parole d'odio

Se gli hater siamo (anche) noi: gli errori comuni su social e giornali

Può rassicurare che le grandi piattaforme moderino l’hate speech, ma il rischio è quello di demandare la gestione dell’odio agli altri. Come se la questione non possa mai riguardarci. Ma sui social e sui giornali può capitare a tutti di peccare, anche involontariamente, di “parole d’odio”. Ecco come e i rimedi

Pubblicato il 16 Lug 2020

Vera Gheno

sociolinguista specializzata in comunicazione digitale e traduttrice dall'ungherese. Docente a contratto presso l'Università di Firenze, collaboratrice Zanichelli

hate speech

È sicuramente importante e ormai chiaro che la società nel suo complesso si sia resa conto dell’esistenza di un problema d’odio generalizzato, ed è innegabile che si stia lavorando un po’ a tutti i livelli per tentare di arginarlo e di circoscriverlo.

Ma è altrettanto importante essere consapevoli che non si può demandare la gestione dell’odio sempre e solo agli altri: bisogna conoscere l’odio per poterlo gestire, non semplicemente cercare di eradicarlo o respingerlo come se fosse “altro da noi”.

Il Rapporto della Commissione Europea sui discorsi di odio

E a questo proposito, il 28 giugno 2020 è stato presentato il quinto rapporto della Commissione Europea sui discorsi di odio. Tale rapporto si basa sul Code of Conduct on Countering Illegal Hate Speech Online stilato a maggio 2016 e firmato inizialmente da Facebook, Microsoft, Twitter e Youtube e successivamente da altri “attori di rilievo” della scena della comunicazione digitale, tra i quali Instagram e Snapchat. Il codice di condotta non è mai stato concepito come vincolante, ma si basa piuttosto sull’idea di un impegno comune per contrastare i discorsi d’odio negli ambienti online. Il rapporto, che può essere consultato qui per intero, appare incoraggiante, secondo molti dei suoi commentatori: in più del 90% dei casi le segnalazioni sono state valutate entro 24 ore, e i contenuti segnalati sono stati rimossi nel 71% dei casi (quindi le segnalazioni vengono effettivamente prese in carico e valutate).

Tali segnalazioni provengono da 39 organizzazioni appartenenti ai 23 Stati membri dell’UE nonché al Regno Unito (per l’Italia: Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali (UNAR), Centro Studi e Iniziative Europeo (CESIE), Centro Studi Regis, Amnesty International Italia e Associazione Carta di Roma), in parte passando da canali riservati, in parte usando quelli disponibili per gli utenti generici. Dal documento emerge che le segnalazioni fatte da “segnalatori attendibili”, cioè dalle organizzazioni, vengono trattate in maniera più meticolosa, e che la maggior parte delle società di IT deve migliorare il tasso di feedback rispetto alle segnalazioni degli utenti.

La piaga del noivoismo, spiegata a fondo (othering)

Finché parliamo genericamente di hate speech, il rapporto appare decisamente promettente.

Ciononostante, spesso si finisce ancora a parlare dell’odio come qualcosa di distante da noi, come se gli hater fossero persone diverse da noi, dai costumi comunicativi deprecabili: un problema, insomma, che riguarda noi “brave persone” principalmente come vittime, non come potenziali perpetratori di odio. Questo fenomeno ha un nome: viene definito othering, come spiega il linguista Federico Faloppa, da decenni impegnato nello studio dei fenomeni di odio ancor più che nel loro mero contrasto, nel suo recentissimo volume uscito per UTET #Odio. Manuale di resistenza alla violenza delle parole (dal quale trarrò ampio spunto in questo articolo): «un insieme di dinamiche, processi, strutture, anche linguistiche, che raggruppano dialetticamente i soggetti in un ‘noi’ e in un ‘loro’, in gruppi presentati come omogenei e alternativi gli uni agli altri, non solo per caratteristiche ma anche per interessi. Formando questi gruppi, si regolano processi di generalizzazione, di costruzione identitaria, e quindi di inclusione o di esclusione e marginalizzazione, sulla base per esempio di razza, etnia, status economico e sociale, disabilità, colore della pelle eccetera. E si legittimano, in ultima analisi, meccanismi di polarizzazione, anche sull’asse morale (giusto-sbagliato; umano-non umano; buono-cattivo eccetera)» (p. 169).

