L’Il divieto social ai minori di 14 anni è tornato al centro del dibattito: la proposta di escludere dai social questa fascia d’età interroga principi costituzionali, diritto europeo e praticabilità tecnica, imponendo un bilanciamento tra tutela dei minori, libertà digitali e responsabilità educative.
Indice degli argomenti
Il contesto della proposta politica
I bambini e gli adolescenti di oggi crescono in un contesto in cui la partecipazione alla vita collettiva passa, inevitabilmente, attraverso piattaforme digitali che, se da un lato offrono strumenti straordinari di espressione e conoscenza, dall’altro veicolano rischi di manipolazione, dipendenza e sfruttamento dei dati personali.
È in tale cornice che si colloca la recente proposta politica — avanzata da esponenti della Lega — di vietare ai minori di quattordici anni l’uso dei social network più diffusi, tra cui Facebook, TikTok, Instagram e WhatsApp. La misura, presentata come una “stretta” a tutela dei minori, si inserisce in un più ampio tentativo di disciplinare la dimensione digitale dei soggetti in età evolutiva, mirando a limitare l’esposizione a contenuti ritenuti dannosi e a ridurre i fenomeni di dipendenza tecnologica.
Pur partendo da esigenze condivisibili, l’ipotesi di un divieto generalizzato solleva questioni complesse, che investono principi di rango costituzionale, profili di diritto europeo e difficoltà tecnico-applicative di non poco momento. L’interrogativo che qui interessa è se, e in che misura, un intervento di questo tipo possa conciliarsi con il quadro giuridico esistente e con i valori di libertà, proporzionalità e responsabilità che fondano l’ordinamento democratico.
Il quadro normativo vigente e la logica dell’intervento
Già oggi l’ordinamento italiano prevede una soglia di età per l’accesso ai servizi digitali. L’articolo 2-quinquies del Codice in materia di protezione dei dati personali, in attuazione del Regolamento (UE) 2016/679 (GDPR), stabilisce che i minori di quattordici anni non possono validamente prestare il consenso al trattamento dei dati personali necessario per utilizzare servizi online. In tali casi, il consenso deve essere espresso o autorizzato da chi esercita la responsabilità genitoriale.
Questa disposizione, tuttavia, ha rivelato limiti significativi. L’autodichiarazione dell’età da parte dell’utente al momento della registrazione non costituisce una garanzia reale, e l’assenza di un meccanismo di verifica effettivo rende la norma sostanzialmente inapplicata. I dati raccolti dalle principali piattaforme mostrano come un numero crescente di utenti con meno di tredici anni sia attivo quotidianamente sui social, spesso con il tacito assenso delle famiglie.
Il divieto proposto si propone, dunque, di colmare tale scarto tra la norma e la realtà, trasformando una prescrizione di consenso assistito in una interdizione legale assoluta. L’obiettivo dichiarato è quello di ribadire, anche sul piano simbolico, che i social network non rappresentano spazi neutrali o “naturali” di crescita, ma ambienti di comunicazione destinati a soggetti maturi e consapevoli.
Le finalità protettive e la ratio del divieto
Le ragioni poste a fondamento della proposta sono essenzialmente tre.
Tutela della salute psichica dei minori
In primo luogo, la tutela della salute psichica dei minori. Numerose ricerche scientifiche hanno evidenziato la correlazione tra uso intensivo dei social e disturbi dell’umore, depressione, ansia da prestazione e insoddisfazione corporea. La struttura stessa delle piattaforme — fondata sulla logica del “like” e dell’approvazione sociale — alimenta dinamiche di dipendenza comportamentale e di continua esposizione al giudizio altrui, con effetti potenzialmente nocivi sullo sviluppo dell’identità.
Protezione dai rischi esterni
In secondo luogo, la protezione dai rischi esterni: contatti inappropriati, adescamenti, diffusione di contenuti violenti o sessualmente espliciti, cyberbullismo. I minori, per la loro naturale vulnerabilità, diventano bersagli privilegiati di pratiche predatorie o manipolative. Da qui l’esigenza di introdurre un limite legale che agisca come barriera preventiva, sottraendo i più giovani a tali pericoli.
