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AI e didattica: verso una nuova pedagogia dell’interazione



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L’introduzione dell’AI nell’educazione richiede un equilibrio tra innovazione tecnologica e consapevolezza pedagogica. Dalle sperimentazioni europee alle policy italiane, emerge la necessità di formare docenti competenti e garantire equità nell’accesso a strumenti digitali sempre più pervasivi nell’apprendimento

Pubblicato il 11 dic 2025

Luca Baraldi

European Digital SME Alliance



IA a scuola (1) uso dell'IA da parte dei docenti formazione online docenti

Negli ultimi anni, soprattutto dopo l’avvento pervasivo di ChatGPT, l’intelligenza artificiale è entrata a pieno titolo nel mondo del lessico educativo. Sempre più frequentemente sentiamo parlare di piattaforme adattive, di tutor intelligenti, di sistemi predittivi per la dispersione scolastica, di assistenti virtuali per la didattica.

Tuttavia, al di là della retorica dell’innovazione, che ormai sembra legittimo aspettarsi anche nell’ambito delle scuole, si nasconde un nodo più profondo, una domanda che non possiamo non porci: che tipo di scuola e che tipo di conoscenza stiamo costruendo, in un mondo in cui l’AI sta sempre più diventando una mediatrice dei processi di apprendimento, di valutazione e persino delle dinamiche di relazione?

L’intelligenza artificiale come dispositivo cognitivo e politico

La discussione pubblica sull’introduzione e l’uso dell’AI nell’ambito educativo è spesso polarizzata – come in tanti altri contesti – tra entusiasmo e timore. Da una parte la promessa di una scuola più efficiente, più dinamica, più gamificata, più personalizzata, più accessibile; dall’altra la paura, non del tutto illegittima, di un’educazione automatizzata, governata da algoritmi opachi in un contesto di alfabetizzazione ancora insufficiente del mondo dell’educazione. Nel mezzo, il campo reale della scuola: le aule, la burocrazia farraginosa, gli insegnanti, le disuguaglianze territoriali, i limiti infrastrutturali e formativi.

L’AI, come ricordano, ormai da anni, con il loro lavoro, autori come Cristóbal Cobo e Miguel Benasayag, non può essere considerata solo dal punto di vista della tecnologia digitale, ma come un dispositivo cognitivo (e indirettamente politico), che ridefinisce il modo in cui le società apprendono, producono e distribuiscono la conoscenza, creano gli immaginari condivisi e costruiscono la fiducia alla base del contratto sociale. La scuola, che per secoli è stata il luogo di mediazione tra il sapere e la società, si trova ora davanti a una sfida inedita: la necessità di integrare un’intelligenza esterna, scarsamente controllabile (per come è prodotta oggi), senza perdere la propria funzione critica, culturale, umana, fortemente sociale.

Nel contesto europeo e internazionale, la riflessione su questi temi è diventata sistemica, benché ancora insufficiente, dal nostro punto di vista: UNESCO e la Commissione Europea parlano di AI literacy considerandola come una competenza di cittadinanza, mentre l’AI Act ha introdotto la categoria di “sistemi ad alto rischio anche per le applicazioni educative, evidenziando come gli algoritmi possono incidere sul diritto all’istruzione, o amplificare disuguaglianze storiche.

L’Italia, con l’emanazione delle Linee Guida del MIM 2025, ha scelto di governare l’introduzione dell’AI nelle scuole in modo graduale, etico e antropocentrico. Al di là delle dichiarazioni d’intenti, resta però aperta la domanda cruciale: in un mondo indirizzato in maniera profonda dall’economia digitale, riusciremo davvero a trasformare queste linee in pratiche, o resteremo fermi alle dichiarazioni di buoni intenti?

La delega cognitiva e il ripensamento della complessità educativa

L’AI (generativa) è arrivata in un momento in cui la scuola era già in trasformazione. Dopo la pandemia, le istituzioni educative sono state chiamate a convertirsi in ecosistemi digitali ibridi, in qualche modo sospesi tra l’aula e il cloud. Tuttavia, il salto qualitativo che oggi l’AI sta introducendo è di natura molto differente: non riguarda solo la digitalizzazione dei processi o delle abitudini, ma la delega cognitiva, il riconoscimento della legittimità della capacità di un sistema di analizzare, interpretare, suggerire, valutare e, almeno in parte, decidere.

