La governance globale sta vivendo una profonda metamorfosi, in cui l’intelligenza artificiale (IA) è diventata il centro di una battaglia geopolitica tra Unione Europea, Stati Uniti e Cina.
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La nuova contesa normativa tra le potenze
In un’epoca che si allontana dalla “età dell’oro” della globalizzazione, il potere non risiede più soltanto nella forza militare o economica, ma nella capacità di definire gli standard normativi che plasmeranno il futuro della tecnologia. Precedenti storici, come l’“effetto California” e l’“effetto Bruxelles”, hanno già dimostrato come mercati vasti e con normative stringenti possano spingere le aziende globali verso una “corsa al vertice”. Tuttavia, il presente scenario è più complesso e frammentato, con tre modelli di governance in netta contrapposizione.
L’Unione Europea si posiziona come un baluardo di etica e diritti, rischiando di rallentare la propria corsa all’innovazione.
La Cina, con un approccio pragmatico e orientato al controllo statale, offre un modello che privilegia i risultati e l’efficienza a scapito dei valori individuali.
Gli Stati Uniti, in un contesto normativo disorganico, mirano a mantenere il proprio primato tecnologico, anche a costo di adottare misure coercitive che rischiano di alienare gli alleati, un fenomeno che potremmo definire “effetto Trump”. L’esito di questa contesa non sarà un unico standard globale, ma un panorama multi-polare, che richiederà alle organizzazioni di navigare con abilità tra sistemi normativi divergenti.
L’eredità delle superpotenze normative: gli effetti su scala globale
Per cogliere la complessità delle dinamiche attuali, è essenziale comprendere i precedenti storici che hanno plasmato la diffusione delle normative oltre i confini nazionali.
Negli anni Novanta, il professore di economia David Vogel coniò il termine “effetto California”. Questo fenomeno descriveva come, contrariamente ai timori di una “corsa al ribasso” degli standard, normative rigorose in un mercato competitivo potessero innescare una “corsa al vertice”. Il caso più emblematico fu quello degli standard sulle emissioni delle automobili. In seguito al Clean Air Act del 1970, alla California fu concesso di imporre standard più severi rispetto al resto degli Stati Uniti. L’industria automobilistica si trovò di fronte a una scelta economica: produrre modelli diversi per ogni stato, o conformare tutte le auto agli standard più rigorosi per mantenere l’accesso al vasto e cruciale mercato californiano. La maggior parte scelse la seconda opzione e le normative californiane finirono per elevare il livello degli standard nazionali.
Questa stessa logica è stata espansa su scala globale dall’“effetto Bruxelles”, un’idea coniata da Anu Bradford, professoressa finlandese di diritto e economia presso la Columbia Law School di New Yorkper, descrivere il potere unilaterale dell’Unione Europea di regolare i mercati mondiali. Il suo libro “The Brussels Effect: How the European Union Rules the World” del 2020 ha reso popolare la teoria secondo cui l’UE esercita un’influenza normativa su scala globale non attraverso la coercizione, ma grazie alla forza del suo vasto e unificato mercato interno. In sostanza, sostiene la Bradford, l’UE, forte del suo immenso mercato di consumatori, può promulgare normative che le multinazionali adottano volontariamente in tutto il mondo per motivi di efficienza e convenienza economica. Per le aziende, è spesso più semplice e meno costoso produrre una singola versione di un prodotto che rispetti lo standard più elevato dell’UE, piuttosto che crearne versioni multiple per giurisdizioni diverse. A differenza di altre forme di influenza, l’effetto Bruxelles non si basa sulla coercizione, ma sulla forza del mercato e sulla proiezione di valori come la protezione della privacy e la salute dei consumatori. Questo differenziale di intenzionalità e scopo rende l’approccio europeo un modello di governance ancora più ambizioso.
