L’intelligenza artificiale è ormai entrata nei nostri habitat sia lavorativi che domestici, tanto da diventare un’abitudine. La consultiamo per chiedere informazioni, per trovare il tono giusto in una mail, per farci spiegare un concetto in modo personalizzato, per mettere ordine in un testo, per pianificare un viaggio, per creare una checklist prima di una riunione, per capire cosa chiedere al medico, per riflettere su un dilemma personale.
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L’IA entra nelle abitudini quotidiane
Non si tratta più di “giocare” con un nuovo strumento, ma si tratta ormai di spostare una parte della nostra interpretazione del mondo su un interlocutore artificiale che però parla il nostro linguaggio, ricorda il contesto, prova a essere empatico e, soprattutto, risponde subito.
In aggiunta, i fatti dimostrano un’ottima sinergia quotidiana fra uno strumento conversazionale e le nostre micro-esigenze, in cui l’interfaccia in chat riduce “l’attrito”, la possibilità di riformulare all’infinito “sintonizza” la risposta sul nostro contesto, i toni amichevoli – contrariamente a quanto avviene “fuori casa” – abbassano l’ansia da prestazione. Nasce così una nuova normalità: non apriamo un manuale, chiediamo; non leggiamo cinque pagine prima di capire, ci facciamo riassumere; non scriviamo da zero, facciamo generare il testo all’AI e poi “aggiustiamo”, e così via.
Pertanto, il fatto che l’uso personale sia diventato prevalente non è solo una curiosità statistica, ma un vero e proprio punto di svolta. Significa che i segnali di uso quotidiano—le domande, le preferenze di stile, la soddisfazione per una risposta veloce e amichevole—iniziano a plasmare lo sviluppo stesso dei modelli, come, ad esempio, l’allineamento comportamentale, le metriche con cui si valuta la qualità, le interfacce e le policy.
Se la maggioranza delle persone utilizza un Large Language Model per questioni non lavorative, è naturale che i modelli tendano a diventare bravissimi a fare proprio quello. Ma sia le singole persone che la società stessa chiedono naturalmente ben altro: consistenza dei risultati, rigore nelle risposte, trasparenza sulle fonti, protezione dei minori, rispetto del copyright, affidabilità quando la posta in gioco è alta, e così via. È qui che si gioca la partita: tenere insieme accessibilità e robustezza.
Segnali sociali che diventano leve tecniche
Il fenomeno che si sta manifestando con tutta evidenza è che le interazioni sociali tendono a diventare anche leve tecniche: nonostante difatti i large language model (LLM) siano preaddestrati in modo “generalista”, anche quando le singole chat non vengono usate nei dataset di addestramento, l’insieme delle interazioni “personali” influenza roadmap, sistemi di preferenze (come il reinforcement learning from human feedback o RLHF), guardrail di sicurezza e scelte di User Experience/UX. In altre parole, se ciò che “piace” è una risposta sintetica, confidenziale e pronta all’uso, è verosimile che i modelli diventino sempre più bravi a dare proprio quel tipo di risposta.
C’è dunque un nuovo equilibrio da cercare. Nessuno vuole interrompere la “magia” di un assistente sempre disponibile. Ma sarebbe un grosso errore accettare che la “comodità conversazionale” diventi la bussola principale – o peggio ancora, l’unica – della qualità.
In questo contesto, viene spontaneo pensare a due domande chiave: quali rischi specifici genera l’uso personale intensivo? Quali misure si possono adottare—da parte di utenti, provider e istituzioni—per mitigarli davvero?
Privacy e inferenze nel contesto personale
L’uso personale intensivo genera e/o amplifica, rispetto all’uso “generalista” sui cui i LLM sono stati preaddestrati, una gran varietà di rischi, e questo a livello sia individuale che di sistema.
Non solo ciò che si dice, ma anche ciò che si può dedurre
Nel privato raccontiamo molto più che in ambiente lavorativo: ad esempio, utilizziamo esempi dal nostro vissuto, accenniamo a relazioni familiari, condividiamo aspetti e/o problemi personali di salute, di vita, economici e, più in generale, privati.
Anche quando un provider non utilizzasse direttamente le chat per l’addestramento, restano in gioco problematiche di conservazione, anonimizzazione, uso secondario, registrazione. Inoltre, la privacy moderna non riguarda soltanto i dati che inseriamo, ma anche le inferenze che si possono trarre incrociando più indizi: ad esempio, orari, abitudini linguistiche e non, interessi ripetuti, frammenti di contesto.
