La digitalizzazione dei servizi pubblici rappresenta un progresso fondamentale, ma senza adeguato supporto rischia di ampliare le disuguaglianze. La facilitazione digitale emerge come strumento essenziale per garantire accesso, inclusione e pari opportunità, trasformando i servizi in veri diritti di cittadinanza.
“Non servono software. Non bastano app. Qui manca la grammatica stessa dell’umanità”. Così scrive Nando Calaciura in un reportage sull’Anagrafe di Palermo, pubblicato sul quotidiano La Repubblica del 27 luglio scorso.
È un racconto che non parla solo di una città, ma di un Paese intero che fatica a riconoscere i diritti digitali come diritti di cittadinanza.
Dietro ogni disservizio, dietro ogni sportello disorientante, c’è una fragilità spesso invisibile: la mancanza di competenze digitali, che per molti cittadini significa esclusione dai servizi pubblici, dai diritti e dalla partecipazione.
Indice degli argomenti
Progresso tecnologico e divari nelle competenze
L’Italia ha compiuto progressi significativi nella digitalizzazione delle infrastrutture e dei servizi pubblici: secondo il Digital Decade 2025 Country Report, il punteggio dei servizi digitali per i cittadini ha raggiunto 83,6 su 100, e l’eHealth è tra le più avanzate in Europa (84,1). Ma a questo avanzamento tecnologico non corrisponde una crescita uniforme nelle competenze.
Solo il 45,8% degli italiani possiede competenze digitali di base (Ue 55,6%), con punte ancora più basse tra le persone con basso livello di istruzione (22,6%), le donne anziane e gli abitanti delle aree rurali. Anche tra i giovani (16-19 anni), l’Italia è sotto la media Ue (59% contro 70%).
L’esclusione dai diritti fondamentali
Chi non ha accesso a internet, non usa lo Spid, non sa leggere una Pec o usare l’app IO, si trova tagliato fuori da diritti fondamentali: sanità, identità digitale, bonus, iscrizioni scolastiche, cambio di residenza, certificati, servizi fiscali. Il divario digitale non è più solo un problema di infrastrutture, ma di relazione tra istituzioni e persone.
Il racconto di Calaciura mostra come accedere a un servizio diventi una prova di decifrazione, una delega costante a figure informali, spesso a pagamento, che “sbrigano faccende” per conto di chi non riesce ad accedere direttamente. La mediazione si trasforma in intermediazione, e il diritto in favore.
La rete di facilitazione del PNRR
Per affrontare questo scenario il PNRR ha attivato una rete di oltre 3.000 centri di facilitazione digitale, che hanno già raggiunto 660.000 persone. Sono luoghi dove si costruiscono relazioni di fiducia, si accompagna all’uso dei servizi, si offre formazione pratica e personalizzata.
Non sono sportelli informativi, ma spazi di restituzione di cittadinanza. E non sono “progetti a termine”: devono diventare infrastrutture educative permanenti, capaci di adattarsi ai territori e alle persone.
Questi centri, se adeguatamente sostenuti, possono rappresentare una svolta strutturale, perché agiscono lì dove le app e i portali non bastano: nella dimensione umana della cura, dell’ascolto, del supporto.
Riqualificazione professionale: la proposta del Lazio
È urgente ripensare le professioni coinvolte nell’interazione tra cittadini e servizi digitali. La proposta di legge regionale n. 93 del 6 ottobre 2023 (“Disposizioni per la tutela dei lavoratori penalizzati dall’impiego dei sistemi di intelligenza artificiale”) apre uno spazio concreto: è possibile anticipare gli effetti della sostituzione automatica di ruoli di frontend – ad esempio nei call center pubblici e privati – e trasformare queste figure in facilitatori digitali permanenti.
In particolare, la proposta riguarda i lavoratori dei call center di aziende tecnologiche, tra i soggetti più esposti alla progressiva sostituzione delle attività umane con sistemi di intelligenza artificiale. Il Lazio, che ospita circa 7.400 addetti del settore, pari al 12–14% del totale nazionale (dati dello studio EbiNCall-EconLab), rappresenta un territorio strategico per avviare una sperimentazione concreta di riqualificazione professionale ad alto impatto sociale.
Operatori già esperti di relazione e servizio potrebbero essere accompagnati in un percorso formativo che li renda capaci di operare nei territori, nei centri civici, nei presidi digitali del PNRR. Un investimento doppiamente virtuoso: ridurre la disoccupazione generata dall’automazione e rafforzare la prossimità nei percorsi di cittadinanza digitale.
Una traiettoria perfettamente coerente con quanto indicato nel Manifesto di Asstel per le telecomunicazioni, che nell’articolo 5 (“Lavoro e Competenze”) richiama la necessità di accompagnare le trasformazioni del settore con percorsi di upskilling e reskilling condivisi, sostenibili e incentrati sulle persone.