Nel pensare agli hater come categoria c’è senz’altro un fondo di verità, nel senso che è assodato che esistano gli “odiatori di mestiere”, che intorbidiscono le discussioni in modo programmatico. Tuttavia, a fronte di una minoranza di veri e propri professionisti dell’odio, esiste un’amplissima zona grigia di persone “perfettamente normali” che occasionalmente esibiscono i tratti dell’odiatore. Inoltre, per quanto possa generare sollievo – e un certo senso di sicurezza – sapere che i “grandi attori” dell’online si occupano del problema, il rischio è quello di demandare integralmente la gestione dell’odio agli altri, come se la questione fosse troppo grossa per affrontarla a livello individuale.

Il distanziamento dalla questione dell’odio, insomma, avviene sia in orizzontale (noi vs loro) sia in verticale (il mio piccolo me vs le grandi multinazionali e i governi); e alla fine, questo doppio distanziamento fa sì che molti, davanti al problema dell’odio, semplicemente… stiano immobili: non sono cose che li riguardano direttamente. O forse sì?

Ma che cos’è lo hate speech?

Se, proprio stimolati dal Rapporto, ci chiediamo che cosa venga giudicato (o possa essere giudicato) hate speech, la questione già si complica: mentre molti messaggi sono espliciti, di facile individuazione, «a volte le parole possono essere ambigue, le intenzioni dell’utente sconosciute, e il contesto di pubblicazione non sempre trasparente, tenendo anche conto della velocità con cui può cambiare» (#Odio p. 112). Gli scenari nazionali e sovranazionali mutano, ed è difficile trovare dei parametri universali per definire e di conseguenza condannare o bloccare il linguaggio d’odio nel momento della sua pubblicazione o subito dopo.

«Che fare, quindi? E che fare quando dalle informazioni disponibili non si può conoscere l’intenzione di chi ha postato un contenuto in odore di hate speech? Quando l’intento è ironico, o si sta solo citando un testo di una canzone? O ancora quando qualcuno ripete l’uso offensivo del linguaggio per condannarlo?» (p. 113). Non è raro che proprio nell’uso traslato, scherzoso, autoironico o nella citazione di contenuti altrui le piattaforme commettano errori di giudizio eclatanti: come quella volta nel febbraio 2018, diventata ormai proverbiale – e citata dallo stesso Faloppa – in cui Dario Accolla, noto attivista LGBT+, venne bloccato per tre giorni da Facebook per contenuti omofobi, ossia per avere usato la parola “frocio” in un post (in maniera scherzosamente autoreferenziale, per “depotenziarla”) (p. 151).

Il caso opposto, e ben noto ai più, è quello dell’uso di termini per nulla offensivi, di per sé, ma che lo diventano in base alle intenzioni di chi le usa. Non troppo tempo fa, un mio video è stato commentato scrivendo che sono stizzosa, «della stessa pasta della Murgia» per poi aggiungere: «Vi si riconosce subito». Premesso che tale giudizio apodittico è stato pronunciato dopo aver guardato cinque minuti di video, molte persone hanno commentato dicendo che – ovviamente – sarei dovuta andare fiera dell’accostamento a Michela Murgia, perché evidentemente per loro – e anche per me – Michela Murgia è un personaggio positivo. Tuttavia, è evidente che il commentatore non ha usato il nome come forma di complimento: nella sua testa, “essere come la Murgia” è una grave offesa; esattamente, del resto, come quando vengo accusata di essere femminista (un altro commento allo stesso video recita «Ma vabbhe ha un poco una lezione quasi femminista.. Buttata lí» [sic]) o comunista. Le parole, insomma, sono spesso assai ambigue, se prese da sole, decontestualizzate. Quando, d’altro canto, è Lorenzo Gasparrini, filosofo femminista, a definirmi tale, ecco che lo stesso termine femminista diventa davvero un bel complimento. Insomma, al di là della parola, c’è l’intenzione con cui tale parola viene usata.