Questa delega – che per alcuni è un’abdicazione – obbliga la scuola a ripensarsi come sistema complesso, nell’accezione intesa da Edgar Morin (Insegnare a vivere, 2014): un ambiente in cui ogni innovazione tecnica deve essere valutata nei suoi effetti interdipendenti (pedagogici, etici, relazionali, sociali).

L’AI non è – né deve essere considerata – come una bacchetta magica che risolve problemi, ma come un amplificatore di complessità: in maniera più o meno diretta, introduce nuove connessioni, nuove variabili, e contestualmente produce nuovi rischi. La questione non è più dunque semplicemente se usarla, ma come inserirla all’interno di un progetto educativo capace di mantenere al centro della propria visione e della propria strategia lo sviluppo integrale della persona e della collettività.

In molti Paesi europei e latinoamericani, esperienze come TeachAI, AI4K12, o il programma di alfabetizzazione AI di UNESCO Cile mostrano come la sfida non riguardi semplicemente l’introduzione di nuove tecnologie, ma il ripensamento della formazione di cittadini capaci di comprenderle criticamente. Non basta, pertanto, soltanto decidere come insegnare l’AI, ma occorre interrogarsi su come insegnare attraverso l’AI, con l’AI, nonostante l’AI, per sviluppare nuove forme di pensiero sistemico, etico e sociale.

Tuttavia, nel contesto odierno, la scuola rischia spesso di rimanere prigioniera di una doppia utopia. Da un lato, quella che potremmo definire tecnocratica, che vede nell’AI una grande opportunità, di moltiplicazione dell’efficienza e di capacità di personalizzazione come promessa di equità. Dall’altro, quella tecnofoba, difensiva, che la considera e la tratta come un corpo estraneo, distante dalle priorità vere della scuola, da tenere ai margini, per conservare la natura più profonda dell’esperienza educativa e per preservare la purezza del rapporto umano. Entrambe le posizioni, in realtà, in modi diversi, rischiano di ridurre la questione a una prospettiva eccessivamente semplicistica: la vera sfida non è semplicemente scegliere se accettare o rifiutare l’AI, ma capire come governarne la complessità, ridefinendo e costruendo un nuovo equilibrio tra innovazione e consapevolezza, tra sperimentazione e prudenza, tra dati e valori. Se la scuola viene tacitamente convertita in un campo di test per l’uso diffuso di modelli predittivi, senza una riflessione o una deliberata visione pedagogica, rischia di abdicare alla sua funzione più alta e sfidante: formare una cittadinanza capace di osservare, interpretare e trasformare il mondo.

Esperienze europee e internazionali di integrazione dell’AI

Nonostante il dibattito pubblico sul ruolo dell’intelligenza artificiale nella scuola sembri particolarmente fiorente, le esperienze concrete rimangono ancora poche, frammentate e con una consapevolezza sperimentale spesso limitata. Certamente si parla molto di AI ed educazione, ma, come spesso accade, soprattutto in momenti di transizione così difficilmente prevedibili, il rischio è quello di produrre più riflessione teorica che prospettiva pratica, più teorie per l’implementazione di linee guida che insight azionabili. In Europa potremmo affermare che la sperimentazione si muove principalmente tra tre assi principali: la personalizzazione dell’apprendimento, il supporto amministrativo e didattico, l’alfabetizzazione all’AI.

In Finlandia, certamente uno degli ambienti più avanzati in Europa, per l’innovazione didattica e la rapidità di adattamento alle rapide trasformazioni del mondo, sono in corso diverse iniziative che integrano AI, adattività dei percorsi e learning analytics. Come emerge da numerosi esempi della strategia nazionale, è sempre più diffuso l’uso dell’AI per lo sviluppo di percorsi di apprendimento personalizzati, per la creazione di contenuti adattivi, per il coinvolgimento dell’intero ecosistema dell’educazione in un processo dinamico di valorizzazione dei feedback e dei sistemi di valutazione.

Tra i tanti casi, la sperimentazione dell’AI agentica “MAI” (Metacognitive AI), sviluppata dalla University of Oulu e introdotta presso la scuola secondaria di Ritaharju, ha visto studenti di 12-13 anni, supportati nello sviluppo del pensiero critico da un agente metacognitivo che non fornisce risposte, ma aiuta a porre le domande: gli studenti hanno dichiarato, in un articolo di descrizione del progetto, che «non dà la risposta, ma aiuta a capire la domanda. In questo modo abbiamo ricordato meglio ciò che abbiamo imparato».