Il modello europeo tra etica, diritti e rischio di rallentamento
L’Unione Europea si è posizionata come pioniere nella regolamentazione dell’IA, con un quadro normativo che riflette una visione incentrata sull’essere umano, la sicurezza e i diritti fondamentali. L’EU AI Act è il primo quadro giuridico completo al mondo sull’IA e classifica le applicazioni in base a quattro livelli di rischio. I sistemi che rappresentano un rischio inaccettabile, come il “social scoring” imposto dai governi o l’uso di tecniche subliminali per la manipolazione, sono severamente vietati. Quelli ad alto rischio, come i sistemi per la selezione dei candidati, la gestione dei lavoratori o quelli usati nel settore dei trasporti, sono consentiti ma soggetti a obblighi rigorosi, tra cui la valutazione del rischio e la supervisione umana.
Le applicazioni a rischio limitato, come i chatbot e i “deepfake”, richiedono unicamente la trasparenza, assicurando che gli utenti siano informati quando interagiscono con una macchina o un contenuto generato dall’IA. Infine, la maggior parte dei sistemi a basso o minimo rischio non è soggetta a restrizioni.
L’AI Act è stato concepito con una portata extraterritoriale, il che significa che si applica a qualsiasi fornitore il cui sistema sia destinato a essere utilizzato nel mercato europeo, replicando la dinamica dell’“effetto Bruxelles”. Nonostante la sua visione etica, il regolamento ha sollevato notevoli preoccupazioni riguardo al suo potenziale impatto sull’innovazione interna. Le startup e le piccole e medie imprese, infatti, temono che gli onerosi requisiti di conformità, i costi elevati e i ritardi nell’immissione sul mercato possano rappresentare un ostacolo insormontabile, spingendole a spostare lo sviluppo in giurisdizioni meno regolamentate. Per quantificare questo timore, le violazioni più gravi dell’AI Act possono comportare sanzioni fino a 35 milioni di euro o il 7% del fatturato globale annuo. Questo dilemma solleva un interrogativo cruciale: l’AI Act riuscirà a proiettare i valori europei su scala globale, o finirà per ostacolare il proprio ecosistema di IA, regolando principalmente i prodotti delle aziende extra-europee?
La strategia cinese: tecnologia, efficienza e sorveglianza
Il modello cinese di governance dell’IA si discosta nettamente dall’approccio europeo e da quello statunitense. Offre al mondo una visione della governance basata sui risultati e priva di valori, ponendo l’accento sulla redditività, la convenienza e il mantenimento dell’ordine sociale, a scapito dei diritti individuali. La Cina non ha adottato una singola legge onnicomprensiva, ma ha invece sviluppato un quadro normativo a “patchwork” con regolamenti mirati per applicazioni specifiche. Questo approccio, sebbene possa sembrare restrittivo, è in realtà strategicamente pragmatico e favorevole all’industria, in quanto utilizza la legge per accelerare la crescita del settore. Pechino ad esempio sta accelerando l’integrazione dell’intelligenza artificiale nel settore manifatturiero nell’ambito di una strategia nazionale di ampio respiro volta a rimodellare la propria base industriale e a scalare la catena del valore globale. Si prevede che l’industria dell’IA cinese, già valutata oltre 70 miliardi di dollari con oltre 4.300 aziende, espanderà il suo valore di base a 140 miliardi di dollari e incrementerà i settori correlati a 1,4 trilioni di dollari entro il 2030. Le iniziative del governo centrale, come il New Generation AI Development Plan e la spinta a coltivare “nuove forze produttive di qualità”, hanno posto la produzione intelligente in prima linea tra le priorità politiche, supportata da ingenti investimenti in infrastrutture, dati e talenti.
Tuttavia, la regolamentazione cinese è spesso lassista su aspetti come la privacy, il copyright e la protezione dei dati, un approccio che offre alle aziende cinesi un vantaggio competitivo a breve termine, permettendo loro di accedere a enormi quantità di dati. È proprio grazie a questo che i sistemi di riconoscimento facciale cinesi sono diventati di livello mondiale, e che l’uso dell’IA per il tracciamento dei dipendenti sul posto di lavoro è diventato un settore fiorente. Un esempio tangibile è l’uso di sensori wireless nascosti in uniformi o caschi da lavoro per monitorare le onde cerebrali e le emozioni dei dipendenti.
