questo, Google Shopping, inizialmente niente più che uno dei progetti individuali dei programmatori nati dalla “Regola del 20%” (ogni dipendente è autorizzato a dedicare il 20% del suo tempo di lavoro alla creazione e sviluppo di un progetto indipendente) è diventato una delle colonne fondanti dello shopping online.

L’evoluzione verso un sistema “Pay to play”

Nel 2012 Google Shopping, un tempo Froggle evolve verso un sistema “Pay to Play”: pagare per uno spazio su Google Shopping significava poter scavalcare ogni ricerca facendo in modo che i venditori iscritti vedessero i loro prodotti nelle “shopping units”, box/bottoni virtuali da cliccare per raggiungere il prodotto.

I link di Google Shopping fossero favoriti rispetto ai concorrenti

Di contro, l’interoperabilità completa dell’ecosistema Google faceva in modo che i link di Google Shopping fossero favoriti rispetto a quelli di ogni altro comparatore commerciale, presentati in modo visivamente attraente, accattivante e in un ecosistema in cui il link “in cima alla pagina” è il favorito, creando un’immagine di prodotto premium ed esclusivo.

Sommiamo a questo Google Catalogs, parte dell’ecosistema Google dal 2011 al 2015 che di fatto usava il dataset fornito da Google Shopping per creare quello che a tutti gli effetti era un successore virtuale del “catalogo per corrispondenza” tanto caro alla generazione analogica.

Le cause contro Google Shopping

Tutto questo ha portato dal 2010 fino al 2017 una lunga serie di soggetti commerciali tra cui Mr. Sessolo (“nntp.it”) mediante l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato Italiana, Yelp, Microsoft e altri fornitori di servizi similari a rivolgersi alla Commissione Europea contro Google e la holding cui essa fa capo: Alphabet.

Google ribatté adducendo errori procedurali e una imperfetta cognizione del compendio probatorio da parte dell’UE.

La decisione e la posizione della Commissione

Sostanzialmente, come accadde per il simile caso di Microsoft, Google (e quindi Alphabet in solido in quanto holding) si trovò e si trova in una situazione assai complicata. Un mondo in cui Google è sia partecipante ad una gara che arbitro, se non direttamente gestore del campo.

Come già evidenziato nel Case AT.39740, a febbraio 2017 Google Search era il motore di ricerca di elezione del’80% degli utenti di computer fissi e del 95% degli utenti di device mobili, lasciando di fatto ai motori di ricerca concorrenti le briciole del mercato.

Esaminando lo stesso periodo, quindi in presenza di Google Shopping nel panorama europeo, Google Search era quindi mediamente il motore di ricerca usato da una percentuale prossima al 90%, con picchi del 96% dei cybernauti europei.

Che vedevano quindi i link proposti da Google Shopping in cima ad ogni ricerca, presentati in modo assai accattivante e con una percentuale infima del c.d. multihoming (Case AT.39740, pag. 69).

Spiegato brevemente, gli utenti di Google Search solo nel 10% dei casi (in Italia) erano usi chiedere una seconda opinione agli altri motori di ricerca. Percentuale che saliva all’84% per Bing, il motore di ricerca Microsoft.

Google Search veniva quindi percepito come autorevole e dominante, i suoi “suggerimenti”, compresa l’integrazione completa, sia verticale che orizzontale con Google Shopping come frutto di elevata qualità e non come scelta commerciale e in base all’articolo 102 del TUE e all’articolo 54 dell’accordo sullo Spazio economico europeo tra le Comunità europee, avrebbe dovuto astenersi dal “le imprese in posizione dominante possono essere private del diritto di adottare comportamenti, o di compiere atti, che non sono in se stessi abusivi e che sarebbero persino incensurabili se fossero adottati, o compiuti, da imprese non dominanti”. Il tutto a prescindere dal dolo.

Arriviamo così alla condanna nel giugno del 2017, e alla conferma della stessa nel 2021.

La conferma del Tribunale dell’Unione Europea e della Corte Europea

In sede di ricorso il Tribunale dell’Unione Europea non poté che evidenziare un ulteriore paradosso: consideriamo quindi un motore di ricerca “in linea di principio, un’infrastruttura aperta, la cui ragion d’essere e il cui valore risiedono nella sua capacità di essere aperto ai risultati provenienti dall’esterno, ossia da fonti terze, e di mostrare tali fonti, che lo arricchiscono e gli conferiscono credibilità”.

Ciò posto un motore di ricerca autoriferito e integrato coi suoi stessi servizi cessa di essere una infrastruttura aperta, e a nulla conta l’eccezione di Google per cui la concorrenza continua ad operare sullo stesso mercato.

La posizione dominante di Google spiegata semplice

Ciò è vero formalmente, ma di fatto la posizione dominante di Google come comparatore e come gestore del principale motore di ricerca interoperabile col comparatore rende la pressione e la competitività degli stessi negligibile.