In molti contesti europei si stanno diffondendo pratiche sempre più ambiziose ed accurate di learning analytics, per cercare di prevenire la dispersione scolastica e migliorare il monitoraggio dei percorsi. Un articolo del 2022 analizza, a partire dal progetto europeo EKT, come l’uso dei dati e degli analytics nei sistemi scolastici possa supportare la personalizzazione dell’attività del docente e degli interventi formativi.

Fuori dal contesto europeo si registrano progetti pilota significativi, capaci di confermare ed evidenziare la scala e la complessità delle sfide che ci troveremo ad affrontare nei prossimi anni. Ad esempio il programma Inspired AI dell’Inspired Education Group ha coinvolto oltre 14.000 studenti in 26 scuole di 12 Paesi, utilizzando una piattaforma capace di rilevare e diagnosticare i punti di forza e debolezza degli studenti e delle studentesse, costruendo di conseguenza percorsi personalizzati e offrendo feedback in tempo reale anche a insegnanti e famiglie. Secondo i dati del progetto rilevati fino ad ora, in alcuni casi gli studenti hanno visto miglioramenti medi di rendimento di +8 punti percentuali rispetto al gruppo di controllo. Questo tipo di sperimentazione internazionale conferma come sia possibile, in un giusto contesto di progettazione e programmazione, connettere la tecnologia, gli strumenti di valutazione e i percorsi personalizzati su scala relativamente ampia. Pone tuttavia, com’è evidente, anche questioni critiche relative ad infrastrutture, contesti didattici, formazione dei docenti e governance dei dati.

L’Italia, pur potendo vantare una tradizione di innovazione pedagogica e un apparato istituzionale sempre più attento (basti pensare al Piano Scuola 4.0 e alle Linee Guida MIM 2025), mostra un panorama più diseguale. Le esperienze più avanzate si concentrano in reti scolastiche urbane, in progetti regionali pilota o in progetti-test di AI-assisted teaching, facendo emergere con chiarezza come la sperimentazione reale abbia bisogno di tre condizioni: infrastrutture, formazione e cultura organizzativa.

L’AI non si innesta semplicemente in un terreno neutro, ma amplifica la qualità e le caratteristiche del contesto in cui viene introdotta. Una scuola che funziona, dotata di strumenti adeguati e di una chiara leadership pedagogica, saprà usare l’AI per innovare. Una scuola fragile, con docenti isolati o non formati, rischierà di usarla come uno strumento di compensazione digitale, o – peggio ancora – di subirla come un’innovazione imposta per obbligo burocratico.

Dalla logica del progetto alla cultura ecosistemica

Occorre dunque prestare attenzione ad una lezione di metodo: l’AI non può essere concepito come un progetto imposto dall’alto, ma deve emergere come il risultato di un processo di ricerca-azione, necessariamente iterativo e partecipato. In questo senso, il vero salto di qualità non è certamente di natura tecnologica ma radicalmente culturale. È necessario elaborare una nuova prospettiva strategica, che permetta di passare dalla logica del “progetto innovativo” alla creazione di ecosistemi educativi intelligenti, in cui scuole, università, centri di ricerca e comunità locali possano collaborare per generare nuove forme di conoscenza condivisa.

Cristóbal Cobo, nel suo La innovación pendiente suggerisce come anche l’innovazione educativa debba essere concepita come un processo di trasformazione ecosistemica, e come possa e debba trarre insegnamento anche dal mondo della trasformazione organizzativa ed aziendale, chiamata ad una capacità di adattamento più rapida. Citando Kuklinski, sottolinea come la scuola debba, oggi più che mai, imparare a “sbagliare in maniera intelligente” (p. 136), perché solo attraverso la sperimentazione critica si potranno definire visioni, strategie e politiche capaci di indirizzare il futuro dell’educazione nel mondo e nell’era dell’accelerazione digitale.

Il digital divide come questione di giustizia cognitiva

Ogni rivoluzione tecnologica, soprattutto nell’era del digitale, porta con sé una promessa di democratizzazione e un contestuale rischio di esclusione. L’AI non fa eccezione.

Il suo potenziale di ampliare l’accesso alla conoscenza si scontra con il pericolo, sempre più evidente, di creare nuove forme di disuguaglianza, non più basate solamente sul reddito o sulle geografie, ma sulle differenze di competenza, consapevolezza e potere d’uso.