In definitiva, con l’uso quotidiano, l’effetto è cumulativo: si può essere prudenti una volta, distratti la seconda, frettolosi la terza, e il risultato non è sempre facile da rimediare. Per questo servono, ad esempio, meccanismi di opt-out (opzioni di non-inclusione) chiari, data retention (conservazione di dati) minime, una trasparenza comprensibile (e non solo giuridicamente corretta!), e modalità ad “alto anonimato” per conversazioni particolarmente sensibili.
Sicurezza domestica e prompt injection
La casa è un “sistema di sistemi” e di dispositivi: smartphone, laptop condivisi, cloud personali, domotica, assistenti vocali, app e plugin che interagiscono con i LLM. È un contesto ricco, ma caratterizzato da permessi e configurazioni eterogenee, e, in generale, poco protetto. In questo ambiente, una semplice prompt injection — un’istruzione camuffata in una stringa apparentemente innocua, magari copiata da una pagina web — può indurre il sistema a seguire comandi indesiderati, a rivelare pezzi di conversazione, a interagire con file o calendari in modo non previsto.
La risposta non può essere solo “stiamo attenti/e”, ma serve una difesa stratificata: sandbox (ambienti isolati e controllati) degli strumenti, permessi granulari e revocabili, “dry-run” (simulazioni preventive) prima di eseguire azioni, “log” (registri degli eventi) leggibili e accessibili, e “undo” (possibilità di annullamento) universali. E sì, anche “attriti positivi”, ovvero messaggi che spingano l’utente a rivalutare l’azione quando il rischio aumenta.
Disinformazione, plausibilità e standard di provenienza
Gli LLM eccellono nella forma – coerenza, ritmo, tono –, il che è certamente un loro punto di forza, basta però che ci ricordiamo che… la forma non garantisce la verità. Nelle ricerche veloci, nelle autodiagnosi e autoterapie “leggere”, nella scuola, nella richiesta di testi da copiare e incollare, la plausibilità può somigliare pericolosamente alla credibilità.
Se poi immagini, audio e video sintetici si mescolano al flusso dei contenuti, la distinzione tra vero, verosimile e falso diventa una vera e propria nuova competenza da imparare.
Gli standard di “provenance” (provenienza), ad esempio quelli di Content Provenance and Authenticity-C2PA, ci potrebbero certamente aiutare, ma la loro adozione è a tutt’oggi disomogenea e frammentata: servono strumenti da integrare nelle piattaforme, e serve soprattutto rendere abituali comportamenti come chiedere le fonti, esigere le date, preferire fonti affidabili, in particolare quando il tutto è di supporto a decisioni che contano.
Dipendenza cognitiva e delega eccessiva all’intelligenza artificiale
Delegare compiti più o meno complessi e/o ripetitivi può essere sensato ed efficiente, ma delegare tutto può essere molto rischioso.
Con l’uso intensivo, l’intelligenza artificiale può diventare il nostro blocco degli appunti, correttore, riassuntore, suggeritore, consulente, argomentatore di fiducia, persino confidente: il tutto può essere comodo, vista anche la disponibilità costante degli LLM, ma può rapidamente erodere delle nostre capacità cognitive fondamentali, come definire un problema, costruire una scaletta, selezionare evidenze, rilevare una contraddizione o un’argomentazione debole, tutte competenze che invece hanno bisogno di essere continuamente allenate.
Se a breve termine sembriamo pertanto più efficienti, a lungo termine rischiamo di essere meno autonomi e competenti. La risposta non è ovviamente drastico/moralistica (“facciamo tutto da soli/e”), ma va in una direzione anche di “augmentation”, e non solo di “automation”, utilizzando quindi l’intelligenza artificiale anche come specchio e palestra, non solo come stampella perenne, e soprattutto, non rinunciando mai alla relazione e al confronto con altre persone.
Imparare “con” l’intelligenza artificiale, non solo dall’intelligenza artificiale
Nell’apprendimento, l’intelligenza artificiale è una tentazione potente: accelera la stesura, “pulisce” il testo, propone scalette ordinate. Ma un buon percorso formativo non è soltanto risultato, è soprattutto processo: fatica, tentativi ed errori, rielaborazioni, fino a trasformare le informazioni in competenza.
Se l’IA sostituisce il discente, anziché assisterlo, la curva di apprendimento si appiattisce: il prodotto finale può sembrare migliore, ma il processo cognitivo resta povero, la conoscenza non migliora, e ovviamente neanche la competenza. Un modo pratico per evitare questa trappola è progettare compiti e valutazioni che mettano al centro come si arriva al risultato.
