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Investimenti ESG troppo poco green: come creare un mercato davvero sostenibile

I fondi ESG catalizzano l’attenzione di tutti gli investitori ma nonostante la crescita impetuosa degli investimenti venture capital, la E di Environmental si vede poco. Per rendere il cambiamento economicamente sostenibile bisogna prima renderlo inevitabile, creando le condizioni per un mercato vero della tecnologia

Pubblicato il 08 Lug 2022

Francesco Vito Tassone

consulente in progetti hi-tech

transizione energetica

Gli investimenti ESG – acronimo che acronimo sta per Environmental, Social and Governance – sono considerati il futuro, il faro guida che dovrebbe spingere gli investitori mondiali, eppure l’innovazione dedicata a risolvere il 70% delle emissioni globali attira pochissimi investimenti. Pare inoltre che tantissime siano le truffe “verdi”, tanto da spingere molte Authority – Usa e tedesca in primis – a intervenire.

La questione è complessa, ma la tecnologia può essere un’ancora di salvezza se usata nel modo giusto, se si cambiano meccanismi che finora non hanno prodotto alcun risultato.

Finanza sostenibile, tutti gli inganni dell’ESG: il problema greenwashing

Investimenti in venture capital e riduzione delle emissioni

Secondo lo studio “PWC state of climate tech” il totale degli investimenti Venture Capital sul climate tech sono stati circa il 14%. Entrando nel dettaglio di questo 14%, troviamo che l’80% circa degli investimenti hanno riguardato i trasporti (guidati dalla mobilità elettrica) che rappresenta circa il 30% delle emissioni globali. Questo vuol dire che per le industrie responsabili del 70% delle emissioni globali sono rimasti solamente il 4% degli investimenti VC.

Insomma, in un momento storico nel quale i fondi ESG catalizzano l’attenzione di tutti gli investitori la prima cosa che salta all’occhio è che, nonostante la crescita impetuosa degli investimenti VC, la E di ESG si vede poco. Solo che questo sta marginalizzando la sfida del millennio, ovvero l’abbattimento significativo delle emissioni di CO2.

Com’è possibile? Partiamo da un dato di fatto. Gran parte di questi capitali bollinati ESG vengono allocati attraverso metriche fumose, spesso si limitano a raccontare di protocolli, intese, pratiche interne spesso non misurabili o misurabili con metodi “originali”, ma che non affrontano neanche una minuscola frazione del problema.

Ad esempio, a differenza di quanto accade per i sistemi di qualità, non esistono metriche o misure oggettive e chiare per quantificare l’impatto ex ante ed ex post. Rimane quasi tutto in ambito comunicazione, trasparenza degli atti, procedure codificate, uso efficiente delle risorse, procedure che peraltro gran parte delle aziende quotate deve avere. A differenza degli standard di emissioni usati per il settore automotive e simili, non ci sono target da raggiungere annualmente. Oltretutto il certificatore è pagato dal certificato, eliminando una terzietà tra le parti. Non avendo target, non esiste neanche un sistema sanzionatorio per il mancato raggiungimento degli obiettivi dichiarati, e soprattutto il controllo pubblico non è previsto.

Gli alert di stampa internazionale e agenzie di regolamentazione

Ormai non si contano più gli alert da parte della stampa internazionale e delle agenzie di regolamentazione, su questi aspetti.

Il New York Times, ad esempio, cita rapporto di InfluenceMap – un think tank sul cambiamento climatico con sede a Londra, che ha tra i fondatori alcuni fra i più importanti enti e fondazioni che si occupano di ambiente, come IKEA Foundation, EIT Climate-KIC, la European Climate Foundation, DRK Foundation – compilato dopo aver valutato 723 fondi azionari, pubblicizzati utilizzando parole chiave legate al clima e indicazioni ambientali, sociali e di governance (ESG). Si parla di oltre 330 miliardi di dollari di patrimonio netto totale.

