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Meta AI in WhatsApp: prima grande prova per l’antitrust UE



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L’indagine formale della Commissione Europea su Meta AI dentro WhatsApp apre il primo vero caso antitrust sull’AI generativa. Al centro, il rischio di abuso di posizione dominante, il controllo dei dati conversazionali e l’impatto su startup, telco e modelli europei di innovazione

Pubblicato il 5 dic 2025

Tania Orrù

Privacy Officer e Consulente Privacy Tuv Italia



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L’indagine antitrust formale aperta questa settimana dalla Commissione Europea nei confronti di Meta per l’integrazione obbligatoria di Meta AI all’interno di WhatsApp rappresenta il primo vero stress test regolatorio per l’Intelligenza Artificiale Generativa in Europa.

L’indagine contro Meta Platforms ha lo scopo di verificare se le nuove regole di WhatsApp (in particolare i recenti WhatsApp Business Solution Terms) limitino l’accesso di servizi di Intelligenza Artificiale di terze parti, favorendo invece la propria AI integrata, Meta AI. L’Italia è esclusa dal perimetro dell’indagine europea perché nel Paese è già in corso un procedimento autonomo dell’AGCM sulla stessa condotta.

L’ipotesi è infatti che Meta stia sfruttando la sua posizione dominante nella messaggistica per costringere gli utenti a usare solo la sua AI, escludendo potenziali concorrenti.

La notizia, oltre ad essere l’ennesimo capitolo della lunga storia di frizioni tra Bruxelles e le Big Tech, rappresenta la prima volta in cui il sospetto di abuso riguarda il modo in cui un servizio di AI viene distribuito direttamente agli utenti tramite una piattaforma che, per funzionamento e diffusione, è assimilabile a un’infrastruttura essenziale.

Meta AI in WhatsApp come banco di prova per l’antitrust europeo

La questione ruota attorno a un concetto noto al diritto della concorrenza, la vendita abbinata, ora traslato nel dominio dell’AI generativa. In questo contesto le dinamiche competitive sono ormai definite sia dall’innovazione tecnologica che dalla possibilità di alimentare e scalare un modello conversazionale grazie a miliardi di interazioni quotidiane.

WhatsApp è ormai, per milioni di europei, l’equivalente digitale della rubrica telefonica degli anni Novanta: uno strumento non aggirabile, radicato nella vita privata, professionale e commerciale di cittadini e imprese. L’inserimento di Meta AI come componente predefinita dell’interfaccia modifica la natura stessa dell’applicazione, trasformandola in un canale di distribuzione privilegiato per l’assistente proprietario di Meta.

Come l’integrazione di Meta AI su WhatsApp cambia la natura della piattaforma

Gli utenti, anziché essere chiamati a scegliere un servizio di AI sulla base delle sue caratteristiche, lo trovano automaticamente a disposizione nel luogo in cui trascorrono la maggior parte del proprio tempo digitale. Questo crea un vantaggio competitivo che non è legato alla qualità del modello, bensì alla posizione dominante della piattaforma di distribuzione.

Questo frangente, secondo la Commissione (e l’AGCM), apre una possibile configurazione di abuso: occorre senz’altro consentire a Meta di innovare, ma verificando se la modalità di integrazione riduca lo spazio competitivo per alternative, rendendo di fatto superflua o impraticabile la ricerca di altri assistenti.

Dal tying tradizionale all’era della generative AI

Il tying è una pratica in cui un’azienda dominante “lega” un prodotto a un altro per rafforzare la propria posizione. È già successo nel digitale, ad esempio quando Microsoft impose Internet Explorer dentro Windows, o quando Google favorì i propri servizi nei risultati di ricerca. Tuttavia, le analogie si fermano qui, perché nel caso di WhatsApp e Meta AI si tratta dell’integrazione di un modello di intelligenza artificiale che impara, si raffina e migliora con l’uso, e non di un semplice software “aggiunto”.

Questo rende il tying dell’AI molto più pericoloso e potenzialmente irreversibile rispetto a quello del passato. Quando un operatore dominante obbliga gli utenti ad adottare tale modello come componente nativa di una piattaforma essenziale, ottiene un accesso privilegiato a un volume di interazioni che nessun concorrente può replicare.

L’abuso, se provato, riguarda la creazione di un ciclo auto-rinforzante in cui l’uso genera dati, i dati migliorano il modello e il modello, migliorando, rafforza la posizione competitiva del proprietario. È una forma di auto-preferenza non dichiarata e potentissima, capace di cristallizzare i rapporti di forza nel mercato dell’AI conversazionale quando questo mercato è ancora in fase nascente.

Perché Bruxelles indaga su Meta AI senza ricorrere al DMA

La decisione della Commissione di procedere con l’Articolo 102 TFUE, anziché con i meccanismi del Digital Markets Act (DMA), rivela molto sulla natura di questo caso. Il DMA è costruito per imporre obblighi generali e prevenire comportamenti ricorrenti dei gatekeeper, mentre l’integrazione di Meta AI dentro WhatsApp non sembra rientrare facilmente in una categoria tipizzata.

Si tratta infatti di un comportamento nuovo, altamente tecnico e ancora privo di un precedente normativo chiaro. L’antitrust, con la sua capacità di analizzare a fondo le dinamiche economiche e gli effetti concreti di una pratica, offre il margine investigativo necessario per comprendere se l’integrazione comporti un ostacolo effettivo all’ingresso o allo sviluppo di concorrenti.