Immaginiamo assieme una fiera in cui il gestore decida in autonomia piena quali esercenti avranno gli stand migliori, più facilmente raggiungibili, più vicini ai punti di ingresso e possa decidere quali saranno nella sezione principale della fiera, più visitata dagli avventori e quali finiranno a mezz’ora di “navetta” di distanza, raramente frequentati.

E lo faccia con criteri che favoriscano taluni standisti su altri, a seconda dell’uso di un servizio fornito dal gestore di talché essi sostanzialmente e in perpetuo in un ecosistema “tecnicamente basato sulla credibilità e l’affidabilità” ricevano sempre e solo la posizione migliore.

L’ammenda di 2,4 miliardi di euro per abuso di posizione dominante

Nuovamente quindi la Corte Ue con sentenza resa nella causa C-48/22 P resa a seguito del ricorso di Google e Alphabet del 22/4/2022, ha confermato l’ammenda di 2,4 miliardi di euro inflitta a Google per aver abusato della propria posizione dominante favorendo il proprio servizio di comparazione di prodotti.

“Siamo delusi, questa sentenza si riferisce a un insieme di fatti molto specifico. Abbiamo apportato modifiche nel 2017 per conformarci alla decisione della Commissione europea e il nostro approccio ha funzionato con successo per oltre sette anni, generando miliardi di clic per oltre 800 servizi di comparazione prezzi”, ha replicato Google.

Il Case AT.40099: la posizione dominante di Google per mezzo di Android

Non si arriva al 95% dell’uso dei servizi di Google per caso, e la sanzione di 4,35 miliardi di euro circa per Google nel 2018 non è meno casuale e non è meno remota.

Se Google ha recentemente ammesso di aver cambiato le proprie pratiche nel 2017, ancora nel 2018 il modello commerciale di Google prevedeva (e tutt’ora prevede) versioni ufficiali del proprio sistema operativo per smartphone, Android, uniche autorizzate ad avere le desiderate Google Apps.

Un fork, una versione non ufficiale costringe infatti l’utente finale a fare a meno dell’ecosistema Google, dall’App Store alla produttività, di fatto subendo un prodotto mutilato a meno che di operazioni esterne non alla portata del quisque populi, rendendo inutilizzabili fork come LineageOS (derivata da Cyanogen) creati per infondere nuova vita in cellulari datati ma di fatto limitati nel farlo agevolmente da scelte di Google.

Scelte determinate proprio dalla necessità di spingere con Google Search e la sua integrazione profonda con Chrome e Google Android la galassia di servizi cui Google si erge ad utente e arbitro del mercato vivendo entrambi i ruoli.

Prospettive e casi futuri

Potremmo a questo punto sposare la tesi presente in “Wind of change: la sentenza Google Shopping del Tribunale dell’Unione (T-612/17) e i possibili riflessi sulla prassi di antitrust enforcement nel settore delle piattaforme digitali” del Dott. Mario Barabano: salutare quindi all’interno della Transizione al Digitale un legislatore europeo che, superate le remore che portano a cercare di piegare le regole analogiche al mondo digitale esamina i concetti di concorrenza, posizione dominante e controllo del mercato in base a libri contabili e semplici quote di mercato, ma in base al concetto di “interoperabilità”.

Se in passato abbiamo già visto Microsoft dover aprire “le porte del suo sistema” per renderlo interoperabile con applicazioni di rete e multimedia, l’idea di Google costretto ad aprire le porte ad altri sistemi di shopping potrebbe riverberarsi, ad esempio, sull’apertura all’interoperabilità da e verso altri servizi sulla falsariga di quanto visto con Microsoft.

Ad esempio consentendo lo sviluppo di app per sistemi Android e da essi derivati senza ulteriori gatekeeping, come intimato da AGCOM relativamente all’App Enel X Italia, di cui si è richiesto template per rendere interoperabili coi sistemi operativi “smart” per il sistema di infotainment e gestione di bordo della macchina app interattive per la gestione dei punti ricarica elettrica.

Interoperabilità diventa la parola chiave

Il precedente potrebbe inoltre riverberarsi sul parere preliminare della Commissione Europea su AdTech, ancora basato sull’articolo articolo 102 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, e sempre legato al concetto di interoperabilità mancata con Google ecosistema chiuso interoperabile solo con se stesso e dove le ripetute modifiche nel modello commerciale sembrano soggiacere non già alla necessità di rendere interoperabile un sistema chiuso ma “rendere più difficile identificare le stesse modalità esecutive e gli stessi obiettivi” (Margrethe Vestager).

Interoperabilità diventa la parola chiave: un ecosistema dominante dovrà evolversi per ospitare una fauna digitale il più complessa e multipiattaforma possibile.

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