A differenza del modello europeo, che si preoccupa della discriminazione algoritmica, l’approccio cinese utilizza l’IA come strumento di controllo sociale e di mantenimento dell’ordine. Esistono prove di sistemi di sorveglianza avanzati usati per monitorare minoranze etniche, come gli uiguri, in un modo che l’UE definirebbe una violazione dei diritti fondamentali.
Allo stesso modo, mentre in Europa il monitoraggio dei dipendenti tramite IA viene percepito come un rischio potenziale, in Cina è un modello di business in espansione, con sistemi in grado di identificare in tempo reale azioni come l’assenza dalla postazione di lavoro, l’uso del cellulare o le pause per fumare. Sebbene la narrazione occidentale dipinga un unico “social credit score” per gli individui, la realtà è più complessa e frammentata, con il sistema che si concentra principalmente sulle aziende e su specifici comportamenti. Il lancio del modello linguistico avanzato DeepSeek-R1 ha messo in discussione la convinzione che i controlli statunitensi sull’esportazione di semiconduttori potessero frenare i progressi cinesi nell’IA. Sviluppato con una frazione delle risorse dei rivali americani, questo modello ha dimostrato che l’ingegno tecnico può superare le limitazioni hardware. La strategia cinese non è quella di vincere una “corsa” per la supremazia tecnologica assoluta, ma di impegnarsi in una “maratona” per garantire che la sua tecnologia diventi la più economica, accessibile e ampiamente utilizzata al mondo.
Gli Stati Uniti e l’“effetto Trump”: il potere attraverso la pressione
L’approccio statunitense alla governance dell’IA si distingue per la sua natura frammentata, la forte enfasi sul primato tecnologico e la variabile geopolitica rappresentata dalla potenziale politica di un’amministrazione Trump. La regolamentazione è un “mosaico” di iniziative a livello federale e statale, come il White House Blueprint for an AI Bill of Rights, che mirano a bilanciare la promozione dell’innovazione con la protezione dei diritti civili. Tuttavia, la spinta per il dominio globale è chiara, con il vicepresidente J.D. Vance che ha criticato la regolamentazione europea eccessivamente cauta e ha sostenuto che il futuro dell’IA “non si vincerà con lamenti sulla sicurezza”.
Si potrebbe introdurre il concetto di “effetto Trump” come un potenziale contrappunto all’“effetto Bruxelles”, caratterizzato dall’uso di misure coercitive per imporre la volontà statunitense. Questo approccio si distingue per la sua natura unilaterale e transazionale, basata sulla minaccia di sanzioni commerciali, a differenza della forza di mercato che definisce l’approccio europeo. Tale approccio rischia di alienare gli alleati e di spingerli a cercare alternative, facendo un “regalo politico” alla Cina, che si presenta, al contrario, come un partner più cooperativo.
Verso una frammentazione normativa globale
L’era di un singolo “effetto” normativo dominante sembrerebbe, dunque, giunta al termine. La governance globale dell’IA è ora definita da una competizione a tre direzioni tra modelli distinti e in contrapposizione. Il modello europeo, con la sua enfasi sui diritti e l’etica, si batte per proiettare i propri valori a livello mondiale. Il modello cinese, con il suo approccio pragmatico e statale, punta a un’adozione diffusa e accessibile, offrendo una visione priva di valori ma concentrata sui risultati. Il modello americano, con la sua ricerca di un dominio tecnologico attraverso una politica frammentata e potenzialmente coercitiva, rischia di alienare gli alleati e di cedere terreno.
Il vincitore finale di questa contesa non sarà determinato unicamente dalla superiorità tecnologica, ma da quale modello riuscirà a bilanciare meglio l’innovazione, la sicurezza e l’influenza geopolitica. Il futuro probabile non è un’unificazione normativa completa, ma una frammentazione in blocchi regionali, ognuno dei quali tenterà di proiettare i propri standard globalmente. Per le organizzazioni multinazionali che operano in questo complesso panorama, sarà cruciale adottare un approccio basato sul “massimo comune denominatore”, considerando i requisiti più stringenti, come quelli dell’EU AI Act, come punto di partenza. La vera sfida non è solo tecnologica, ma strategica e umana, e richiederà una leadership in grado di integrare l’innovazione tecnologica con un’etica e una visione di lungo periodo.