In filigrana, questa scelta sembra suggerire qualcosa di più scomodo: quando il digitale evolve più velocemente della regolazione, le norme “vecchie” finiscono per essere paradossalmente più utili di quelle nuove. L’Articolo 102 TFUE, che ha già attraversato alcuni decenni e innumerevoli rivoluzioni tecnologiche, sembra offrire alla Commissione quella flessibilità investigativa che il DMA, pur modernissimo, non è ancora in grado di garantire.

Il DMA funziona bene quando il comportamento del gatekeeper è tipizzato, prevedibile, catalogabile; al contrario, l’integrazione di Meta AI dentro WhatsApp sfugge a ogni schema predefinito. È un comportamento nuovo, ibrido, tecnico, borderline. Proprio in questi casi l’antitrust tradizionale, con la sua capacità di entrare nel merito degli effetti economici, torna sorprendentemente attuale. Una sorta di ironia regolatoria: così per governare le tecnologie più avanzate, a volte servono gli strumenti più “antichi”.

Meta AI su WhatsApp e la rendita sul dato conversazionale

Al di là dell’apparenza, l’elemento davvero strategico sul quale concentrarsi non è la presenza visibile dell’icona di Meta AI nella barra della chat, elemento sul quale tuttavia si è concentrato il dibattito pubblico in occasione della comparsa di questa novità, soprattutto per la presenza intrusiva e automatica di un pulsante circolare visibile nella schermata chat.

Quel dettaglio visibile ha finito per oscurare o far passare in secondo piano il vero nodo strategico che riguarda invece le implicazioni profonde sull’accesso ai dati, sulla distribuzione dei servizi AI e sulla capacità di Meta di consolidare un vantaggio competitivo strutturale attraverso l’uso quotidiano degli utenti.

Il punto cruciale è infatti la capacità di Meta di trasformare l’enorme base utenti di WhatsApp in un laboratorio permanente di addestramento per il proprio modello generativo. Anche se i contenuti delle conversazioni rimangono cifrati end-to-end, l’uso dell’assistente produce un flusso continuo di metadati che, nella logica dei sistemi AI, vale quanto e in alcuni casi più del contenuto testuale: tipologia delle richieste, tempi di risposta, frequenza delle interazioni, tassi di completamento, mappe di intenzioni.

Questi elementi alimentano un vantaggio competitivo cumulativo. Il risultato è la possibilità per Meta di costruire un ciclo esclusivo di apprendimento automatico che, una volta avviato, rende pressoché impossibile per i concorrenti colmare il divario, perché nessuno di essi può aspirare a una base dati equivalente. In questo scenario, l’abuso è anche cognitivo, in quanto consiste nel monopolizzare la capacità stessa di apprendere.

Il bivio per startup, telco e cloud europei

Il caso riguarda Meta, ma anche l’intero assetto del mercato europeo dell’AI. Le startup che sviluppano chatbot verticali si trovano improvvisamente davanti a un cambiamento strutturale della distribuzione: se l’unico luogo in cui gli utenti incontrano l’AI è quello controllato da Meta, gli spazi di visibilità e sperimentazione per soluzioni alternative si riducono drasticamente.

Le telco europee, che da tempo tentano di ridefinire il proprio ruolo integrando l’AI nei servizi di customer care e nelle interfacce di assistenza, rischiano di perdere la sfida dell’interazione diretta con l’utente, che verrebbe assorbita dall’assistente nativo dell’app di messaggistica.

Le piattaforme cloud, soprattutto quelle che investono sui modelli open-source, vedrebbero complicarsi la possibilità di offrire soluzioni integrate che richiedono canali conversazionali aperti. Nel complesso, l’effetto è quello di un ecosistema in cui l’innovazione, pur non mancando di talento o risorse, verrebbe frenata perché il punto di accesso principale agli utenti è già occupato da un’unica AI.

Evitare il lock-in europeo nei sistemi AI delle Big Tech

Il caso Meta si inserisce in una dinamica più ampia, in cui Stati Uniti e Cina stanno costruendo modelli di integrazione tra piattaforme e AI capaci di concentrare in pochi attori il controllo sui dati e sull’apprendimento dei modelli. L’Europa, che da anni si sforza di evitare di diventare un semplice mercato di destinazione per tecnologie sviluppate altrove, vede nella regolazione delle AI conversazionali uno degli ultimi spazi per mantenere autonomia strategica.

Se la porta d’ingresso principale all’AI viene monopolizzata, qualunque tentativo di costruire un modello europeo (fondato su interoperabilità, neutralità e pluralità) perde di senso. Il caso WhatsApp è un test politico che riguarda la possibilità stessa per l’Europa di non rimanere confinata al ruolo di spettatrice in una delle trasformazioni tecnologiche più significative dell’ultimo decennio.

Il significato del caso Meta AI per il futuro dell’AI in Europa

L’apertura dell’indagine da parte della Commissione invia un messaggio netto: l’AI non può diventare il moltiplicatore di potere di posizioni dominanti già consolidate. L’intento non sembra quello di punire Meta, quanto stabilire un principio: se una piattaforma dominante può imporre la propria AI come interfaccia predefinita della comunicazione, allora l’intero mercato dell’AI conversazionale rischia di essere definito da un solo attore.

Il risultato del procedimento avrà conseguenze dirette sulla possibilità per i cittadini europei di scegliere l’AI con cui interagire, sul destino delle startup che cercano di competere in modo innovativo e sul clima complessivo in cui la Generative AI potrà svilupparsi in Europa. In una fase in cui l’AI sta diventando la nuova interfaccia universale del digitale, stabilire i confini tra integrazione lecita e comportamento anticoncorrenziale rappresenta una scelta di politica industriale con cui si misurerà la capacità dell’Europa di rimanere protagonista nel futuro dell’IA.

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