Potrebbe mai esistere un filtro automatico in grado di riconoscere l’intento degli autori dei vari messaggi? È una prospettiva francamente spaventosa, che ricorda i precog del film Minority Report (o quello che cantava Prince in un brano poco noto della colonna sonora del primo Batman, “Electric chair”: «If a man is considered guilty for what goes on in his mind, then give me the electric chair for all my future crimes». Non a caso, le piattaforme al momento non solo perfezionano i filtri su base algoritmica, ma assumono e formano personale umano, per effettuare il controllo. Personale che deve essere calato nella realtà locale, ma con un occhio alla situazione internazionale. Mica semplice; come sottolinea Faloppa, «ci inganneremmo a pensare che si tratti più o meno sempre delle stesse parole, degli stessi schemi che si ripetono. Anche soltanto a livello lessicale il linguaggio dell’odio online è in continua evoluzione. È un po’ come scattare una fotografia: dove qualcuno però si intrufola senza che tu te ne accorga. Dove qualche elemento risulta sempre mosso» (p. 153).

Il problema centrale, dunque, appare l’indeterminatezza dell’odio: il fatto che, senza alcuna esagerazione, ogni parola del nostro vocabolario possa essere, almeno potenzialmente, usata come clava (o, al contrario, come fiore): questa indeterminatezza è il principale ostacolo quando si cerca di risolvere la questione dello hate speech “tecnicamente”. Pensiamo a una frase come “Io amo le donne, però le femministe…”: la premessa suona come un mezzo complimento, ma in realtà nasconde tutta una serie di giudizi “introiettati”, pur in assenza di termini apertamente offensivi.

Oppure, soffermiamoci un attimo sul classico approccio “stradale” nei confronti di una donna: “Ciao, bella”; la scrittrice Carolina Capria, in un suo recente post su Facebook, argomenta che il fenomeno del cosiddetto catcalling (ricevere attenzioni più o meno moleste per strada) si estende anche a frasi apparentemente innocenti come quella appena citata. Chi argomenta che le donne sono diventate troppo suscettibili, o che “tutto questo un giorno ci mancherà”, è invitato a riflettere sul disagio provocato dal diventare oggetto di attenzioni non richieste. E che ci sia qualcosa di deviante in un approccio del genere lo testimonia il fatto che se si ringrazia per il complimento per strada, magari per istintiva gentilezza, ci si trova spesso invischiate in un seguito per il quale magari non si aveva alcun interesse, e se si tira a diritto, si viene tacciate di maleducazione, acidità e altri epiteti del genere. Uso il femminile perché è più raro che il catcalling viaggi nel verso opposto, da femmina a maschio; anche se questa possibilità non è affatto esclusa a priori.