Estrapoliamo i giudizi principali del rapporto:

  • “Molti non sono all’altezza delle loro promesse”;
  • “il numero di fondi di investimento verdi è alle stelle, ma molti stanno investendo in aziende che non sono allineate con gli obiettivi dell’accordo di Parigi”;
  • “Più della metà dei fondi a tema climatico, che si descrivono con frasi come “basse emissioni di carbonio”, “transizione energetica” e “energia pulita”, sono al di sotto della visione delineata nel trattato di Parigi”;
  • “Più del 70% dei fondi con obiettivi ESG più ampi sono anche disallineati con gli obiettivi climatici globali”.
  • “Il rapporto ha anche denunciato carenze nei fondi ESG di alcuni dei più grandi gestori patrimoniali del mondo, tra cui UBS Group AG e BlackRock, Inc,”;
  • “Fondi a tema climatico avevano partecipazioni nell’industria dei combustibili fossili, tra cui un fondo BlackRock “fossil fuel screened”, e un fondo State Street Corporation “fossil fuel reserves free”, che deteneva azioni di Marathon Petroleum e Phillips 66 – “due delle società di lobbying dei combustibili fossili più importanti al mondo”.

ESG: è solo marketing?

Di fatto siamo di fronte a una mega operazione di marketing e di cosiddetto “greenwashing”: mascherare attività tutt’altro che ispirate all’ESG con report e dichiarazioni che invece lo sarebbero. Solo che il patrimonio dei fondi ESG nel 2020 era salito a oltre 1,7 trilioni di dollari, secondo Morningstar.

Anche l’Economist a maggio 2021 ha segnalato come alcuni dei più grandi fondi ESG del mondo sono “pieni di inquinatori”. Le autorità statunitensi e tedesche hanno lanciato un’indagine il mese scorso su DWS Group, il braccio di gestione patrimoniale di Deutsche Bank AG, dopo che un ex dirigente ha affermato che l’azienda ha sovrastimato le credenziali ambientali di alcuni dei suoi prodotti.

L’ex CIO di BlackRock per gli investimenti sostenibili, Tariq Fancy, ha accusato il mondo finanziario di greenwashing in un articolo di marzo su USA Today. “In verità, l’investimento sostenibile si riduce a poco più di una montatura di marketing, PR spin [dichiarazioni ad effetto degli esperti di pubbliche relazioni, nda] e promesse insincere da parte della comunità di investimento”.

Gli interventi delle Autorità

Finalmente sia la SEC che le autority tedesche, è notizia di questi giorni, hanno iniziato una grande operazione contro le truffe verdi, e sembrano finalmente intenzionate ad imporre requisiti minimi e criteri di trasparenza per poter esibire l’etichetta Esg.

Le motivazioni per cui oggi l’allocazione di fondi – VC, Private Equity e più in generale Fondi Comuni di investimento – è bassa su tecnologie che siano veramente green sono oggettivamente complesse da decifrare. Si possono però sintetizzare con questa affermazione: dobbiamo avere una prospettiva di rendimento, e su molte tematiche ambientali nessuno sa come superare la valle delle morte.

La valle della morte in questo contesto si definisce come il periodo temporale che parte quando si dimostra tecnicamente che la tecnologia funziona e termina quando questa è economicamente sostenibile, se mai lo diventerà.

Nessuno sa realmente come sostenere le molte aziende high tech in questo percorso. Oltretutto molto spesso si tratta di investimenti che necessitano di tempi più lunghi, rispetto alla durata dei fondi chiusi di VC o di PE, per mostrare prospettive di rendimento: tecnologie come quelle per il confinamento chimico della CO2, per produrre cemento, acciaio e petrolchimico ad emissioni zero, per il trasporto marittimo ed aereo etc.

Oggi lo stato dell’arte sulle tecnologie più promettenti ha costi tre ordini di grandezza superiori a quanto economicamente sostenibile. Fintanto che non diventano economicamente sostenibili, le quote di mercato sono e saranno prossime allo zero e necessitano di una scala industriale incredibilmente elevata.

