Ammontano a 450 miliardi di dollari circa i ricavi complessivi nel primo trimestre 2025 delle Big Five – Alphabet-Google, Amazon, Apple, Meta e Microsoft – che al solito hanno concentrato nel giro di pochi giorni (nella fattispecie fra il 24 aprile e il primo maggio) la presentazione dei loro dati: il 10% in più rispetto al primo trimestre 2024 e più di quanto previsto dagli analisti.
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Le previsioni delle Big Five nel nuovo contesto globale
Risultati piuttosto impressionanti, anche per quanto concerne i profitti, ma relativi a un periodo antecedente il “Liberation Day” (2 aprile): il giorno della presentazione da parte di Trump delle “tariffe reciproche”, con il loro rovinoso impatto sugli andamenti in generale delle Borse.
L’attenzione quindi, più che ai risultati del primo trimestre, era rivolta dal mercato a ciò che le Big Five avrebbero detto sull’andamento nel trimestre in corso (quello che finirà a giugno) e più in generale sulle conseguenze che esse si aspettano dal caos provocato da Trump nel commercio internazionale – una vera e propria guerra commerciale (“trade war”) contro la Cina e il resto del mondo in genere – e dalla possibile conseguente depressione dell’economia statunitense e di quella mondiale prevista dagli analisti.
Perché Apple e Amazon sono le più esposte alla guerra commerciale
Tre delle Big Five si sono rivelate relativamente ottimiste, almeno per i prossimi mesi, dato anche il buon andamento di aprile. Mentre più negative già per il trimestre in corso sono state le previsioni di Amazon e Apple – le due più implicate con la Cina – che non sono state in grado di fornire previsioni attendibili su un orizzonte temporale più lungo. Perché implicate con la Cina? Perché Il 145% imposto alle importazioni dalla Cina da Trump (e insieme il 135% imposto per ritorsione dalla Cina sulle merci provenienti dagli US), se confermato,
- va a colpire oltre un quarto delle vendite di Amazon negli Stati Uniti, anche se in parte compensato dalle riduzioni dei prezzi richieste/imposte agli esportatori cinesi;
- potrebbe colpire molto pesantemente Apple, se venisse cancellata la deroga provvisoria che le permette di pagare “solo” il 20% sugli iPhone e i suoi altri prodotti che sin dai tempi di Steve Jobs fa produrre materialmente in Cina e poi importa negli US, ed è per questa ragione che sta per essere completato (entro giugno) il trasferimento in India e in Vietnam del manufacturing di tutto ciò che è destinato al mercato statunitense, con un aggravio nei costi di 900 milioni di dollari per il trimestre in corso. Un aggravio non piccolo, ma da porre in relazione alla consistenza degli utili trimestrali di Apple stessa (24,8 miliardi di dollari su 95,4 di ricavi nel I trimestre), mentre un pericolo forse maggiore è che lo spostamento del manufacturing (che occupa complessivamente oltre un milione di persone) provochi un “political backlash” in Cina, con conseguenze sulle vendite in quello che è il suo terzo mercato a livello mondiale alle spalle di Usa e UE: vendite che risentono già della concorrenza crescente di imprese come Huawei e Xiaomi, che stanno continuamente migliorando il livello qualitativo dei loro prodotti e potrebbero approfittare anche delle difficoltà nell’introduzione della “Apple Intelligence”.
La resilienza del mercato tech nella tempesta della guerra commerciale
Nel complesso – e almeno per il momento – non un impatto così devastante della “trade war” scatenata da Trump come ci si poteva aspettare, sostiene The Wall Street Journal nel suo articolo del 2 maggio “What Big Tech Has Going for It in the Trade War – Apple and Amazon’s exposure remains a worry, but tariffs haven’t yet hobbled trillion-dollar tech giants”, mostrando anche (Fig.1) come Microsoft e Meta siano circa tornate alle quotazioni di inizio anno e come Alphabet, Amazon e Apple stiano almeno in parte recuperando la caduta verificatasi dopo l’annuncio delle “tariffe reciproche”.
Le ombre dell’antitrust su Google e Apple
Non va dimenticato a tale proposito (aggiungo io) il possibile impatto di quanto è avvenuto negli ultimi giorni in tema di antitrust:
- il DoJ-Department of Justice ha fatto durissime richieste di smembramento di Alphabet-Google in una delle due procedure antitrust in cui essa è coinvolta,
- Apple è in corsa in una sentenza estremamente pesante del giudice federale che si occupa della causa antitrust intentata anni fa da Epic Games: una sentenza che potrebbe pregiudicare il futuro dell’Apple Store, uno dei suoi business in continua crescita e più promettenti, e portare addirittura a una procedura penale nei riguardi di Tim Cook (“A federal judge hammered Apple for violating an antitrust ruling related to App Store restrictions and took the extraordinary step of referring the matter to federal prosecutors for a criminal contempt investigation”, WSJ, 1 maggio).
Il recupero del mercato dopo il liberation day
L’andamento superiore alle attese delle Big Five ha sicuramente contribuito a rasserenare il mercato borsistico, dato il loro peso sugli indici di Borsa (poco meno di un quarto dello S&P 500, come mostra la Tab. 1, che diventa il 30% se si allarga il discorso alle Magnificent Seven includendo Nvidia e Tesla).

