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Gdpr, 7 anni dopo: cosa funziona e cosa resta incompiuto



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Dalla centralità del DPO alla sicurezza IT, dalla gestione dei data breach alla minimizzazione dei dati e alla portabilità: cosa funziona davvero e dove l’approccio risk-based resta ancora incompleto

Pubblicato il 10 nov 2025



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Sono passati sette anni dall’entrata in vigore del GDPR. Sette anni in cui aziende, professionisti e istituzioni hanno dovuto fare i conti con una delle normative più discusse e impattanti sul tema dei dati personali. Dopo tutto questo tempo, possiamo dirlo: il GDPR non è più “nuovo”.

È diventato parte della quotidianità, e per questo vale la pena fermarsi e chiedersi: cosa ha davvero funzionato? E cosa invece resta un obiettivo ancora lontano?

Governance, sicurezza e fiducia: i risultati concreti del GDPR

Un primo effetto positivo riguarda la governance dei dati. Spinte dal rischio di sanzioni e dalla necessità di mostrarsi affidabili, molte aziende hanno investito nella struttura interna. La figura del DPO si è consolidata, diventando un vero e proprio punto di riferimento: interlocutore per le autorità, guida per le imprese, garanzia per i cittadini. In tanti casi questo ha significato maggiore chiarezza sui processi e una mappatura dei dati più accurata di quanto non fosse mai successo prima.

A questo si aggiunge una maggiore consapevolezza strategica: la gestione dei dati non è più vista come un onere amministrativo, ma come un asset competitivo. Le imprese più lungimiranti hanno compreso che un trattamento trasparente e responsabile rafforza la fiducia dei clienti e migliora la reputazione sul mercato. Non a caso, sempre più bandi, gare pubbliche e partnership richiedono oggi di dimostrare la conformità al GDPR come requisito di qualità e affidabilità.

Un altro aspetto in cui il GDPR ha lasciato il segno è la sicurezza informatica. Pur non essendo una legge nata per la cyber security, il regolamento ha reso la protezione dei dati una priorità. Infrastrutture più sicure, misure tecniche più robuste e investimenti dedicati sono diventati realtà per molte organizzazioni. In sostanza, il GDPR ha dato una spinta a un settore che, in troppi contesti, era stato trascurato.

Le aziende più strutturate hanno introdotto procedure di risk assessment periodico, adottato standard internazionali come l’ISO/IEC 27001 e formato il personale sui comportamenti corretti da tenere in caso di attacchi informatici. Anche nelle PMI si nota un salto di qualità: firewall aggiornati, backup regolari, controlli sugli accessi e policy più chiare sull’uso degli strumenti digitali. In un contesto in cui gli incidenti informatici crescono di anno in anno, il GDPR ha avuto un effetto educativo di portata notevole.

La cultura della risposta agli incidenti di sicurezza

Infine, la gestione dei data breach. Oggi non è più pensabile ignorare o nascondere un incidente di sicurezza. Le aziende hanno imparato a strutturarsi, a definire procedure di notifica e a reagire con maggiore rapidità. È vero: la legge lo impone, ma la spinta più forte arriva soprattutto dalla necessità di difendere tanto l’interessato quanto la propria immagine.

Nel tempo, si è affermata una vera cultura della risposta: molte organizzazioni hanno definito piani di risposta agli incidenti, creato team che si parlano tra loro e imparato a comunicare in modo tempestivo e trasparente con le autorità e con gli utenti. Questo approccio ha ridotto le risposte di pancia e l’improvvisazione tipici dei primi anni di applicazione e ha reso più chiaro che la sicurezza non è mai assoluta, ma si misura nella capacità di reagire in modo efficace.

Minimizzazione e portabilità: le promesse ancora disattese

Nonostante questi progressi, ci sono ambiti in cui il GDPR non ha ancora prodotto i risultati sperati. Uno su tutti: la minimizzazione dei dati. Molte aziende raccolgono ancora più informazioni del necessario, spesso senza una finalità chiara, o al di là della finalità stessa. È una prassi che va contro uno dei principi fondamentali del regolamento, e che dimostra come il cambio culturale non sia ancora compiuto.

In alcuni settori, come il marketing digitale o l’e-commerce, la tentazione di raccogliere “più dati possibili” resta forte. Profilazioni dettagliate, cookie non essenziali, tracciamenti incrociati e sistemi di analisi predittiva spesso vanno oltre ciò che l’utente si aspetta o comprende. La logica del dato come merce è ancora presente, e serve un deciso passo avanti verso una cultura della minimizzazione informativa, che metta davvero al centro la finalità, la necessità e la proporzionalità.

Un’altra grande promessa rimasta in sospeso è la portabilità dei dati. In teoria, ogni utente dovrebbe poter ricevere i propri dati in un formato strutturato e trasferirli facilmente a un altro fornitore. Nella pratica, questo diritto è ancora poco applicato: troppi ostacoli tecnici, poca interoperabilità e un livello di complessità che scoraggia l’utente finale.

La portabilità, però, rappresenta una delle chiavi per favorire la concorrenza e l’innovazione digitale. Se applicata davvero, consentirebbe di passare da un servizio all’altro senza perdere la propria storia digitale, promuovendo ecosistemi più aperti e trasparenti. Tuttavia, la mancanza di standard condivisi e la resistenza delle grandi piattaforme a rendere i dati facilmente trasferibili ne hanno limitato fortemente l’impatto.

L’approccio risk-based e le sfide dell’innovazione tecnologica

E poi c’è il tema più delicato: l’approccio basato sul rischio. Il GDPR chiede alle organizzazioni di modulare misure e controlli in base ai rischi reali per i diritti e le libertà degli interessati. Ma spesso questo principio viene tradotto male. C’è chi si limita a un approccio formale, fatto di adempimenti burocratici che danno l’illusione di essere conformi, ma senza affrontare i rischi concreti. E c’è chi adotta un approccio troppo tecnico, puntando tutto su soluzioni IT e trascurando la dimensione organizzativa, la formazione del personale o la revisione dei processi. In entrambi i casi, il risultato è lo stesso: un GDPR applicato a metà.

A complicare il quadro, la rapida evoluzione tecnologica – dall’intelligenza artificiale ai big data, fino alle piattaforme di machine learning – impone nuove valutazioni di impatto e ridefinisce continuamente i concetti di rischio e proporzionalità. In questo contesto, serve una interpretazione dinamica e pragmatica del GDPR, capace di adattarsi senza snaturare i suoi principi fondanti.

V\erso una vera cultura della protezione dei dati

Un bilancio dopo sette anni di GDPR? Bene, ma non benissimo. Il GDPR ha certamente migliorato il livello medio di attenzione alla privacy e alla sicurezza, ma la sua piena attuazione richiede ancora un cambio di mentalità. Non basta avere procedure, policy e documenti: serve una vera cultura della protezione dei dati, che sappia bilanciare tecnologia, organizzazione e consapevolezza delle persone.

Il regolamento ha acceso i riflettori. Ora spetta a imprese e istituzioni fare in modo che questa luce non sia mero specchietto per le allodole, ma illumini davvero volontà e azioni nel modo in cui i dati vengono gestiti, protetti e rispettati.

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