Facciamo l’esempio del cemento: è la seconda materia prima più usata dopo l’acqua. Gli impianti attuali sono efficienti, competitivi e lavorano su una scala talmente grande, che pur trattandosi di processi molto complessi ed energeticamente onerosi, la tonnellata prodotta ha un costo di poche decine di euro. Un impianto per la produzione di cemento raramente è economicamente sostenibile sotto il milione di tonnellate all’anno e con le tecnologie tradizionali il costo medio di impianti supera 200 milioni di euro.  L’idea che delle startup del settore possano arrivare sul mercato e attraversare dimensioni intermedie, pur sostenendo costi con ordini di grandezza superiori, è molto difficile da immaginare. Questo è il motivo per cui non raccolgono capitali.

Perché i cambiamenti climatici non si riescono a risolvere

Perché quindi non riusciamo ad affrontare e risolvere il problema nonostante conoscenza e coscienza del problema siano ragionevolmente diffuse e di risorse ne siano state mobilitate?

Il primo errore probabilmente è stato quello di pensare che le rinnovabili potessero dare un contributo più significativo di quanto realmente potrebbero dare.

Limitiamoci alla sola produzione di elettricità. L’energia fotovoltaica già oggi costa meno di gran parte delle fonti energetiche convenzionali (circa 5 centesimi al KW), il vento anche meno. Solo che sono discontinue e dipendono dal meteo. Quando quest’ultimo non offre condizioni valide per la produzione, non si sa come fare. Per avere sistemi di accumulo adeguati mancano 2 ordini di grandezza. Oltretutto limitiamo i nostri sforzi alla produzione di energia elettrica, lasciando interi settori industriali neanche toccati.

Un impianto fotovoltaico in Italia produce per circa 1400 ore l’anno, e ogni impianto di questo tipo produce allo stesso momento. Nucleare e carbone, per rendere un’idea della differenza, producono in maniera continuativa per più di 8500 ore all’anno.

Durante il crollo delle rinnovabili in UK quest’anno, causato da 51 giorni senza vento, l’energia da centrali termiche è stata pagata anche 5€ a kW/h, cioè 100 volte di più. Il prezzo reale dovrebbe essere mediato. Con le fonti non rinnovabili (idroelettrico escluso) posso permettermi cielo nuvoloso e una pompa di calore nello stesso momento, oppure una acciaieria in funzione. Insomma, è un po’ come dire che l’acqua quando piove costa poco. Ma a me per innaffiare i campi serve anche, e magari di più, quando non piove.

Il nodo dei costi sociali e come risolverlo

Il secondo grosso problema è che non risolveremo mai il problema a livello globale se non affrontiamo il tema dal punto di vista dei costi sociali tenendo conto del reddito.

L’1% più ricco della popolazione mondiale è responsabile del 17% delle emissioni totali di CO2. Al contrario, al 50% più povero è attribuibile appena il 12% dei gas ad effetto serra dispersi nell’atmosfera. A spiegarlo è uno studio del World Inequality Database, una delle più prestigiose organizzazioni di misura delle ineguaglianze nel mondo: finanziato ogni anno da istituzioni del calibro di European Research Council, Paris School of Economics, Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, Ecole Normale Supérieure, Ford Foundation, Berkeley University.

Andiamo a vedere quale è stata la sintesi giornalistica post COP26, l’ultimo summit sul cambiamento climatico: si scrive che “COP 26 fallisce perché gli indiani non vogliono rinunciare al carbone”, il che è un’ulteriore negazione del problema.

L’India è un paese in cui il reddito medio è di 1900 dollari all’anno e la cui unica fonte di approvvigionamento facilmente accessibile e scalabile per l’approvvigionamento interno è proprio il carbone. I Carbon Credit non funzioneranno mai perché la possibilità che arrivino in modo efficiente dove serve è quasi nulla. Dire a queste persone che da domani si possono permettere un frigorifero o la lampadina non è socialmente accettabile da nessun governo. Questo mentre con lo stesso meccanismo il 10% più ricco della popolazione potrà permettersi un ecologicissimo SUV elettrico.