In Italia, i dati Istat 2024 mostrano con chiarezza le differenze evidenti tra aree interne e aree urbane, tra Nord e Sud, tra generazioni, sia riguardo la disponibilità e l’uso di tecnologie digitali aggiornate, sia riguardo il tipo di connettività. Ma il digital divide infrastrutturale – occorre sottolinearlo – è solo la punta dell’iceberg. La vera frattura riguarda la capacità di interagire criticamente con le tecnologie. Saper “usare” un sistema di AI non equivale infatti a comprenderne le logiche, i bias, le implicazioni. E conseguentemente non equivale alla capacità di gestirne i rischi o di prevenirne l’uso deteriore. A livello europeo, i documenti strategici del Digital Education Action Plan 2021-2027 indicano come priorità non tanto l’acquisto di tecnologie, ma la costruzione di una “cultura dell’apprendimento digitale equa e sostenibile”. Ciò significa, com’è evidente, che l’accesso all’AI non può essere considerato solo una questione tecnica, ma come una questione di giustizia cognitiva. Chi non è formato a comprendere l’AI, i suoi meccanismi e le sue implicazioni, rischia di non poter più partecipare pienamente ai processi sociali e decisionali della struttura democratica e dei modelli partecipativi europei.

Tuttavia la disuguaglianza può prendere forma, più o meno consapevolmente, in maniera più o meno invisibile, anche dentro la scuola stessa. Gli algoritmi di raccomandazione, le piattaforme di valutazione automatizzata e i sistemi adattivi di apprendimento utilizzano dati di comportamento e rendimento che – se non gestiti con la dovuta attenzione – possono consolidare pregiudizi e forme di disuguaglianza. Un alunno che inizia con risultati bassi può essere confinato in un percorso di “facilitazione” che, in nome della personalizzazione, rischia di diventare una gabbia algoritmica e di inibirne il potenziale cognitivo, creativo, relazionale. Come già denunciato da Ben Williamson, i sistemi educativi rischiano di evolvere verso una “datafication of learning“, in cui ogni studente rischia di essere analizzato, accompagnato, assistito e valutato più come un complesso di dati che come una persona in un processo di crescita.

Le disuguaglianze digitali non possono quindi essere ridotte semplicemente con più tecnologia, ma con più cura, più pedagogia e più governance. Serve una scuola che, sia nella didattica del tema, sia nell’uso della tecnologia, accompagni la comprensione del dato, che espliciti i criteri di valutazione, che renda trasparente ed evidente il modo in cui l’AI analizza e accompagna gli studenti. Serve un quadro di garanzie – come quello definito, almeno in parte, nelle Linee Guida MIM 2025 e nell’AI Act – che assicuri che gli strumenti adottati non introducano discriminazioni o profilazioni non etiche. E serve, soprattutto, un nuovo patto formativo tra istituzioni, docenti e studenti: un patto che riconosca la conoscenza non come un bene scarso da distribuire, né come un patrimonio di nozioni da trasferire, ma come una forma di intelligenza collettiva da coltivare.

Personalizzazione tra promessa di equità e rischio di gabbie algoritmiche

Tra le parole più ricorrenti nel dibattito sull’uso dell’AI a scuola, “personalizzazioneè forse la più scivolosa. Se da una parte il concetto evoca una promessa di equità – ogni studente con il proprio ritmo, nel rispetto di difficoltà e potenzialità – dall’altra nasconde rischi profondi di standardizzazione invisibile e di monitoraggio.

Le piattaforme adattive e i sistemi di learning analytics consentono di tracciare in modo puntuale i progressi, suggerire contenuti, adattare il livello di complessità di un esercizio. Nelle sperimentazioni finlandesi e olandesi, ad esempio, l’AI è stata utilizzata per creare percorsi di rinforzo individuale per studenti con difficoltà di apprendimento linguistico, riducendo la dispersione e migliorando l’autostima. In contesti ad alta complessità sociale, come le scuole francesi di Seine-Saint-Denis o i centri educativi di Barcellona, la personalizzazione si è tradotta in percorsi di accessibilità cognitiva: ambienti digitali che adattano il linguaggio, il ritmo e i contenuti alle caratteristiche culturali e linguistiche degli studenti. In Italia, alcune scuole secondarie hanno sperimentato con risultati incoraggianti l’uso di chatbot educativi basati su modelli di linguaggio controllati, per favorire il recupero pomeridiano personalizzato. Certamente sono iniziative che mostrano il potenziale concreto dell’AI come un amplificatore potenziale di inclusione, se progettata con criteri etici e supervisionata da docenti competenti. Tuttavia, la personalizzazione porta con sé un paradosso. Se tutto diventa adattivo, chi definisce la direzione dell’apprendimento? Un sistema che propone solo ciò che “pensa” che lo studente possa capire rischia di confinare la curiosità entro confini algoritmici.

