Tre importanti marchi di moda sono stati pubblicamente rimproverati dall’Advertising Standards Authority (ASA) del Regno Unito per aver fatto affermazioni ambientali infondate relative ai loro prodotti. L’ASA ha vietato le pubblicità a pagamento su Google di Nike, Lacoste e Superdry dopo aver stabilito che i marchi non hanno fornito le prove richieste a sostegno delle affermazioni di sostenibilità contenute nelle loro promozioni.
Queste sentenze fanno parte di un’ampia attenzione normativa sul greenwashing all’interno dell’industria della moda che, secondo le Nazioni Unite, contribuisce tra l’8% e il 10% delle emissioni globali. In questo articolo proviamo ad analizzare più a fondo la situazione, osservando come l’intelligenza artificiale possa diventare un alleato della vigilanza.
Com’è noto, negli ultimi anni la sostenibilità è diventata una leva centrale nelle scelte di consumo. Sempre più persone cercano prodotti “green”, aziende “responsabili”, filiere “trasparenti”. Questo cambiamento culturale ha spinto molte imprese a ridefinire il proprio posizionamento comunicativo.
Tuttavia, accanto a pratiche autenticamente virtuose, si è diffuso anche un fenomeno sempre più insidioso: il greenwashing, ossia la strategia di presentare come sostenibili prodotti, servizi o intere attività che, in realtà, non lo sono.
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Intelligenza artificiale greenwashing: il nuovo fronte della vigilanza
Non si tratta solo di un problema etico, ma anche di una distorsione del mercato e di una minaccia alla fiducia dei consumatori. Proprio per questo, l’Unione europea ha deciso di intervenire in modo strutturale sulle dichiarazioni ambientali. E in questo scenario regolatorio in rapida evoluzione fa la sua comparsa un attore nuovo e potenzialmente decisivo: l’intelligenza artificiale, intesa non come giudice automatico, ma come possibile guardiano digitale delle comunicazioni ambientali.
L’IA, infatti, può integrarsi con il quadro normativo esistente e con i poteri delle autorità di vigilanza, offrendo uno strumento di controllo che non sostituisce ma rafforza la capacità di individuare claim ambientali ingannevoli in tempi rapidi e su larga scala.
Un quadro normativo più severo contro il greenwashing
Un quadro normativo sempre più stringente vede l’Europa impegnata a limitare le asserzioni ambientali generiche e prive di basi scientifiche. Il primo pilastro della nuova strategia europea è rappresentato dalla Direttiva (UE) 2024/825, che rafforza la disciplina sulle pratiche commerciali sleali e introduce per la prima volta limiti precisi alle asserzioni ambientali generiche. Espressioni come “eco”, “green”, “a basso impatto ambientale” o “climate positive” non sono più ammissibili se non supportate da dati verificabili, confrontabili e scientificamente fondati.
Direttiva Ue 2024/825 sulle asserzioni ambientali
La Direttiva (UE) 2024/825 interviene direttamente sulle pratiche commerciali sleali, imponendo alle imprese di usare claim ambientali solo quando sostenuti da evidenze solide. In questo modo si colpiscono le formulazioni vaghe e “ammiccanti”, che spesso popolano le campagne “green” senza un reale fondamento scientifico.
Il risultato atteso è una maggiore chiarezza per i consumatori, che potranno fidarsi di più delle diciture presenti su prodotti e comunicazioni, riducendo la confusione generata da slogan generici e fuorvianti.
La proposta di Direttiva sulle Green Claims
A questo intervento si affianca la proposta di Direttiva sulle Green Claims, che mira a rendere obbligatoria la dimostrazione scientifica di ogni dichiarazione ambientale attraverso:
- analisi del ciclo di vita (Life Cycle Assessment – LCA)
- dati misurabili e tracciabili
- verifiche da parte di organismi indipendenti
Secondo la Commissione europea, oltre il 50% delle “green claims” oggi in circolazione è vago o ingannevole, e circa il 40% non dispone di alcuna prova a supporto. Questo rende evidente che il greenwashing non sia un fenomeno residuale, ma un problema strutturale del mercato contemporaneo.
