Da circa trent’anni, Internet è diventato parte integrante della nostra specie. A partire dalla fine degli anni ’90, le nostre identità – prima corporee, poi digitali – hanno cominciato a divergere. Una separazione che potrebbe sembrare improvvisa, ma che si è in realtà sviluppata in modo graduale, quasi silenzioso.
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Dalla connessione all’identità: un’evoluzione silenziosa
Le identità di connessione erano strumenti utili per accedere a spazi digitali senza formalismi. Forum, chat room e poi i social emergenti come MySpace: ambienti in cui bastava un nickname, senza alcuna verifica. Un’epoca di libertà, ma anche di inconsistenza identitaria.
Col tempo, queste identità effimere hanno lasciato spazio alle identità digitali. Queste strutture formali iniziarono a essere rilasciate da enti specifici – come lo SPID, operativo dal 2015, rilasciato da istituti regolamentati. Una svolta strategica, pensata per superare la frammentazione identitaria e per allinearsi alle linee guida europee sull’identificazione digitale di cittadini e imprese. Oggi questo percorso si concretizza nell’EUDI Wallet, destinato a diventare la chiave d’accesso universale alla cittadinanza digitale europea.
Asimmetrie e frammentazioni nel sistema identitario
Non tutto però è stato lineare. Accanto allo SPID si è sviluppata la CIE – la carta d’identità elettronica – un oggetto phygital che mantiene l’aspetto del documento fisico, ma incorpora certificati digitali statali. Un affiancamento non sempre chiarito, che ha reso il quadro italiano più articolato.
Oggi viviamo quotidianamente in spazi virtuali – conti correnti, social network, app per il tempo libero o il lavoro – attraverso le nostre figure digitali. In questi ambienti si generano asimmetrie identitarie: luoghi in cui la genuinità si fonde con opacità, e talvolta si trasforma in inganno.
Appare logica la traiettoria di sviluppo: da una prima decentralizzazione – dove ogni ente poteva emettere identità seguendo specifiche linee guida – ad una centralizzazione flessibile. Un ambito in cui i soggetti autorizzati emettono e certificano credenziali, all’interno di un sistema più interoperabile.
Scalabilità dell’inganno negli spazi digitali
Un tempo, l’inganno si consumava nello spazio fisico. I “furbacchioni” c’erano, certo, ma l’interazione diretta permetteva – nella maggior parte dei casi – di smascherare chi si spacciava per qualcun altro. Nel mondo digitale, l’inganno si è fatto più subdolo, scalabile, difficile da rilevare.
Con alcune applicazioni, come Character-AI, bastano dieci secondi di campionamento della voce perché un sistema basato su intelligenza artificiale le riproduca in modo credibile. Una similitudine sufficiente da manipolare la fiducia. Intanto, dal 2008 – l’anno in cui Facebook ha debuttato in Italia – lasciamo ogni giorno tracce digitali che alimentano profili comportamentali sempre più dettagliati.
“Oggi siamo identificati dai nostri dati, come se fossero ormai inseparabili da noi.” — Luciano Floridi.
L’AI, per sua natura, è progettata per analizzare grandi quantità di dati, scoprire relazioni nascoste, individuare pattern imprevedibili. Può ricostruire in pochi istanti un profilo digitale coerente con le informazioni che disseminiamo in rete – spesso senza nemmeno accorgercene. Username, password, cronologie di accesso, abitudini di navigazione: tutto può essere correlato, ricomposto e usato.
A questo si aggiunge la tracciatura costante dei dispositivi mobili, ormai prassi consolidata e impiegata anche in ambito forense. I nostri smartphone raccontano dove siamo stati, a che ora, per quanto tempo.
In questo nuovo paradigma evolutivo, la presenza digitale non è più separabile da quella fisica.
Vulnerabilità degli ecosistemi iperconnessi
Nel mondo iperconnesso in cui viviamo, l’assoggettamento al virtuale rende l’invisibile sorprendentemente realistico. Gli acquisti si fanno silenziosi, integrati nei flussi sociali. Le piattaforme, fondendo molteplici servizi in un’unica interfaccia, si trasformano in ecosistemi, capaci di raccogliere, aggregare e indirizzare ogni gesto digitale.
In questo ambiente, la necessità di esistere nel flusso – essere presenti, visibili, reattivi – rischia di rendere vulnerabili alcune fragilità, aprendo nuove superfici d’attacco.
Verso un paradigma identitario integrato
Per arginare questi rischi, occorre un nuovo paradigma identitario. L’identità digitale non può più essere vista come semplice chiave d’accesso. Deve essere trattato come un oggetto integrato quasi incarnato e contestuale. Il suo perimetro si estende dall’autenticazione alle tracce dei che genera e lascia nei processi.
Occorre essere consapevoli di come i dati vengono raccolti, elaborati, da chi vengono custoditi, per quanto tempo, a quale scopo. Se da un lato, una completa decentralizzazione dell’identità appare poco sostenibile per la certificazione delle identità – dall’altro, può diventare una leva per il controllo personale degli attributi, per decidere cosa attivare, con chi e quando.
