L’hardware neuromorfico è considerata delle frontiere più promettenti per risolvere il paradosso energetico dell’intelligenza artificiale: consumare meno per elaborare meglio, ispirandosi direttamente al funzionamento del cervello umano.
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L’intelligenza artificiale e il suo insostenibile consumo energetico
L’intelligenza artificiale è spesso raccontata come una tecnologia “immateriale”, ma la sua fame di energia è molto concreta. Nel 2024, i data center che supportano l’AI hanno consumato circa 415 terawattora (TWh), pari all’1,5% del consumo mondiale. Entro il 2030, si prevede che questa cifra possa più che raddoppiare, superando il consumo annuo del Giappone. Modelli come GPT-4 richiedono settimane di addestramento su migliaia di GPU, con impatti ambientali notevoli. Ma è l’uso quotidiano e massivo – le richieste in tempo reale, i chatbot, gli assistenti vocali – a generare il carico energetico più stabile e duraturo. A questo si somma l’enorme fabbisogno d’acqua per il raffreddamento dei server: per ogni kilowattora consumato, servono fino a 2 litri d’acqua per mantenere le macchine a temperatura. La contraddizione è evidente: l’AI, nata per ottimizzare, rischia di diventare essa stessa inefficiente. Questo quadro è già stato ampiamente delineato a livello teorico e divulgativo ma, ahimé, non è ancora entrato nell’immaginario degli utenti quotidiani i quali, troppo immersi negli aspetti quasi magici di questa tecnologia, si lamentano se una risposta a una domanda banale arriva con qualche secondo di troppo.
Quanto costa davvero una richiesta ai sistemi di intelligenza artificiale
Dall’altra parte, l’intero di ricerca online, cui ci siamo abituati negli ultimi lustri, sta drasticamente cambiando integrando i nuovi strumenti: nuova energia per nuovi utilizzi, sempre più strettamente interconnessi con le nostre attività di ogni giorno.
Ma quanto pesa, davvero, una singola richiesta all’AI? Secondo analisi tecniche, una domanda posta a un modello come ChatGPT può consumare tra 0,3 e 3 wattora di elettricità. È circa dieci volte l’energia richiesta per una ricerca su Google. In termini di emissioni, si parla di 2–3 grammi di CO₂ per risposta, considerando anche la quota parte dell’energia spesa per l’addestramento. Il dato in sé può sembrare contenuto. Ma moltiplicato per milioni di utenti attivi ogni giorno, e per miliardi di interazioni al mese, l’impronta energetica dell’AI diventa significativa. E con essa, anche quella idrica, silenziosa ma crescente.
Quando l’intelligenza artificiale diventa strumento di efficienza energetica
Eppure, l’AI può anche aiutare a ridurre i consumi. È un paradosso virtuoso: la tecnologia che oggi consuma tanto, domani potrebbe aiutare a consumare meno. Oggi i sistemi AI già ottimizzano ad esempio le reti elettriche, prevedendo picchi di domanda e minimizzando le perdite. Quella che fino a ieri chiamavano domotica, inoltre, sta incontrando sviluppi che potrebbero anche aver bisogno di nuovi nomi – si sa, dare il nome alle cose è il primo passo per crearle – prevedendo edifici intelligenti capaci di adattare in tempo reale riscaldamento, raffrescamento, illuminazione e altre funzioni.
I trasporti e la logistica non sono da meno: dalla manutenzione predittiva alla gestione ottimizzata dei carichi. In mezzo ci sta tutto ciò che per noi oggi è navigazione satellitare e che, in un domani non troppo distante, potrebbe trasformarsi in un sistema interconnesso tra mezzi e infrastrutture (sì, anche il semplice semaforo) con l’obiettivo di perfezionare i percorsi.
Secondo proiezioni ufficiali, l’adozione massiva dell’AI in ambito industriale ed energetico potrebbe ridurre le emissioni globali fino al 5% entro il 2035. L’intelligenza artificiale, se ben governata, può contribuire in modo concreto alla transizione ecologica.