Ma il fatto veramente clamoroso è stato che il 2 maggio (Fig. 2) è scomparsa dallo S&P 500 ogni traccia della violenta caduta subita dopo il “Liberation Day”.

I segnali di ripresa e il riavvicinamento Usa-Coia
“US stocks wipe out steep losses that followed Trump’s ‘liberation day’ – Rally in Wall Street’s S&P 500 share index comes after labour data shows 177,000 jobs were added in April”, titolava FT, attribuendo il merito principale del recupero all’inatteso dato positivo sull’occupazione (Fig. 3), visto come un segnale della vitalità dell’economia statunitense.

Ma un altro fattore, secondo molti analisti, aveva contribuito a questo recupero: l’apparire di alcuni timidi segnali di un riavvicinamento fra US e Cina, resi difficili dal timore di Trump e Xi di “perdere la faccia” sia nel proprio Paese sia a livello globale dando segni di cedimento, che facevano sperare in un possibile progressivo rientro dai livelli assurdi raggiunti dalle “tariffe reciproche” dei due Paesi.
Tra euforia e scetticismo: un recupero troppo rapido?
Hanno colpito soprattutto la velocità e la determinazione – 9 giorni di seguito di crescita (una sequenza che non si ripeteva da decenni) – con cui il totale recupero si è verificato, come se tutto fosse tornato a posto, come se la “trade war” fosse prossima alla fine, come se il pericolo di una depressione dell’economia mondiale fosse completamente scongiurato.
Ma è realmente così? Molto difficile (per usare un eufemismo) crederci. Non ci crede il capo mondiale della ricerca di Barclays: ““This rally seems to be on the expectation that — with regards to tariffs — the worst has passed. In fact, it is exactly the contrary. The worst has not yet shown up in the data. Nothing has shown up in the data yet (FT, 2 maggio)”.
Né appare crederci Warren Buffett, l’investitore più famoso del mondo che in questi giorni ha lasciato a 94 anni la sua storica carica di CEO di Berkshire Hathaway, che
- ha preferito negli ultimi mesi vendere azioni e accumulare una liquidità (fra cash e titoli del Tesoro) di ben 333 miliardi di $;
- nel momento del suo addio ha difeso in chiave anti trumpiana il “global trade”, sostenendo che il commercio non deve essere usato come un’arma ed esprimendo la sua condanna per le politiche che creano pochi vincitori e diffondono molto risentimento.
E comunque, mentre chiudo questo articolo (5 maggio, ore 13) leggo su WSJ che “S&P 500 is poised to break longest winning streak in decades”, che il riaggiustamento delle Borse è atteso per oggi, anche – se si crede nei “futures” – in misura contenuta.