Questione di sensibilità

Parlando di discorsi d’odio, è necessario anche tenere a mente che non tutti hanno le stesse sensibilità; soprattutto, serve una nuova attenzione per rapportarsi con le vittime. Come nota ancora Faloppa, in due pagine molto dense del suo volume, «Ha bisogno di aiuto, la vittima: dell’aiuto giusto. E chi la sta ad ascoltare deve essere consapevole delle proprie competenze quanto dei propri limiti. Limiti culturali, come i pregiudizi e gli stereotipi che possono interferire con l’ascolto, con la valutazione della testimonianza. Limiti linguistici, come la presunzione di aver capito tutto subito, di non aver bisogno di un interprete, di potersi disinteressare del linguaggio non verbale, di poter sottovalutare la dimensione pragmatica della comunicazione. La vittima vuole piena attenzione. Occorre ascoltarla senza esprimere giudizi, registrarne le parole, rispettarne pause e silenzi. Controllare la propria emotività e non rispecchiarsi nel suo vissuto. Essere simpatici più che empatici: sapere che nei suoi panni non ci si potrà mai veramente stare, sentire. Si eviterà così di banalizzarne la testimonianza, metterne in dubbio il racconto (‘Sarà andata proprio così?’), fingere (‘Ti capisco, sai’), normalizzare (‘Succede a molti’), colpevolizzare (‘Ma hai pensato alla tua famiglia?’) respingere (‘Provi a recarsi di là perché noi non trattiamo questi temi’)» (pp. 234-235).

L’infanticidio di Margno e il ruolo dei mezzi di comunicazione di massa

Un recente, orrendo fatto di cronaca ci permette di riflettere sulle dinamiche d’odio che si rivelano, anche in questo caso, assai complesse. Gli avvenimenti sono terribili: un marito e una moglie decidono di separarsi. Il divorzio viene chiesto dalla moglie. Apparentemente, il marito accetta la decisione della moglie. Tuttavia, mentre è in vacanza a Margno, in Valsassina, con i suoi due figli gemelli di dodici anni, uccide entrambi soffocandoli e successivamente si toglie la vita. Prima di compiere l’ultimo gesto manda una serie di messaggi alla moglie, l’ultimo dei quali recita “”È tutta colpa tua, non rivedrai più i bambini”.

La vicenda va oltre la possibile comprensione umana: un padre che uccide i propri figli apparentemente per fare un dispetto alla moglie. Ed è proprio nell’eterno tentativo di comprendere l’incomprensibile (e di far rientrare tutto in “tassonomie”) che si provano a dare delle spiegazioni, a partire dai titoli dei giornali: il “Mattino”, per esempio, intitola la condivisione dell’articolo sui suoi social “Il dramma dei papà separati” per poi correggerlo in “Papà separato, ha ucciso i figli nel sonno” e scusarsi per l’errore commesso; ma non è stato l’unico caso di titolo contestato.

Il Corriere della Sera ci ha tenuto a sottolineare che l’omicida/suicida era una persona apparentemente “a modo”: “Mario Bressi: calcetto, oratorio e «mai una parola fuori posto»” sono le parole scelte per una condivisione su Twitter; l’ANSA, in un tweet poi rimosso, scriveva, invece: “A causare la tragedia la difficile separazione tra il padre e la madre”; sulla “separazione difficile” si è soffermato anche TGCOM24 con un titolo poi modificato ma di cui, come al solito, rimane traccia nelle schermate che girano sui social.

Comprensibilmente, questa lettura della tragedia, che in qualche modo sembra attribuire la colpa alla madre che ha dato inizio alla separazione e che pare manifestare qualche forma di empatia per il padre “distrutto dalla separazione” o “incapace di accettarla”, è stata duramente contestata sui social (e non solo), come pure la scelta di definire il duplice omicidio e suicidio come “atto di follia”: considerare il perpetratore come malato di mente opera, ancora una volta, un distanziamento più o meno consapevole tra “noi” e “lui”. Classificando l’omicida come pazzo, possiamo permetterci di pensare che a noi, “persone normali”, una cosa del genere non potrebbe mai succedere. Nuovamente, in maniera più o meno esplicita, si è fatto ricorso all’othering.