Come evidenziato da Cobo, l’adattività senza intenzionalità pedagogica rischia di diventare una forma di addestramento, anziché un’opportunità perfezionata o accessibile di apprendimento. L’AI, in altre parole, può facilitare la conoscenza, se opportunamente indirizzata e governata, o limitarsi a ridurla a performance.

A livello più ampio, contestualmente, la personalizzazione solleva anche domande sui criteri di valutazione (su quali dati si basa il modello? con quali pesi e quali bias?), rischiando di distorcere l’analisi dell’esperienza pedagogica, facendo prevalere la capacità di chi riesce ad interagire correttamente – e quindi in maniera conforme al design specifico dell’esperienza digitale – con la piattaforma, penalizzando coloro che apprendono in modo critico, proattivo o divergente. La scuola, pur nell’uso pervasivo di queste tecnologie, dovrà sempre più interrogarsi su cosa significhi educare alla libertà e alla capacità di pensare oltre l’efficacia persuasiva della previsione statistica. Per semplificare, l’AI potrà quindi sostenere la personalizzazione solo se questa verrà integrata in una visione pedagogica ampia, fondata su tre principi:

  1. Trasparenza: gli studenti dovranno sapere – e dovranno essere messi in condizione di sapere – come gli algoritmi li analizzano, li monitorano, li stimolano;
  2. Supervisione umana: il docente resterà garante del senso, anziché un semplice esecutore delle istruzioni AI-driven, o un semplice garante del dato;
  3. Riflessione critica: ogni sistema dovrà essere accompagnato da momenti di discussione metacognitiva, per trasformare la personalizzazione in consapevolezza, non in adattamento passivo.

Solo così l’AI potrà personalizzare l’esperienza dell’apprendimento senza disumanizzare il potenziale antropopoietico – di formazione dell’essere umano – della conoscenza.

Le linee guida MIM 2025 tra governance e sfide attuative

L’Italia, con la pubblicazione delle Linee guida per l’introduzione dell’Intelligenza Artificiale nelle istituzioni scolastiche ha compiuto un passo socialmente, culturalmente e strategicamente importante: portare la riflessione sull’adoption dell’AI anche nel campo delle politiche educative pubbliche. Il documento – fortemente ispirato ad alcune priorità dell’AI Act, alla Recommendation on the Ethics of AI dell’UNESCO e alla Strategia Italiana per l’Intelligenza Artificiale 2024-2026 – contribuisce a comporre un quadro coerente di principi etici, tecnici e normativi per favorire un’adozione responsabile dell’AI nella scuola.

Le Linee guida riconoscono la centralità della persona, l’importanza della supervisione umana e la necessità di un’AI antropocentrica e affidabile. Identificano specifici ambiti di applicazione (supporto didattico, amministrativo, organizzativo) e classificano i sistemi educativi come potenzialmente “ad alto rischio“, in maniera coerente con l’AI Act, nei casi in cui coinvolgano condizioni o procedure di accesso, valutazione o monitoraggio degli studenti. È certamente un passo avanti, in termini di consapevolezza normativa, per la scuola italiana, per la prima volta chiamata a ragionare in termini di governance algoritmica (che va considerata come supervisione epistemologica), anziché soltanto di didattica digitale.

Punti di forza delle Linee Guida MIM 2025

  • Offrono un quadro organico e aggiornato, in linea con l’AI Act europeo e con i principi UNESCO di etica e inclusione.
  • Ribadiscono il ruolo umano nel processo educativo e la necessità di formazione continua per i docenti.
  • Introdurranno (attraverso la Piattaforma Unica) un sistema di monitoraggio e condivisione delle sperimentazioni, utile a creare una memoria collettiva delle buone pratiche.