Perché i controlli manuali non bastano più
In un contesto analogo, la vigilanza tradizionale, basata esclusivamente su controlli manuali e segnalazioni ex post, risulta sempre più insufficiente. I volumi di comunicazione sono enormi, la velocità dei canali digitali continua ad aumentare e le tecniche di marketing si fanno sempre più sofisticate.
Di fronte a milioni di messaggi, annunci e contenuti generati ogni giorno, è evidente che i controlli umani da soli non possano garantire una sorveglianza capillare su tutte le dichiarazioni ambientali, aprendo uno spazio importante per strumenti di analisi automatica.
Come l’intelligenza artificiale smaschera il greenwashing
Le potenzialità dell’intelligenza artificiale nel contrasto del greenwashing non sono affatto teoriche. Grazie alla sua capacità di elaborazione, un sistema di IA è oggi in grado di analizzare in tempo reale volumi enormi di contenuti: milioni di annunci pubblicitari, post sui social network, etichette digitali, schede prodotto e materiali promozionali.
Si tratta di una capacità di osservazione che supera di gran lunga le possibilità operative delle strutture di controllo tradizionali, rendendo possibile un monitoraggio continuo, diffuso e sistematico delle comunicazioni commerciali su base quotidiana.
Analisi automatica del linguaggio e claim vaghi
Uno degli ambiti in cui l’IA si dimostra particolarmente efficace è l’individuazione delle ambiguità linguistiche, che costituiscono il cuore del greenwashing. Le comunicazioni ingannevoli, infatti, raramente si fondano su affermazioni esplicitamente false; più spesso si articolano attraverso un linguaggio vago, suggestivo e non misurabile.
Promesse non quantificate, assenza di riferimenti a standard riconosciuti, formulazioni generiche prive di riscontri oggettivi: sono proprio queste strutture retoriche che l’IA può essere addestrata a riconoscere e classificare con crescente accuratezza, segnalando alle autorità i contenuti che richiedono un approfondimento.
Tracciabilità delle filiere e dati reali
Un ulteriore campo di applicazione riguarda la tracciabilità delle filiere e il supporto all’economia circolare. Nei settori a “catena lunga” come moda, elettronica e alimentare, l’IA può confrontare in modo sistematico le dichiarazioni ambientali diffuse dalle aziende con i dati effettivi provenienti dai processi produttivi.
Questo diventerà ancora più rilevante con l’entrata in vigore dei Digital Product Passport, obbligatori in Europa a partire dal 2027, che renderanno disponibili informazioni strutturate e verificabili lungo l’intero ciclo di vita dei prodotti, facilitando controlli più precisi sui claim green.
Dalla vigilanza reattiva al controllo proattivo
Infine, l’IA consente un vero e proprio cambio di paradigma nella vigilanza, che da puramente reattiva diventa proattiva. L’esperienza del Regno Unito è emblematica: l’Advertising Standards Authority ha già sperimentato sistemi di monitoraggio automatico degli annunci pubblicitari, capaci di individuare in anticipo potenziali violazioni e di avviare indagini che hanno portato a sanzioni nei confronti di grandi marchi internazionali.
In questo modo l’IA agisce come una sorta di radar continuo, che filtra enormi moli di contenuti e permette alle autorità di concentrare le proprie risorse sui casi realmente sospetti, aumentando l’efficienza dei controlli.
Rischi e limiti dell’intelligenza artificiale nel contrasto al greenwashing
Accanto alle opportunità, l’impiego dell’intelligenza artificiale in questo ambito comporta anche rischi significativi, che non possono essere sottovalutati. Il principale è quello delle cosiddette “allucinazioni algoritmiche”, ovvero errori di interpretazione, inferenze scorrette o l’uso di dati incompleti, che possono portare a segnalazioni infondate.