Un manifesto per i giornalisti

Premesso che, nella narrazione di un fatto di cronaca, non ritengo necessario aggiungere per forza il punto di vista o l’esegesi del giornalista, e che in molti casi sarebbe opportuno attenersi alle mere informazioni fattuali, vorrei ricordare che il contesto giornalistico si è già occupato di darsi delle linee guida nella trattazione di fatti di questo genere: è il “Manifesto delle giornaliste e dei giornalisti per il rispetto e la parità di genere nella informazione contro ogni forma di violenza e discriminazione attraverso parole e immagini”, presentato il 25 novembre 2017 e da lì in poi conosciuto come “Manifesto di Venezia”, del quale ho recentemente riportato degli stralci su Facebook, perché è bene sapere che alcuni strumenti di autoregolamentazione, per quanto spesso disattesi, esistono già (il testo completo è reperibile qui):

2. adottare un comportamento professionale consapevole per evitare stereotipi di genere e assicurare massima attenzione alla terminologia, ai contenuti e alle immagini divulgate;

[…]

5. utilizzare il termine specifico “femminicidio” per i delitti compiuti sulle donne in quanto donne e superare la vecchia cultura della “sottovalutazione della violenza”: fisica, psicologica, economica, giuridica, culturale;

6. sottrarsi a ogni tipo di strumentalizzazione per evitare che ci siano “violenze di serie A e di serie B” in relazione a chi subisce e a chi esercita la violenza;

[…]

9. evitare ogni forma di sfruttamento a fini “commerciali” (più copie, più clic, maggiori ascolti) della violenza sulle le donne;

10. nel più generale obbligo di un uso corretto e consapevole del linguaggio, *evitare*:

a) espressioni che anche involontariamente risultino irrispettose, denigratorie, lesive o svalutative dell’identità e della dignità femminili;

b) termini fuorvianti come “amore” “raptus” “follia” “gelosia” “passione” accostati a crimini dettati dalla volontà di possesso e annientamento;

c) l’uso di immagini e segni stereotipati o che riducano la donna a mero richiamo sessuale” o “oggetto del desiderio”;

d) di suggerire attenuanti e giustificazioni all’omicida, anche involontariamente, motivando la violenza con “perdita del lavoro”, “difficoltà economiche”, “depressione”, “tradimento” e così via.

e) di raccontare il femminicidio sempre dal punto di vista del colpevole, partendo invece da chi subisce la violenza nel rispetto della sua persona.

Anche solamente mettendo in pratica questi punti del “Manifesto di Venezia” si potrebbe già fare molto.

Chi è senza peccato scagli la prima pietra

La disamina del caso di Margno non sarebbe tuttavia completa se non venisse menzionato un altro aspetto della vicenda mediatica. Il profilo Facebook dell’assassino Mario Bressi, rimasto aperto e accessibile dopo la sua morte (problema sempre più stringente, quello dei profili social dei defunti, come sottolinea ancora una volta il tanatologo Davide Sisto) viene in poco tempo scoperto dagli utenti e letteralmente preso di mira da messaggi di odio. Messaggi, teniamo a mente, rivolti, sì, a un assassino che non ha alcuna scusante, ma allo stesso tempo a un morto, che non può certo leggere i commenti; in compenso, questi messaggi possono essere letti dai vivi, magari imparentati con l’assassino stesso o con le vittime: con quali conseguenze? Vorrei citare, in forma anonima, alcuni esempi di questi commenti, per dare un’idea di massima.