Criticità strategiche

  • La sezione sulla “personalizzazione” rischia di risultare molto astratta: manca una definizione operativa su come valutare l’impatto reale degli strumenti adattivi.
  • La dimensione territoriale delle disuguaglianze digitali è appena accennata: le scuole in aree marginali rischiano di non poter attuare i principi etici, per diversità di condizioni o per mancanza di mezzi, infrastrutture, possibilità di implementazione.
  • La governance dei dati è ancora troppo centrata su una prospettiva di compliance (GDPR, DPIA), anziché sul significato educativo della raccolta e dell’uso dei dati.
  • L’attuazione dipenderà dalle risorse e dal coordinamento tra Ministero, Regioni e scuole: senza investimenti nella formazione dei docenti, le linee rischiano di restare un documento virtuoso ma astratto.

Le Linee guida, in un certo senso, segnano un punto di partenza. Il loro valore potrà essere misurato solo se sapranno attivare – attraverso strumenti e politiche coerenti – sperimentazioni di lungo periodo, monitorate, valutate e aperte al confronto. Serve creare le condizioni per passare dalla fase prescrittiva a quella realmente generativa: costruire una cultura dell’AI a scuola che nasca dalle pratiche, non solo dai regolamenti. Le esperienze europee mostrano come una trasformazione così radicale, anche in tempi brevi, sia possibile, se indirizzata opportunamente. In Estonia e in Danimarca, ad esempio, le politiche di AI Education si sono evolute in maniera rapida e capillare grazie al coinvolgimento sistematico degli insegnanti nei processi di feedback. Forse, la sfida organizzativa e culturale più profonda sarà proprio quella di riuscire a fare delle scuole non soltanto gli enti destinatari delle linee guida, ma i loro laboratori di evoluzione.

I docenti come mediatori cognitivi nella trasformazione digitale

Se consideriamo la scuola come un organismo complesso, i docenti certamente ne sono il sistema nervoso. Sono loro che traducono le policy in pratiche quotidiane, e le pratiche in nuove sperimentazioni, in nuovi rilevamenti, in nuovi saperi da riportare alle policy. Nella trasformazione digitale, il loro ruolo non può pertanto essere solo quello di attuatori delle direttive ministeriali, ma deve essere elevato a quello di mediatori cognitivi, necessari e insostituibili, tra la direzione centralizzata delle politiche educative e l’impatto capillare che queste generano. In questa dinamica, soprattutto in un contesto di sovraccarico operativo e amministrativo, l’AI, se introdotta in modo intelligente, può diventare un alleato fondamentale. Potrà infatti liberare tempo per le incombenze burocratiche, supportare la valutazione formativa, offrire strumenti per la progettazione personalizzata. Tuttavia nulla potrà – né dovrà – sostituire il docente come un architetto della relazione educativa. Il valore dell’insegnante non risiede nella trasmissione dell’informazione (che oggi è potenzialmente reperibile ovunque), ma nella costruzione di senso, di fiducia, di interpretazione critica.

Le Linee guida lo riconoscono e lo definiscono chiaramente: il docente deve rimanere garante della “sorveglianza umana” e della supervisione dell’evoluzione cognitiva integrata. Proprio allo scopo di perseguire questo obiettivo in maniera realistica e sostenibile, occorre tuttavia interrogarsi sullo sviluppo di nuove competenze professionali, non più accessorie, ma imprescindibili:

  • alfabetizzazione (dati ed AI) e comprensione dei modelli generativi;
  • capacità di leggere e comprendere i dati educativi, per trasformarli in insight pedagogici (ad uso locale e macroterritoriale);
  • competenze etiche e nuove skill comunicative, per spiegare agli studenti come funziona l’AI che usano;
  • partecipazione a comunità di pratica e di conoscenza, in cui condividere esperienze, errori e strategie.

Oggi in Europa stanno nascendo le prime figure di AI-educators, capaci di agire da ponte tra l’innovazione tecnologica e la profilazione di una nuova prospettiva didattica. L’Italia, come altri contesti nazionali, è chiamata ad immaginare e creare la propria versione, immaginando non un profilo tecnico, ma un maestro aumentato, che integri la capacità d’uso degli strumenti digitali e una nuova sensibilità umanistica. In qualche modo, dovremo immaginare il docente del futuro non come colui che “usa l’AI“, ma come colui che collabora con l’AI, preservando la propria unicità cognitiva (e l’unicità cognitiva di ogni ambiente educativo), in un processo di apprendimento reciproco. Solo così l’innovazione potrà diventare, anziché semplice automazione, una nuova opportunità di relazione.