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Cosa comporterebbe considerare la CO2 come una risorsa scarsa

Il problema lo si risolve soltanto considerando la CO2 come una risorsa scarsa, limitata, e che in quanto tale deve essere razionata. La sua crescita è inaccettabile, figuriamoci se analizzata in ottica economica infinita. Bisogna stravolgere il concetto stesso di mercato dell’emissione, creando un mercato appetibile della tecnologia.

Semplicemente dovremmo considerare che ognuno di noi ha diritto ad una quantità “X” di CO2. Se si vuole emettere un grammo in più si è direttamente responsabili del suo abbattimento.

I primi effetti sarebbero di rendere immediatamente aggredibile il 17% delle emissioni dell’1% più ricco.

Questo significherebbe uscire dal paradigma attuale del mercato delle emissioni, creando un mercato della tecnologia di abbattimento delle emissioni.

Potrebbe sembrare utopistico ed insostenibile, ma avrebbe l’immediato vantaggio che i risultati sarebbero rapidamente di gran lunga superiori a quelli ottenuti da 26 fallimentari conferenze sul clima.

Un secondo effetto che sarebbe legittimo attendersi è che siccome lo 0,1% più ricco probabilmente non sarebbe disposto a rinunciare a viaggiare con jet privati, possedere yacht da centinaia di metri o ville faraoniche, sarà almeno finalmente portato ad allocare una parte del proprio patrimonio per acquistare tecnologie economicamente insostenibili ma necessarie per poter mantenere lo stile di vita che desiderano. D’altronde spostare nel lusso un solo nucleo familiare non è certo una questione di sostenibilità economica.

In una ipotesi di questo tipo, chi volesse proseguire in quegli stili di vita dovrebbe finalmente abbattere o catturare la CO2 prodotta. Direttamente. E indipendentemente da dove si trovasse ad avere residenza fiscale e patrimonio.

Finalmente vedremmo nascere un mercato per le tecnologie emergenti e con una scala significativa. Il meccanismo di allocazione dei capitali da investitori istituzionali in tecnologie e startup innovative diventerebbe sensato e sostenibile, grazie alla creazione di un mercato di sbocco. Questo offrirebbe chance concrete a startup, scale up e aziende di “climate tech” di attraversare la valle della morte, grazie ad un mercato con prezzi elevati ma necessario per mantenere stili di vita altrimenti ingiustificabili.

Altrimenti ci dovremo tenere il meccanismo attuale, che fissa un prezzo profondamente iniquo per una tonnellata di CO2: sempre insostenibile per il povero, ridicolo per il ricco.

Pensare come nelle economie di guerra

D’altronde il meccanismo attuale assomiglia a voler curare la fame del mondo alzando il prezzo del pane per tutto il mondo per poi sperare di garantire equità introducendo meccanismi di compensazione a favore del povero.

Non funziona: dietro una parvenza di libero mercato si nasconde un’idea iperstatalista. Una macchina pubblica, in ottica oltretutto sovranazionale, dovrebbe gestire la compensazione, con tutti i limiti del multilateralismo su tematiche così complesse. Guardiamo l’efficienza della FAO, ed immaginiamo che debba gestire una tematica centinaia di volte più complessa che riguarda il 100% della popolazione globale. Perché il rischio più probabile è che il povero non possa accendere la luce mentre il ricco distorce il mercato vivendo nel lusso più sfrenato.

La situazione richiede che si cominci a pensare come nelle economie di guerra: se manca il pane si raziona. Non si alza il prezzo. 

Guardiamo ora allo stesso approccio e proviamo a pensarlo per l’industria. L’idea che tutte le emissioni siano uguali e quindi le industrie debbano affrontare il problema allo stesso modo è ridicolo.