  1. E pensare che quelle anime innocenti ti chiamavano Papà… invece eri un Verme..! Nessun perdono per un gesto orribile..! Vaga all’inferno! MALEDETTO
  2. La vita è un dono inestimabile del nostro Re dei Re e tu l hai sprecata in questo modo vile, togliendola anche a due angeli a due creature che avevano tutta la vita davanti a loro! Sei una MERDA, una schifezza di persona, e meriti veramente di andare all inferno! Una preghiera per la povera madre con il cuore sommerso di dolore! AMEN!
  3. Che tu sia maledetto per l’eternità di un’eternità perenne e senza fine! Indegno uccidere il proprio sangue per far del male a qualcuno! Ignobile pure da morto! E ora marcisci ovunque tu sia perché la pagherai cara, l universo non dimentica!
  4. Bastardo…… Che tu possa finire all’inferno…… 2 angeli….. Che cazzo ne sapevano loro… Che cazzo ne sapevano bastardoooo
  5. Una carogna tale merita solo di essere buttato nelle fogne ne funerale ne bara …Dio abbia in cielo i 2 angeli …condoglianze alla mamma😔
  6. Peccato che sei morto mannaggia dovevi rimanere in vita in pasto ai coccodrilli ti davo io!!
  7. Molto spesso i mostri sono costruiti….giorno dopo giorno,tanto al mondo d’oggi la casa va alla moglie,i figli pure, la moglie può fare proprio quello che vuole, rovinare ,distruggere matrimoni per motivi assurdi.Un consiglio agli uomini …NON VI SPOSATE.
  8. State scrivendo a un morto, razza di mongoloidi ebeti centoquattristi cinquantenni con la cover a libretto buongiornissimo kaffè indinniati e Renzi cheffà?
  9. Mi chiedo solo dove hai trovato la forza per uccidere i tuoi figli, il sangue del tuo sangue! Posso capire, diciamo così, un marito che uccide la moglie per rancore, ma i figli no, non dovevi farlo, loro non c’entravano un cazzo tra voi due. Potevi ammazzarti soltanto te INFAME
  10. Chissà che cosa t’aveva fatto tua moglie per farti uscire di testa in questa maniera, comunque hai davvero esagerato… non avresti dovuto uccidere nessuno e tanto meno i tuoi figli che non avevano colpe… una reazione del genere non nasce dal nulla, sicuramente avevi qualcosa da farle pagare, ma non in questo modo

Su quel profilo si possono leggere, in questo momento, migliaia di interventi di questo tono; penso che bastino per capire che il problema d’odio che abbiamo non è solo legato al modo in cui i media parlano di un evento del genere, non riguarda solo i famosi hater professionisti, ma che è una questione che investe violentemente anche gli “utenti semplici”. La “trappola dell’odio”, come scrivevo in un articolo pubblicato proprio su AgendaDigitale qualche mese fa, non risparmia nessuno: in questo caso, non ne sono immuni migliaia e migliaia di persone che reputano loro prerogativa lapidare il colpevole, peraltro in questo caso già morto.

Devo dire che personalmente uno degli “odi” che mi fanno più orrore è proprio quello dei (sedicenti) “giusti”: quello di chi pensa di essere titolato a condannare, emettere sentenze tremende, giudicare con parole terribili, dure, prive in molti casi di qualsiasi raziocinio. Quello di chi non pensa di essere un odiatore. Perché l’odio non può che generare altro odio, come dimostrano, peraltro, alcuni dei commenti citati, nei quali gli utenti finiscono per azzuffarsi tra di loro.

In conclusione

Se, da una parte, occorre dunque prendere atto che c’è dell’odio (almeno potenziale) in ogni essere umano, è necessario riflettere non su come odiarlo, su come eradicarlo, ma piuttosto su come gestirlo, come convogliarlo, come superarlo. L’evoluzionista Telmo Pievani, nei suoi interventi, ripete spesso che la conoscenza concorre letteralmente a plasmare il cervello, a farlo evolvere anche nella sua natura fisica. Ritengo che anche l’odio, in buona sostanza, vada conosciuto per poterlo capire e, in ultima analisi, gestire; non solo a livello di macrosistema, ma a livello personale, di microsistema, di singolo individuo, per permetterci, appunto, di evolverci verso, forse, forme di umanità migliori. Come dice ancora una volta l’autore di #Odio, «Occorre dirsi e far sapere – a chi intorbida le acque, a chi schizza fango sugli altri, a chi da quel fango viene colpito – che il linguaggio dell’odio non è un’opzione. Che ci sono, e ci servono, altre parole» (p. 235).

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