Domande critiche per una governance partecipata dell’AI educativa

Stiamo attraversando un passaggio epocale in cui la scuola, più di ogni altra istituzione, sta diventando – o dovrebbe essere chiamata a diventare – un vero e proprio laboratorio della relazione tra umanità e intelligenza artificiale. Non possiamo più limitarci semplicemente a chiederci cosa possa fare l’AI per noi, ma dovremmo sfidare gli schemi dell’abitudine e cominciare a chiederci che cosa la scuola possa insegnare all’AI, e in che modo possa educare le società a usarla in modo giusto, equo e consapevole. La trasformazione in corso solleva, evidentemente, questioni complesse di natura pedagogica, politica, epistemologica, che richiedono un approccio sistemico, dialogico, interdisciplinare. Proviamo a mettere a fuoco alcune domande chiave con cui gli ambienti educativi dovrebbero accettare di confrontarsi.

  • In che modo possiamo garantire che la personalizzazione non diventi profilazione? La promessa dell’apprendimento adattivo è certamente potente, ma si basa su algoritmi allenati su dati di classificazione e possibilità di predizione che, in molti casi, implicano una semplificazione. Un sistema capace di adattare i contenuti ai dati storici di comportamento, se non opportunamente programmato, rischia di consolidare le differenze iniziali, trasformando la capacità di leggere le diversità in predestinazione indotta. Serve dunque elaborare modelli che consentano di garantire una forma di una personalizzazione dialogica, in cui la tecnologia elabori dinamicamente i percorsi, garantendo però agli insegnanti la possibilità di adattamento, integrazione e perfezionamento, mantenendo aperta la possibilità – pedagogicamente rilevante – della sorpresa, dell’errore, della deviazione creativa.
  • Come possiamo evitare che l’AI accentui le disuguaglianze? Ogni forma di innovazione educativa rischia di amplificare le disparità e le ingiustizie già esistenti. Chi ha competenze e infrastrutture beneficerà di più, mentre chi non le ha rischierà di restare indietro. Le politiche pubbliche dovranno quindi pensare all’articolazione di strumenti e misure di perseguimento della giustizia algoritmica come una parte imprescindibile della giustizia sociale: si dovrà garantire l’accesso, ma anche l’educazione alla capacità critica, un costante supporto formativo e una possibilità di governance dei dati che non trasformi la scuola in un luogo – più o meno cosciente – di sorveglianza digitale.
  • Qual è il confine tra possibilità di supporto e condizioni di dipendenza tecnologica? L’AI promette di alleggerire il carico operativo degli insegnanti e di restituire efficienza e profondità allo studio e all’attività didattica. Tuttavia, se ogni decisione, suggerimento o valutazione passa attraverso un sistema algoritmico, si rischierà la perdita dell’autonomia intellettuale. Educare nell’era dell’AI significa, prima di ogni altra cosa, educare al senso della giusta distanza. Non significa, naturalmente, rifiutare la tecnologia, ma non cedere alla tentazione di delegarle l’intenzionalità pedagogica.
  • Come si ridefinisce la valutazione nell’era dei dati? Quando la performance di uno studente viene interpretata da un sistema che calcola con esattezza tempi, tentativi, errori e frequenza, cosa stiamo misurando davvero? Quali indicatori ci consentono davvero di comprendere l’evoluzione cognitiva di una persona. Serve ripensare la valutazione non solo come uno strumento di controllo o di monitoraggio, ma come una pratica riflessiva condivisa. La data literacy non riguarda soltanto l’uso dei dati, ma l’acquisizione della capacità di attribuire loro significato. Un insegnante formato all’uso critico dell’AI sarà capace di trasformare ogni metrica in una possibile narrazione educativa, anziché semplicemente in un punteggio.
  • Come possiamo davvero rendere l’AI una leva di intelligenza collettiva? L’AI può rappresentare un amplificatore della conoscenza condivisa, se utilizzata, anziché semplicemente come motore di efficientamento, come un’opportunità per costruire reti, laboratori e comunità di pratica. Ciò richiede, inevitabilmente, un salto culturale, che ci induca a pensare la scuola non come un terminale dell’innovazione, ma come un motore dell’apprendimento sociale. Ogni esperienza d’uso dell’AI dovrebbe pertanto diventare uno spazio di conoscenza comune, un patrimonio di pratiche aperte e documentate, accessibili ad altre scuole.

