Correva l’anno 2018, prima presidenza Trump. Il virus della follia daziaria aveva già contagiato l’amministrazione statunitense, alimentando l’illusione di poter governare il commercio globale attraverso un ritorno al protezionismo. L’obiettivo? Riportare l’autonomia produttiva americana al centro della scena economica mondiale.
Indice degli argomenti
Il caso Harley Davidson e le prime contraddizioni del mandato Trump 1.0
Il resto del mondo rispose con misure simmetriche, innescando una spirale di tensioni commerciali. Emblematico il caso di Harley-Davidson, icona del “Made in USA”, che decise di trasferire in Thailandia la produzione delle motociclette destinate al mercato europeo, per evitare i dazi imposti dall’Unione Europea in risposta alle tariffe USA.
La mossa di Harley-Davidson, però, mise in luce tutta la contraddizione del protezionismo trumpiano. L’UE giudicò l’operazione come una mera elusione doganale e negò l’origine thailandese ai veicoli, imponendo comunque un dazio supplementare del 25%. Due gradi di giudizio, dal Tribunale di primo grado alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, confermarono la decisione, ridefinendo il confine tra libertà d’impresa e finalità economica. Fu un segnale chiaro: non basta spostare la produzione per sfuggire alle regole, soprattutto quando il vantaggio fiscale è l’unico fine.
Il ritorno del protezionismo USA e la sua radicalizzazione
Oggi, nel 2025, con la seconda presidenza Trump, il virus daziario è tornato con più forza. Il nazionalismo autoritario della Casa Bianca si scontra con una realtà economica interdipendente e intricata. Mentre il resto del mondo cerca compromessi per limitare i danni, giganti come Cina e Giappone rispondono colpo su colpo, anche se con esitazioni. L’Unione Europea, invece, appare divisa e impotente, sospesa tra volontà politica e vincoli economici.
In questo scenario, anche Apple — simbolo dell’innovazione americana — valuta lo spostamento della produzione di iPhone dalla Cina all’India, meno colpita dalle politiche protezionistiche di Trump. Ma l’ipotesi di un rimpatrio della produzione resta fuori discussione, segno che anche le aziende più patriottiche non credono nella sostenibilità del sogno manifatturiero trumpiano.
Apple e il costo della riorganizzazione per le Big Tech
Il CEO di Apple, Tim Cook, ha stimato un aumento dei costi pari a 900 milioni di dollari solo per questo trimestre, a causa della riorganizzazione della supply chain. L’azienda ha già avviato l’accumulo di scorte per evitare che i dispositivi venduti negli USA provengano dalla Cina, e sta costruendo impianti per chip e server in collaborazione con partner industriali.
Tuttavia, l’impatto è evidente: dopo la pubblicazione dei risultati trimestrali, le azioni Apple sono crollate del 4,3%. Il costo della “cura Trump” non è solo politico, ma anche finanziario.
Apple non è sola. In una lettera congiunta, Sony, Nintendo e Microsoft hanno denunciato l’impatto sproporzionato dei nuovi dazi sulla filiera del gaming, profondamente radicata in Asia. Microsoft ha già annunciato un aumento dei prezzi negli Stati Uniti, Europa, Australia e Regno Unito, seguendo l’esempio di Sony e in attesa delle mosse di Nintendo, che lancerà i nuovi prodotti il 2 giugno.
Il problema è sistemico
Il problema è sistemico: le relazioni commerciali tra USA e Asia — in particolare con Cina, Giappone e Vietnam — sono sotto pressione, e le aziende si trovano costrette a fare scelte drastiche per sopravvivere.
Trump continua a promettere un ritorno alla grande industria americana, ma la realtà lo smentisce. A parte casi isolati come TSMC, che ha annunciato un investimento da 100 miliardi di dollari negli Stati Uniti per produrre chip AI e supercomputer in Arizona e Texas, la maggior parte delle aziende resta scettica. Il nodo è sempre lo stesso: dove trovare know-how e materie prime al di fuori del Sud-est asiatico, duramente colpito dai dazi?
Le case automobilistiche americane hanno provato a spiegare al Presidente l’impossibilità di riportare in patria, in tempi brevi, competenze e capacità produttive. Vale lo stesso per il settore tech: anche se si volesse delocalizzare negli USA, le materie prime resterebbero comunque straniere — e quindi soggette ai dazi.
Semiconduttori e circuiti integrati: a che punto siamo
Trump ha escluso temporaneamente dai dazi alcuni componenti strategici come semiconduttori e circuiti integrati nonostante le voci che egli stesso aveva diffuso all’inizio dell’anno sull’introduzione di nuove tariffe al 25% proprio su queste componenti — che il Presidente vorrebbe interamente prodotti negli USA.
Decisioni e dietro front che creano ulteriore incertezza, e l’incertezza è il peggior nemico del business.
La partita è persa? Possibili strategie per contenere i danni
Alla fine, la sensazione è quella di una partita persa in partenza. Le contromisure UE arriveranno presto, i colloqui con la Cina sembrano lontani e i mercati non aspettano.
Le aziende, tech e non, possono sì studiare alcune strategie doganali per attenuare l’impatto, come:
- diversificare fornitori e mercati per ridurre la dipendenza da specifiche regioni soggette a restrizioni commerciali.
- ottimizzare la supply chain, magari attraverso il nearshoring o il reshoring, che possono contribuire a ridurre i rischi associati alle interruzioni commerciali e alle fluttuazioni dei costi
- stimare attentamente i propri tassi di pass-through, ossia la capacità di trasferire il costo dei dazi sui prezzi finali, per anticipare gli impatti economici.
Ma il rischio, oggi, rimane altissimo. Pertanto, l’unica arma efficace a disposizione delle aziende è rimanere informate e monitorare attentamente l’evoluzione delle politiche commerciali.
Il conto da pagare per l’inasprimento delle politiche protezionistiche potrebbe manifestarsi nei prossimi mesi, e solo le imprese preparate e reattive saranno in grado di affrontare efficacemente queste sfide.