Finalità pedagogica
In terzo luogo, la finalità pedagogica. Il legislatore mira a riaffermare, anche simbolicamente, che la libertà digitale deve essere esercitata in modo progressivo e responsabile. Fissare una soglia d’età significa, in questa prospettiva, stabilire un punto di equilibrio tra l’autonomia del minore e la necessità di un accompagnamento educativo da parte degli adulti.
Tali finalità sono senza dubbio meritevoli di tutela, ma la loro realizzazione deve misurarsi con i limiti costituzionali e sovranazionali che regolano l’esercizio della libertà e dell’educazione.
I profili costituzionali e i principi di proporzionalità
Nel sistema costituzionale italiano, la libertà personale e la libertà di manifestazione del pensiero rappresentano valori primari e inviolabili. L’articolo 21 della Costituzione non distingue tra adulti e minori: garantisce a tutti il diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero “con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Oggi i social network costituiscono uno di quei mezzi, e pertanto l’accesso ad essi non può essere arbitrariamente negato.
Il principio di proporzionalità impone che ogni limitazione della libertà sia idonea, necessaria e adeguata al fine perseguito. Un divieto assoluto, applicato indistintamente a tutti i minori sotto una certa età, potrebbe risultare eccessivo rispetto alla finalità di tutela, specie in assenza di un sistema educativo e informativo che accompagni la norma.
A ciò si aggiunge la considerazione della capacità progressiva del minore, riconosciuta sia dalla giurisprudenza costituzionale sia dalla Convenzione ONU sui diritti del fanciullo. L’ordinamento italiano ammette che il minore ultraquattordicenne possa esprimere scelte autonome in ambiti di grande rilievo, come il consenso informato in materia sanitaria o l’adesione a confessioni religiose. Non appare, quindi, coerente privarlo in modo assoluto della possibilità di interagire nel mondo digitale, che rappresenta oggi un’estensione della sfera pubblica.
Infine, l’interdizione generalizzata rischierebbe di comprimere il diritto dei genitori di educare i figli secondo le proprie convinzioni, trasformando la funzione di indirizzo familiare in un campo rigidamente normato. Il bilanciamento tra libertà educativa, responsabilità genitoriale e intervento statale dovrebbe, al contrario, mantenere una flessibilità che consenta di adattare la regola alle diverse situazioni personali e sociali.
Le difficoltà tecniche e la questione dell’enforcement
Anche sotto il profilo operativo, l’introduzione di un divieto assoluto pone questioni di grande complessità. La verifica dell’età degli utenti è il nodo centrale. Attualmente, la registrazione ai social si fonda su un’autodichiarazione, facilmente eludibile. Per rendere effettivo il divieto, sarebbe necessario implementare sistemi di age verification tecnologicamente affidabili, basati su documenti digitali o meccanismi biometrici.
Tuttavia, tali soluzioni si scontrano con i principi di minimizzazione e di limitazione del trattamento dei dati sanciti dal GDPR. La richiesta di documenti d’identità o l’uso di tecnologie di riconoscimento facciale comporterebbero rischi elevati di violazione della privacy e costi notevoli per i gestori delle piattaforme. Non è un caso che anche il decreto-legge “Caivano” del 2023, che impone la verifica dell’età per l’accesso a siti pornografici, sia tuttora in attesa di un’applicazione concreta proprio per l’assenza di strumenti tecnici adeguati.
Oltre al profilo tecnologico, esiste una questione di giurisdizione e territorialità. Le piattaforme operano su scala globale e molte di esse hanno sede al di fuori dell’Unione europea. L’efficacia di un divieto nazionale dipenderebbe dalla cooperazione internazionale e dai meccanismi di enforcement transfrontaliero previsti dal diritto europeo. In assenza di una cornice comune, il rischio è che la norma italiana si trasformi in un provvedimento simbolico, privo di reale incidenza.
Infine, si deve considerare la reazione comportamentale degli utenti. Divieti troppo rigidi possono generare comportamenti elusivi: i minori potrebbero accedere ai social con identità fittizie o conti di adulti, vanificando gli scopi di tutela e, anzi, esponendosi a rischi maggiori in spazi digitali non regolamentati.
Le esperienze comparatistiche: verso quale modello?
Il panorama internazionale offre un osservatorio prezioso per comprendere le potenzialità e i limiti di un simile intervento.