In un ambito come quello del greenwashing, in cui l’onere della prova è centrale, il rischio è particolarmente delicato. Non basta sospettare che un’affermazione sia ingannevole: occorrono elementi tecnici, scientifici e documentali solidi. Un sistema di IA, per quanto evoluto, non può sostituirsi a questo processo probatorio.
Complessità del contesto e falsi positivi
Un ulteriore limite riguarda la complessità del contesto. Molte dichiarazioni ambientali si riferiscono solo a una parte del prodotto, a una specifica fase del ciclo di vita o a una determinata tecnologia.
Senza una corretta contestualizzazione, l’IA rischia sia di generare falsi positivi, sia di lasciare passare pratiche effettivamente scorrette. La lettura dei dati deve essere integrata con competenze tecniche e giuridiche, capaci di interpretare correttamente il perimetro di ogni singola dichiarazione ambientale.
Impatto reputazionale e responsabilità
A ciò si aggiunge il rischio reputazionale. Le recenti sanzioni inflitte a grandi operatori della fast fashion per comunicazioni ambientali ingannevoli dimostrano quanto possano essere devastanti l’impatto economico e di immagine. Proprio per questo, ogni sistema di controllo deve essere accurato, proporzionato e giuridicamente solido.
Le imprese, infatti, devono poter contare su procedure trasparenti, che permettano di distinguere tra errori marginali e vere pratiche di greenwashing sistematico, evitando che l’uso improprio di strumenti algoritmici generi ingiustizie o danni immotivati.
Verso un modello ibrido: intelligenza artificiale e controllo umano contro il greenwashing
Per evitare che l’IA diventi uno strumento opaco o potenzialmente ingiusto, la soluzione più equilibrata è rappresentata da un modello ibrido, basato sull’integrazione tra tecnologia, verifica umana e garanzie giuridiche.
Il primo pilastro è costituito dalla standardizzazione e trasparenza dei dati. Le imprese devono essere messe nelle condizioni, e nell’obbligo, di fornire informazioni ambientali in formati armonizzati, strutturati e verificabili, come le analisi LCA e i sistemi di tracciabilità digitale. Senza dati solidi, nessuna intelligenza artificiale potrà essere davvero affidabile.
L’IA come sistema di allerta precoce
Il secondo pilastro è il ruolo dell’IA come sistema di allerta precoce. L’algoritmo non decide, ma segnala, evidenzia e contraddistingue anomalie, contraddizioni o affermazioni sospette. In questo modo filtra l’informazione e rende il controllo umano più efficiente e mirato, concentrando gli sforzi sui casi che richiedono una reale valutazione approfondita.
Il terzo pilastro è la verifica umana come garanzia finale. Una volta ricevuta la segnalazione, interviene l’autorità competente. L’azienda deve poter esercitare il proprio diritto di difesa, presentando documentazione tecnica, certificazioni, analisi scientifiche. Solo dopo una valutazione professionale e giuridica si può procedere, eventualmente, all’irrogazione della sanzione.
Questo modello tutela contemporaneamente:
- i consumatori, da pratiche ingannevoli
- le imprese corrette, da errori algoritmici
- le autorità, da decisioni automatiche giuridicamente fragili
Conclusioni: l’IA come sentinella, non come giudice
L’intelligenza artificiale, nella lotta al greenwashing, non deve essere vista come un giudice onnisciente, ma come una sentinella digitale instancabile e ultraveloce, capace di osservare ciò che sfugge all’essere umano per quantità, rapidità e complessità.
La decisione finale deve restare saldamente nelle mani di una giuria umana, fondata su dati scientifici, su norme chiare e su principi di proporzionalità. Solo così la tecnologia potrà rafforzare la fiducia nel mercato della sostenibilità, anziché indebolirla.
In gioco non c’è solo la correttezza della comunicazione ambientale, ma anche la credibilità stessa della transizione ecologica, che richiede strumenti innovativi ma sempre governati da responsabilità e trasparenza.