L’impatto delle nuove tecnologie sulle emissioni

I primi 5 player di servizi cloud sono Microsoft, Amazon, IBM, Salesforce e Google, ed hanno generato vendite trimestrali da servizi cloud per 47,5 miliardi di dollari. Un solo server produce in un anno da 1 a 5 tonnellate di CO2 equivalente, e ogni gigabyte scambiato su internet emette da 28 a 63g di CO2 equivalente.  La somma dei loro servizi più i vari Facebook, Netflix, Apple, Samsung, Alibaba, equivale a circa il 2% della produzione mondiale di elettricità.

Stiamo parlando di società che hanno bilanci, utili (più di 200 miliardi l’anno) e risorse tecnico scientifiche che gli permetterebbero di azzerare le loro emissioni velocemente, senza grandi traumi per gli azionisti, eppure non lo fanno né lo faranno in tempi accettabili.  Non li possiamo mettere sullo stesso piano dell’industria del cemento e dell’acciaio dove la sfida è centinaia di volte più complessa. Se vogliamo comprare tempo per affrontare tutte le sfide dobbiamo prima azzerare le emissioni che in 5 anni possono essere azzerate.

Anche qui l’idea che si possa risolvere tutto con un mercato della CO2 è ridicola. Per un fornitore di servizi cloud il prezzo è ampiamente accettabile, mentre per uno di cemento o acciaio risulta industrialmente insostenibile. Inoltre, se il prezzo di quelle materie prime esplode, si traduce in una maxi tassa per i poveri. Questo è tipico di tutti i fenomeni inflattivi come quello a cui assistiamo in questi giorni, e i poveri non lo accetteranno mai.

Se la sfida è comprare tempo, non possiamo pensare di farlo con meccanismi universalistici statalisti inadeguati, che nessuno a livello internazionale sottoscrive e che quindi non verranno applicati. Abbiamo perso 26 anni di COP a discutere sempre degli stessi meccanismi senza nessun risultato significativo misurabile, soltanto tante buone intenzioni fumose. È venuta l’ora di cambiare.

Conclusioni

Solo la tecnologia ci salverà, e per farlo ha bisogno di un mercato oggi. Oggi è economicamente insostenibile e lo sarà per decenni fintanto che non raggiungerà una scala adeguata. I bilanci mediamente disastrati degli Stati difficilmente troveranno risorse adeguate, al massimo possono concentrarsi sulla parte più rischiosa come la validazione tecnologica, o aumentare di qualche miliardo gli aiuti alla ricerca. Ma la scala di investimenti da mettere a terra è di ordini di grandezza superiori. L’1% più ricco del pianeta ha l’82% del patrimonio globale ed il 17% delle emissioni. Mobilitare parte di quelle risorse può far partire il volano in modo virtuoso.

Per rendere il cambiamento economicamente sostenibile dobbiamo prima renderlo inevitabile. Solo così possiamo pensare che l’efficienza dell’allocazione delle risorse del privato, VC in testa, vada lì dove le nuove Big Tech devono nascere. Se creiamo le condizioni affinché esista un mercato vero della tecnologia, le attuali allocazioni tramite investimenti ESG potranno finalmente cominciare ad andare nella giusta direzione.

Fra l’altro, tra le righe e da più parti, nel COP 26 si è dato ad intendere che la soluzione arriverà dalla sensibilità delle prossime generazioni. È una follia, sia temporale che concettuale. Non solo abbiamo un decennio scarso per aggredire il problema, ma la sensibilità delle nuove generazioni sul tema resta comunque una bella incognita: la star ambientalista Greta Thunberg conta circa 13 milioni di followers sui social. Sono la metà della Ferragni, e rimane comunque fuori dalla top 100. Le star della Top 100, che contano centinaia di milioni di follower, non si fanno problemi ad ostentare viaggi in jet privato, auto sportive, eccessi e consumi che nulla hanno a che vedere con un comportamento ambientalmente sostenibile.

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