Principi per un nuovo equilibrio educativo nell’era algoritmica

Proprio a partire da questa riflessione, che non ha altro obiettivo se non quello di problematizzare – e di contestualizzare con maggiore lucidità critica – l’adoption dell’AI in ambito educativo come uno strumento di personalizzazione dell’esperienza pedagogica, proviamo a identificare alcuni principi di supporto alla riflessione. Vorremmo immaginare di poter sollecitare, uno step alla volta, una prospettiva di contaminazione strategica che permetta di attivare le strategie, le Linee guida, le singole esperienze e le prospettive culturalmente situate di adoption condivisa dell’AI nel settore.

  1. Dall’adozione alla co-progettazione. Non si tratta semplicemente di “portare l’AI nella scuola”, ma di far rinascere la scuola all’interno del mondo nell’era dell’AI, ridefinendo radicalmente i processi educativi in modo partecipato e contestuale.
  2. Dall’innovazione episodica (e passiva) alla cultura della sperimentazione. Le tecnologie cambiano rapidamente, ma la loro sostenibilità educativa dipenderà dalla capacità di apprendere collettivamente dagli esperimenti e di concepire la trasformazione dell’educazione come un cambiamento ecosistemico.
  3. Dalla competenza digitale alla consapevolezza algoritmica. Non basta imparare a usare strumenti, ma bisogna interrogarsi e imparare a comprenderne le logiche, a mapparne gli interessi e le implicazioni etiche. L’AI literacy deve diventare – per tutti – una competenza civica di base.
  4. Dalla scuola come luogo di trasmissione alla scuola come ecosistema cognitivo. Ogni attore (docenti, studenti, istituzioni) deve partecipare alla composizione di una rete di intelligenza distribuita. L’apprendimento diventa processo di relazione, non un semplice accumulo di contenuti.
  5. Dalla regolazione alla governance partecipata. Le norme sono necessarie, ma non sufficienti per rispondere adeguatamente alle sfide cognitive, sociali, culturali che l’AI sta rapidamente inducendo. Servono pratiche di accountability aperta, tavoli di confronto, feedback costanti dalle scuole al Ministero e viceversa.
  6. Dalla paura dell’AI alla pedagogia della complessità. L’AI deve diventare oggetto di apprendimento, non soggetto temuto. La scuola può insegnare alle nuove generazioni a convivere con l’incertezza, interpretare i sistemi complessi, scegliere con consapevolezza.

Per riassumere l’intenzione di questa checklist: è necessario uscire da una logica di natura meramente tecnologica, a favore di una più ampia comprensione della profondità delle trasformazioni che l’accelerazione dell’innovazione digitale sta imprimendo in tutti gli scenari sociali e cognitivi; è necessario rivendicare – e abilitare – la capacità proattiva e realmente generativa dei contesti educativi, comprendendo come, oggi più che mai, sia necessario superare un approccio didattico meramente nozionistico, a favore di un rinnovato ruolo di abilitazione epistemologica più profonda e pervasiva; è necessario valorizzare la dimensione ecosistemica e superare la frammentazione delle esperienze, per poter attivare la rilevanza politica e la pervasività sociale della capacità di trasformazione indotta dal lavoro delle scuole.

Verso una pedagogia dell’interazione tra umanesimo e tecnologia

Oggi più che mai è fondamentale imparare a considerare l’intelligenza artificiale non come un destino tecnologico, ma come un contesto culturale, di cui il contesto educativo è chiamato ad essere parte (ri-)fondante. Nessuna innovazione potrà funzionare realmente, se la scuola non ritroverà la propria vocazione originaria: essere un luogo in cui si impara a pensare il futuro, ad immaginarlo e dargli forma, anziché limitarsi ad esserne interprete e attore. Le macchine possono – e potranno sempre più – personalizzare l’insegnamento, ma solo le persone saranno in grado di individuare, comprendere ed assegnare nuovo senso all’apprendimento. L’AI potrà moltiplicare le informazioni, ma solo la scuola può trasformarle in conoscenza condivisa, in capacità di discernimento, in azione di responsabilità. La grande sfida non riguarda più soltanto la necessità – oramai ampiamente retorica – di scegliere tra umanesimo e tecnologia, ma la capacità di interrogarsi su come immaginare, ripensare e costruire una nuova pedagogia dell’interazione.

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