Per esempio: richiedere un process portfolio (portfolio di processo) con bozze intermedie, annotazioni, scelte lessicali motivate, versioni successive; valorizzare la metacognizione con brevi note riflessive, tipo “Cosa ho capito? Dove mi sono bloccato? Come l’intelligenza artificiale mi ha aiutato?”; fare valutazioni “per” l’apprendimento, non solo valutazioni dell’apprendimento; usare strutture didattiche in cui l’intelligenza artificiale suggerisce piste e domande, ma il discente prende decisioni e giustifica le scelte; applicare pratiche che potenzino la memoria a lungo termine, come pratiche del recupero (retrieval practice), di ripetizione dilazionata (spaced repetition), di alternanza degli argomenti (interleaving); proporre pratiche di “productive failure” (fallimento produttivo), in cui prima si tenta, poi si confronta con un modello o con l’intelligenza artificiale, per capire perché certe soluzioni funzionano; infine, integrare strumenti di analisi dell’apprendimento (learning analytics) per osservare tempi, revisioni, difficoltà e calibrare le attività.
La logica è sempre la stessa: imparare con l’intelligenza artificiale significa esplicitare il processo e lasciare al discente la regia cognitiva, attribuendo all’intelligenza artificiale stessa il ruolo di un tutor socratico che stimola domande e guida all’auto-correzione, non quello di un “sostituto” che sia un generatore di compiti finiti.
Proprietà intellettuale tra trasformazione e violazione
Nell’uso personale capita spesso di “incollare” un testo trovato online e chiedere all’IA una riformulazione. Ma non ogni riformulazione è automaticamente lecita: il confine tra uso trasformativo (transformative use) e opera derivata (derivative work) che viola diritti è sottile e dipende dal contesto giuridico.
In ordinamenti di common law si parla di “uso equo” (fair use), mentre in Europa si usano eccezioni e limitazioni al diritto d’autore. Qualche criterio orientativo – non comunque sostitutivo di una consulenza legale!) potrebbe includere: trasformatività sostanziale, in cui ci si domanda ad esempio se l’output aggiunga del nuovo contenuto, oppure sia solo una parafrasi “cosmetica” di testi altrui; quantità e qualità della parte riutilizzata (anche piccoli estratti potrebbero infatti essere sensibili se rappresentano il “cuore creativo” dell’opera); scopo e contesto, in quanto annotazioni critiche e didattiche possono certamente essere più difendibili di usi commerciali; impatto sul mercato, per verificare che l’uso non sottragga valore all’opera originale. Sul versante dei modelli crescono le richieste di trasparenza dei dataset (dataset transparency) e di rispetto del copyright.
Per chi usa l’intelligenza artificiale, valgono tre buone pratiche: citare bene, indicando le fonti originali e, dove possibile, inserire link ai documenti primari; chiedere all’intelligenza artificiale di citare le basi delle sue risposte, citando testi e pagine, e segnalando licenze (es. Creative Commons), ovviamente se note; controllare lo status delle fonti, se di pubblico dominio, o se licenze aperte, oppure se sono presenti restrizioni.
Bias di preferenza e sycophancy (adulazione compiacente): l’assistente che non contraddice mai
Per sycophancy si intende la tendenza del Large Language Model a assecondare l’utente per massimizzare la soddisfazione, anche quando la risposta corretta sarebbe: “non lo so”, “dipende”, o “serve una fonte”, e la radice è spesso insita nei segnali di apprendimento per rinforzo da feedback umano (Reinforcement Learning from Human Feedback – RLHF): se gli utenti premiano risposte brevi, calde, rassicuranti, il modello di ricompensa (reward model) viene addestrato in base al principio che compiacere paga – il tutto probabilmente contribuisce sostanzialmente al grande successo dell’utilizzo personale dei LLM.
Un pesante possibile effetto di tutto questo può essere la presenza di effetti collaterali, con riduzione del contraddittorio (il modello evita di mettere in discussione assunti sbagliati), eccesso di sicurezza anche in assenza di prove, uniformazione dello stile a scapito dell’accuratezza. In certi contesti l’assistente dovrebbe mettere in guardia, sospendere il giudizio, chiedere prove, e l’equilibrio fra utilità percepita e verità sostenuta da evidenze andrebbe cercato con policy, dataset e interfacce che premino anche l’onestà di dire “non lo so” o “controlla qui”. L’utente, invece, dovrebbe sempre pretendere onestà epistemica, chiedendo, ad esempio: “Su quali fonti ti basi?” e “Quanto è attendibile questa risposta?”.