Hardware neuromorfico, quando i chip imitano il cervello umano
Una delle vie per rendere l’AI più sostenibile passa dall’hardware: in particolare, da quello ispirato al cervello umano. Il cervello consuma solo 20 watt per alimentare 86 miliardi di neuroni, gestendo compiti cognitivi di altissima complessità.
Come funzionano i chip neuromorfici e perché sono rivoluzionari
Nessun supercomputer attuale può avvicinarsi a questa efficienza. L’hardware neuromorfico punta a imitarlo. I chip progettati con architetture “a neuroni” e “a sinapsi” replicano le modalità di calcolo cerebrali: elaborazione distribuita, attivazione su evento, integrazione di calcolo e memoria. In questo modo, si riduce enormemente la quantità di energia richiesta.
La differenza è radicale. I neuroni artificiali dei chip neuromorfici si attivano solo quando serve, in modo asincrono, e comunicano tra loro attraverso impulsi elettrici (spike), proprio come accade nel cervello. Alcuni sistemi, come Loihi di Intel o BrainScaleS dell’università di Heidelberg, permettono già l’apprendimento online in tempo reale, senza bisogno di riaddestramenti centralizzati. È l’AI che impara come l’uomo: per esperienza.
I vantaggi concreti dell’hardware neuromorfico per l’AI sostenibile
I vantaggi? Consumi energetici fino a 1000 volte inferiori rispetto a GPU tradizionali, latenza ridotta, possibilità di portare l’intelligenza sul campo – dentro sensori, droni, wearable – senza appoggiarsi a un data center. Progetti come Hala Point di Intel (con oltre un miliardo di neuroni simulati) o NorthPole di IBM dimostrano che anche modelli complessi possono girare su hardware neuromorfico con una frazione dell’energia. Il messaggio è chiaro: ispirarsi alla biologia non è più solo un esercizio accademico. È un modo per reinventare l’informatica – più leggera, distribuita, adattiva –
Sfide e prospettive future dell’hardware bio-ispirato
e per costruire un’intelligenza artificiale che non solo pensi, ma risparmi. Perché la vera intelligenza, oggi, è quella che consuma meno per fare di più. Opportunità (e rischi) di un’intelligenza bio-ispirata
L’hardware neuromorfico promette un salto tecnologico non solo in termini di prestazioni, ma anche di impatto ambientale. Tuttavia, la strada è ancora lunga e piena di incognite. La rivoluzione, insomma, è solo all’inizio. Manca uno standard condiviso, i tool di programmazione sono ancora acerbi e i costi restano alti e, con essi, il trasporto del digital divide.
Inoltre, i chip neuromorfici sono oggi limitati a compiti specifici: riconoscimento, classificazione, apprendimento sparso. Per i grandi modelli di linguaggio o la generazione testuale, servono ancora anni di ricerca. Ma qualcosa sta cambiando: startup come BrainChip, SynSense o Innatera stanno portando chip neuromorfici in dispositivi edge da pochi milliwatt, rendendo questa tecnologia più concreta che teorica. Ci siamo abituati, negli ultimi anni, a una tecnologia che corre decisamente più veloce di quanto si possa anche solo immaginare, dunque è facile immaginare che le novità non siamo poi così lontane dal venire.
Sostenibilità e innovazione, il futuro necessario dell’intelligenza artificiale
L’AI, insomma, è una straordinaria tecnologia che obbliga a individuarne di nuove: è uno sviluppo che si auto-alimenta continuamente. Se continuerà a crescere senza limiti con le modalità attuali, il costo ambientale potrebbe diventare insostenibile. Parallelamente, anche le funzionalità potrebbero a un certo punto fermarsi a un livello che, sebbene molto avanzato, risulterebbe statico.
La capacità di ispirarsi alla natura, sfruttare nuove architetture e migliorare se stessa, potrà essere una delle leve più potenti della sostenibilità globale, ma anche di un rilancio tecnologico importante in termini di prospettive ed utilizzi. In fondo, la vera intelligenza – naturale o artificiale che sia – si misura nella capacità di adattarsi. Innovare, sì. Ma senza bruciare il pianeta.