In Francia, la legge n. 2023-566 del 7 luglio 2023 ha fissato a quindici anni la soglia minima per l’uso dei social network senza consenso genitoriale, imponendo ai provider l’obbligo di verificare l’età degli utenti attraverso sistemi certificati da un’autorità indipendente. La legge prevede sanzioni pecuniarie significative per le piattaforme inadempienti, ma non stabilisce un divieto assoluto: consente l’accesso previo consenso dei genitori, favorendo così la responsabilità condivisa tra famiglia e Stato.
In Germania, la Jugendmedienschutz-Staatsvertrag (JMStV) adotta un approccio fondato sulla classificazione dei contenuti e sulla responsabilità dei fornitori di servizi media, con forti poteri di intervento in capo alle autorità dei Länder. L’attenzione si concentra sulla tutela dei minori rispetto ai contenuti, non sull’esclusione anagrafica.
Il Regno Unito, con l'”Age-Appropriate Design Code” del 2021, ha optato per un modello di design by protection: non un divieto d’accesso, ma l’obbligo per le piattaforme di configurare i propri servizi in modo intrinsecamente sicuro per i minori, limitando la profilazione e garantendo impostazioni di privacy elevate per impostazione predefinita.
Negli Stati Uniti, diversi Stati federali (Utah, Arkansas, Texas) hanno introdotto leggi che subordinano l’iscrizione dei minori ai social all’autorizzazione dei genitori e limitano le ore di utilizzo giornaliero. Tali leggi, tuttavia, sono state contestate in sede giudiziaria per presunta violazione del Primo Emendamento, che tutela la libertà di parola anche dei minori.
A livello sovranazionale, il Digital Services Act (Regolamento UE 2022/2065) adotta un paradigma di responsabilizzazione delle piattaforme, imponendo obblighi di trasparenza, valutazione dei rischi e misure di protezione dei minori, ma senza introdurre divieti generalizzati. È un modello, questo, che affida la tutela non al divieto, ma alla prevenzione, alla trasparenza e al controllo algoritmico.
Dall’analisi comparata emerge dunque una tendenza comune: evitare il proibizionismo assoluto e privilegiare strumenti flessibili di tutela integrata, fondati sulla cooperazione tra famiglie, istituzioni e operatori del mercato digitale.
Educazione digitale e responsabilità condivisa
Al di là degli strumenti giuridici e tecnologici, la protezione dei minori nella dimensione digitale resta, in ultima analisi, una questione eminentemente educativa. Il diritto può fissare confini, ma non può sostituirsi alla formazione culturale e familiare. Vietare senza educare significa rinunciare a incidere realmente sui comportamenti.
È necessario promuovere una cultura della cittadinanza digitale che consenta ai giovani di sviluppare competenze critiche, di riconoscere i rischi e di usare consapevolmente gli strumenti di comunicazione. Scuole e famiglie devono essere poste nelle condizioni di collaborare, con il sostegno delle istituzioni pubbliche e delle piattaforme digitali stesse, nella costruzione di percorsi formativi adeguati.
In questa prospettiva, la tutela dei minori non può essere intesa come esclusione, ma come accompagnamento: una responsabilità condivisa, non delegabile, che unisce l’educazione, la tecnologia e il diritto in una strategia integrata.
Conclusione
L’ipotesi di vietare l’accesso ai social network ai minori di quattordici anni risponde a un’esigenza reale: la necessità di proteggere una generazione esposta precocemente a rischi digitali che non sempre è in grado di comprendere. Tuttavia, il diritto, nel perseguire tale finalità, deve evitare scorciatoie simboliche e conservare la propria coerenza sistematica.
Un divieto generalizzato, privo di meccanismi di verifica sostenibili e in contrasto con i principi di proporzionalità e libertà, rischia di produrre effetti contrari a quelli desiderati. L’esperienza comparata e il diritto europeo mostrano che la tutela efficace dei minori passa non per l’interdizione, ma per la responsabilizzazione: delle piattaforme, delle famiglie, della scuola e dello Stato.
Il compito del legislatore non è chiudere ai minori le porte del mondo digitale, ma aprirle con gradualità e sicurezza, fornendo strumenti, non barriere. La vera protezione è quella che educa, accompagna e responsabilizza. In questa direzione, il diritto potrà continuare a essere, anche nell’era dei social network, non un limite alla libertà, ma la sua forma più alta di garanzia.