Sperimentazione pilota: opportunità concreta
La legge regionale del Lazio, pur non ancora attuata, apre una via concreta per valorizzare i lavoratori più esposti all’automazione. Gli operatori di call center potrebbero essere riqualificati come facilitatori all’interno dei Centri di facilitazione digitale regionali.
Si tratterebbe di una misura capace di coniugare formazione, inclusione sociale e innovazione: figure già formate nella comunicazione e nella gestione della relazione potrebbero rafforzare la rete di supporto, aiutando concretamente le persone ad accedere ai propri diritti.
Una sperimentazione pilota in questa direzione potrebbe diventare un modello nazionale replicabile, capace di promuovere coesione sociale, sviluppo digitale e tutela del lavoro.
Superare l’informalità: punti di forza e criticità
Trasformare i lavoratori di call e contact center in facilitatori digitali permanenti significa superare la figura dello “sbrigafaccende” informale, spesso non qualificato, che supplisce a pagamento alle carenze del sistema.
Restituire professionalità e legalità al supporto digitale significa garantire diritti attraverso competenze, ascolto e presa in carico.
Tra i punti di forza spicca la valorizzazione di competenze già presenti: l’esperienza nella gestione del front-end e della relazione con gli utenti.
Riqualificare questi profili consente di prevenire la perdita occupazionale e ridurre le disuguaglianze nell’accesso ai servizi digitali.
Ma ci sono sfide da affrontare: servono risorse per la formazione, inserimento, coordinamento. È necessario un cambiamento culturale, anche da parte delle istituzioni, che dovranno costruire alleanze stabili con soggetti pubblici, privati e del terzo settore.
I percorsi formativi dovranno essere mirati e realistici, per dotare i nuovi facilitatori delle competenze necessarie a fronteggiare la complessità dei bisogni.
In sintesi, questa proposta può trasformare una criticità diffusa in una leva concreta di inclusione e partecipazione. Superare lo “sbrigafaccende” vuol dire riscrivere la grammatica della cittadinanza digitale: una grammatica fatta di ascolto, prossimità e dignità.
Dall’intenzione all’attuazione: evitare la dispersione
Il disegno della legge regionale n. 93/2023 è chiaro: agire in modo preventivo, con strumenti di riconversione e riqualificazione professionale per chi rischia di essere espulso dal mercato del lavoro a causa dell’automazione.
Ma tra intenzione e attuazione esiste un rischio concreto: disperdere le risorse in iniziative frammentate, prive di obiettivi misurabili e non integrate nei sistemi pubblici.
Per questo è fondamentale che la sperimentazione pilota proposta si fondi su una visione sistemica: costruire percorsi professionali concreti, legati alla domanda sociale e ai bisogni dei territori, come quello dei facilitatori digitali.
Formare nuovi professionisti non significa solo offrire corsi, ma creare ecosistemi in grado di accoglierli, sostenerli, valorizzarli.
La sfida non è solo occupazionale: è di coesione sociale, equità e partecipazione democratica.
Il panorama nazionale: prime iniziative regionali
Mi sembra che attualmente la proposta di legge del Lazio sia tra le prime in Italia a prevedere esplicitamente misure di tutela e riconversione per i lavoratori penalizzati dall’intelligenza artificiale.
In altre Regioni si stanno muovendo i primi passi: in Puglia è stata approvata una legge sull’innovazione aperta e l’IA (L.R. 4/2025), mentre in Calabria si discute l’istituzione di un Ufficio regionale per l’IA e un registro dei sistemi affidabili. Non è escluso che, nei prossimi mesi, possano emergere sperimentazioni analoghe anche in altri contesti territoriali.
Verso un approccio sistemico e condiviso
Il problema non è solo tecnico. È culturale, relazionale e politico. I servizi digitali devono essere progettati con attenzione alla user experience, accessibili, comprensibili.
Ma anche le pubbliche amministrazioni devono imparare a “vedere” i cittadini nella loro interezza: non come utenti che falliscono, ma come persone da accompagnare.
Serve una logica ibrida e inclusiva, che combini strumenti digitali, assistenza fisica, formazione civica.
Serve una responsabilità condivisa: tra istituzioni, imprese tecnologiche, enti del terzo settore, presìdi territoriali.
Conclusione: la cittadinanza si esercita, non si scarica
Non basta aprire un servizio online perché tutti vi accedano. È necessario costruire le condizioni di accesso reale.
Le competenze digitali non sono un lusso, ma la grammatica della cittadinanza nel XXI secolo.
I centri di facilitazione digitale possono essere il punto di svolta, ma solo se inseriti in un sistema che li riconosca per ciò che sono: presìdi di democrazia quotidiana.