Autofagia dei dati e impoverimento informativo
Per self-consumption si intende il fenomeno per cui contenuti generati dall’intelligenza artificiale rientrano nei cicli di addestramento di nuovi modelli, producendo ricircolo di stile, omologazione e, talvolta, errori che si auto-propagano. Nel lungo periodo, questo può ridurre la diversità informativa e la ricchezza lessicale, portando a una sorta di “collapse to the mean” (collasso verso la media). Per gli utenti è necessario mantenere una “dieta informativa” fatta di atti, norme, paper scientifici, manuali, e chiedere all’intelligenza artificiale di fornire i link a questi materiali. Per i provider sarebbe necessario indicare quando una risposta è sostenuta da recupero di fonti rispetto a semplice predizione linguistica – effettuata peraltro puramente su basi statistiche.
Il tono che influenza la percezione di verità
Un modello può sembrare molto sicuro anche quando non lo è, il che è un problema retorico prima ancora che tecnico: il tono influenza la percezione della verità. In domini come salute, finanza personale, scelte legali di base, ma, più in generale, in tantissimi aspetti privati questo effetto è cruciale. Le interfacce possono fare la loro parte (mostrando i limiti o la confidenza), ma serve anche un’educazione dell’utente a distinguere la forma dalla sostanza.
Governance familiare per un uso consapevole
Chi usa cosa, quando e per fare che cosa? Sembra una domanda da poco, ma in pratica quasi nessuna famiglia ha una policy domestica sull’intelligenza artificiale. Eppure basterebbero poche regole: profili separati per minori, argomenti off-limits, orari intelligenti, revisioni periodiche delle impostazioni di privacy e dei permessi concessi a plugin e strumenti collegati. L’uso “domestico” dell’intelligenza artificiale richiede una governance sobria, ma reale, e queste misure non “ingessano” l’uso, ma lo rendono chiaro. In casa, come a scuola, l’obiettivo è abilitare senza banalizzare i rischi.
Azioni concrete per cittadini e famiglie
Possiamo articolare le misure che sarebbero necessarie in tre livelli.
Cittadini e famiglie: piccole abitudini, grande impatto
Il primo strato è comportamentale: ridurre i dati sensibili in chat; usare “placeholder” (marcatori/sinonimi) per nomi, indirizzi, codici; chiedere fonti e date per i passaggi che contano; fare verifiche incrociate rapide su almeno due fonti indipendenti quando la decisione ha un costo (anche solo in termini di tempo e/o reputazione); evitare di aprire link opachi o di eseguire istruzioni incomprensibili; cancellare periodicamente conversazioni che contengono informazioni delicate; attivare controlli genitori e profili separati per i minori.
E introdurre intenzionalmente attriti utili per combattere l’overreliance: ad esempio prevedere una attività al giorno senza intelligenza artificiale, una revisione a campione con documenti primari, una “domanda rovesciata” (cosa potrebbe non tornare in questa risposta?).
Provider: privacy by design, provenance by default, difese contro le manipolazioni
Sul lato tecnologico, le priorità sono chiare: privacy by design/default, con modalità “alto anonimato” per conversazioni sensibili, metadati ridotti, retention breve, opzioni di opt-out chiare; anti-prompt-injection, con sandbox degli strumenti, parser di istruzioni che isolano i comandi, whitelist di azioni consentite, “no auto-execution” per attività che impattano file, account o dispositivi; provenance integrata, con marcatura e verifica dell’origine dei contenuti (ad esempio, con esportazioni di Content Credentials), indicatori chiari quando si usano fonti esterne, suggerimenti automatici di almeno due fonti primarie quando la materia è sensibile; User Interface (UI) a prova di overreliance, con inviti al fact-check, distinzione visiva tra fatti e opinioni, possibilità di chiedere il grado di confidenza e i limiti della risposta; pipeline dati contro l’autofagia, con filtri per contenuto sintetico (anche con euristiche e modelli dedicati), deduplicazione severa, priorità a archivi primari e dataset verificati; set di valutazione duali (per uso sia personale che professionale) per evitare che la “comodità” diventi l’unico faro.