Decentralizzazione computazionale e controllo dei dati
Questa logica si estende anche agli agenti intelligenti. Se accanto alla nostra identità operano sistemi autonomi che analizzano dati, anche questi devono agire sotto la nostra regia. Alcuni modelli sperimentali, come QVAC (Quantum Verified AI Computation) di Tether, esplorano proprio questa direzione: portare il calcolo sull’edge della rete, decentralizzando la potenza computazionale e distribuendo i dati secondo logiche peer-to-peer e trust-aware. La condivisione avviene tra nodi fiduciari, favorendo un’elaborazione controllata e potenzialmente “fuori” dalla rete: almost off-line.
Diversa applicazione, simile concetto, la nuova app BitChat – lanciata da Jack Dorsey co-founder e ex-CEO di Twitter – per la messaggistica che non usa Intenet. L’idea di sfruttare tecnologie Bluetooth per lo scambio di dati non è recente, né BitChat è l’unica app in circolazione – nonostante ciò l’approccio decentralizzato è interessante.
Questi approcci si innestano in più ampio scenario quello dell’identificazione della posizione del dato, evitando colli di bottiglia centralizzati. Possiamo pensare che sia giunto il momento di inaugurare una nuova alfabetizzazione della rete.
Incarnazione algoritmica e servizi adattativi
Le tracce che lasciamo – come scriviamo, come parliamo, dove andiamo – alimentano un patrimonio informativo sempre più sofisticato, capace di generare identità digitali espanse, che rispecchiano ciò che siamo. Non è più solo interazione uomo-macchina: è integrazione. Anzi, incarnazione.
“Quando un sistema è in grado di modellare sé stesso, può iniziare a prendere decisioni autonome in nostro nome.” — Thomas Metzinger.
Non stupiscono le parole del direttore dell’INPS che immagina l’intelligenza artificiale come “nuovo alleato contributore”. È il segno di un passaggio di fase: non più solo strumenti di supporto, ma in grado di apprendere, simulare, agire in nostra vece: un processo di incarnazione algoritmica. Sono scenari sicuramente avanzati, ma già oggi i digital twin sono usati nell’industria per modellare scenari infrastrutturali complessi.
Dissociazione adattiva e fenomenologie tecnologiche
Siamo entrati in una nuova fenomenologia in cui la tecnologia ci assiste, ci facilita – ma anche interpreta e orienta. E così nasce una dissociazione adattiva: viviamo in parallelo connessioni fisiche e digitali, spesso senza esserne pienamente consapevoli.
Questo modello può sembrare ancora lontano, in realtà è già all’opera. Le nostre abitudini – ad esempio, cosa e come paghiamo – alimentano algoritmi predittivi che modellano offerte, suggerimenti, incentivi. Anche funzioni ormai quotidiane, come il supporto clienti automatizzato o i filtri conversazionali via chat, stanno rimodellando la relazione fiduciaria tra utente e istituzione.
Serve una cultura del feedback per rendere visibile l’invisibile. In futuro, sarà inevitabile l’arrivo di nuove forme di sorveglianza computazionale, forse affidate proprio ad agenti intelligenti “agentificati”: software autonomi, capaci di dialogare tra sistemi, valutare comportamenti e tutelare gli ecosistemi digitali.
Responsabilità condivisa nella cittadinanza algoritmica
Come ha scritto Rosi Braidotti, “Il soggetto post-umano è una configurazione relazionale, informata da dati e flussi, ma responsabile delle proprie traiettorie.”
Le identità digitali non sono più semplici strumenti di accesso, né meri avatar operativi. Sono incarnazioni relazionali, che abitano lo spazio tra corpo e rete, tra gesti quotidiani e logiche algoritmiche.
Nel nuovo ecosistema digitale, le interazioni automatizzate non possono più essere solo funzionali: devono ridefinire il perimetro della responsabilità.
In questo scenario, la familiarità con gli strumenti che generano, processano e interpretano i dati identitari diventa una condizione d’accesso all’evoluzione. Ma ancora una volta non è solo una questionetecnica.
La cittadinanza algoritmica che si profila coinvolge tutti: sviluppatori, utenti, fornitori di servizi, istituzioni regolatorie. Il terreno su cui operano le identità digitali è ancora diseguale, ma questa asimmetria dovrà essere livellata. Non solo con nuove regole, ma con processi di educazione, accompagnamento e assunzione condivisa di responsabilità.
In un mondo dove wallet e identità digitali disseminano dati e l’AI li analizza e può agire in autonomia, le interazioni diventano una questione di trasparenza e fiducia.
La decentralizzazione dei dati e degli algoritmi può rappresentare una risposta pragmatica alla concentrazione del potere. Ma non sarà sufficiente senza una cultura del limite, un design etico che renda visibile ciò che l’automazione tende a nascondere.