Istituzioni, scuole, Pubblica Amministrazione e imprese: dal principio all’attuazione
Naturalmente bisognerebbe applicare gli standard, che certamente non servono se restano sulla carta. L’AI Act fissa una cornice cogente per modelli generali: trasparenza, sicurezza, gestione del rischio, tutela del copyright; il NIST AI RMF fornisce processi e pratiche; la ISO/IEC 42001 propone un AI Management System integrabile con le norme su sicurezza e privacy (ISO 27001/27701), utile anche per PA, scuole e PMI. Nell’istruzione e nella formazione, le linee guida dovrebbero riconoscere l’intelligenza artificiale come strumento assistivo (non sostitutivo), chiedere traccia del processo e citazioni verificabili, e sviluppare alfabetizzazione su provenienza e bias. Nella PA e nelle imprese, requisiti di gara e policy interne dovrebbero premiare provenance, auditability, log e robustezza di interfacce e processi.
Un patto operativo per utilizzare tanto e bene
Probabilmente basterebbe un semplice patto operativo fatto da bune pratiche…
Per chi utilizza. Tratta l’intelligenza artificiale come un assistente che ti aiuta a pensare, non come un oracolo che pensa al posto tuo; chiedi fonti e date quando conta; evita di consegnare all’intelligenza artificiale ciò che non affideresti a uno sconosciuto (dati su identità, salute, finanza); se hai figli, spiega il perché delle regole; crea rituali (ad esempio, un risultato a settimana con traccia del processo, un confronto con un’altra persona, una scaletta costruita a mano).
Per chi progetta, realizza, e mette in esercizio. Progetta interfacce che rendano facile fare la cosa giusta (verificare) e scomoda fare la cosa sbagliata (eseguire istruzioni opache). Esponi limiti e grado di confidenza; offri due fonti quando serve; predefinisci no auto-execution per azioni rischiose; spiega con testi brevi e chiari perché a volte il modello dice “no”.
Per chi fa parte della governance. Trasforma principi in requisiti verificabili e in strumenti didattici. Nella formazione e nell’istruzione, crea spazi di pratica assistita; nella Pubblica Amministrazione, premia nelle gare provenance, auditability, trasparenza, tracciabilità, la presenza di AI Management System; nelle imprese, costruisci policy positive (che abilitano) più che divieti generici (che spingono verso l’incertezza).
In generale, l’obiettivo non è evidentemente quello di frenare l’utilizzo, ma quello di farlo maturare.
Costruire sul presente con consapevolezza
L’uso personale dei Large Language Model non è un’anomalia da correggere: è il presente su cui costruire. È la via con cui l’intelligenza artificiale diventa competenza diffusa, patrimonio comune, strumento di espressione e apprendimento. Ma la sua forza, la sua comodità, la sua immediatezza, il suo tono confidenziale e personalizzato sono anche i suoi banchi di prova: senza contromisure tecniche e culturali, rischia di diventare un vicolo cieco fatto di contenuti autoreferenziali, dipendenze cognitive e scelte sbilanciate verso la piacevolezza.
La buona notizia è che sappiamo cosa fare. Sappiamo come progettare interfacce che suggeriscono verifica e prudenza senza rovinare l’esperienza. Sappiamo creare pipeline dati che evitano l’autofagia e valorizzano le fonti primarie. Sappiamo scrivere regole che non restano sulla carta e pratiche didattiche che valorizzano il processo. Sappiamo, soprattutto, che la qualità dell’intelligenza artificiale dipende anche da noi: dalle domande che poniamo, dai feedback che lasciamo, dalle abitudini che coltiviamo.
“Utilizzare tanto, ma utilizzare bene” può essere uno slogan rassicurante, ma anche un programma operativo, che richiede piccole scelte ripetute per gli utenti, decisioni di design coraggiose per i provider e politiche adeguate per i management nei vari settori. Se lo abbracciamo, avremo modelli più utili e più affidabili, e una cittadinanza digitale più consapevole. Se lo trascuriamo, avremo strumenti sempre più comodi ma progressivamente meno ancorati alla realtà.
La differenza, come spesso accade quando si tratta di tecnologia che conta, la fa la cultura: il modo in cui un Paese, una scuola, un’organizzazione, una famiglia decide di usare ciò che ha in mano. L’intelligenza artificiale non richiede fede, ma attenzione, criterio e responsabilità. E se forse glieli diamo, ci restituirà non solo risposte più utili, ma anche una società più capace di convivere con l’intelligenza — sia umana che cosiddetta “artificiale” — che la abita.












