Gli stablecoin stanno diventando l’infrastruttura preferita non solo da investitori e innovatori, ma anche da reti criminali, soggetti sanzionati e attori che operano ai margini della legalità internazionale.
Questa evoluzione rappresenta l’ultimo capitolo di una lunga storia di evasione dei controlli finanziari.
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Dal lingotto al token: la nuova cassaforte del denaro sporco
Per decenni, infatti, contrabbandieri, riciclatori di denaro e soggetti colpiti da sanzioni internazionali hanno usato diamanti, oro e opere d’arte come strumenti per accumulare e nascondere fortune illecite.
Questi beni avevano due vantaggi, erano difficili da tracciare in modo sistematico e permettevano di spostare valore al di fuori del circuito bancario. Avevano però anche limiti evidenti, erano ingombranti, rischiosi da trasportare fisicamente e complicati da convertire rapidamente in liquidità spendibile. Oggi, racconta l’inchiesta di Aaron Krolik, esiste un’alternativa molto più pratica: gli stablecoin, criptovalute ancorate al dollaro americano che si muovono su infrastrutture digitali in larga parte esterne alla supervisione finanziaria tradizionale. Questi token possono essere acquistati in cambio di valuta locale, attraversano i confini in pochi secondi, rientrano nel sistema dei pagamenti tradizionali anche attraverso carte di pagamento, spesso sfuggono o indeboliscono i meccanismi di controllo antiriciclaggio pensati per le banche. Il risultato è che ciò che prima richiedeva valigie, intermediari fisici e passaggi opachi tra giurisdizioni, oggi può essere gestito con pochi click.
Cosa sono gli stablecoin e perché attirano criminali e sanzionati
Gli stablecoin sono criptovalute il cui valore è agganciato (“pegged“) a un’attività ritenuta stabile, nella quasi totalità dei casi il dollaro USA. Il più noto è Tether (USDT), seguito da USD Coin (USDC) di Circle e da altri token minori. In teoria la logica è semplice, per ogni unità di stablecoin emessa dovrebbe esistere un corrispondente asset di riserva (tipicamente titoli del Tesoro statunitensi o depositi in dollari). Questo permette di ridurre l’estrema volatilità tipica di altre criptovalute come Bitcoin o Ether e di conseguenza gli stablecoin diventano una sorta di “dollaro digitale” trasferibile 24/7, programmabile, facilmente scambiabile con altre crypto e con denaro tradizionale.
Per chi agisce ai margini o al di fuori della legalità, questo mix di stabilità, liquidità e assenza di controlli bancari diretti è estremamente attraente. L’inchiesta richiama un dato chiave, un rapporto pubblicato a febbraio 2025 da Chainalysis, società di analisi blockchain, stima che fino a 25 miliardi di dollari di transazioni illecite in un solo anno abbiano coinvolto gli stablecoin. In parallelo, sempre più soggetti sanzionati: oligarchi russi, leader dello Stato Islamico, criminali di reti transnazionali, stanno adottando questi token per agganciare la propria operatività al dollaro senza passare per il sistema bancario tradizionale. Qui si gioca una partita geopolitica cruciale: l’egemonia del dollaro non dipende solo dal fatto che la valuta americana sia usata negli scambi globali, ma dal fatto che tali scambi transitino per banche e infrastrutture regolamentate.
Se una parte crescente di quelle transazioni si sposta su binari paralleli gestiti da attori privati e piattaforme offshore, gli strumenti classici della politica estera statunitense, sanzioni, congelamento di fondi, esclusione da SWIFT, perdono efficacia. Come spiega Ari Redbord, ex funzionario del Tesoro americano e oggi responsabile policy di TRM Labs “I soggetti malintenzionati si muovono più velocemente che mai. Sanzioni e altre penalità economiche perdono forza quando è possibile spostare milioni con pochi click.”
Il sistema delle sanzioni prima della rivoluzione crypto
Per decenni il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha costruito un sistema in cui banche, emittenti di carte e società di pagamento sono obbligate a implementare controlli molto stringenti, devono identificare i clienti (KYC – Know Your Customer), monitorare le transazioni (AML – Anti Money Laundering), segnalare attività sospette e chi non rispetta queste regole rischia multe miliardarie e l’esclusione dal sistema. Poiché la maggior parte del commercio internazionale in dollari passa attraverso istituti regolamentati, era estremamente difficile per una persona sanzionata ricevere pagamenti o movimentare capitali rilevanti senza esporsi al rischio di blocchi e sequestri.
La struttura, semplificando, era questa: dollari → banche → infrastrutture di pagamento (Visa, Mastercard, SWIFT) → controlli obbligatori. Con gli stablecoin questa catena può essere aggirata: dollari (o altre valute) → stablecoin → wallet, exchange offshore, piattaforme DeFi → carte prepagate e altri strumenti → spesa nel mondo reale. Tra questi passaggi si inseriscono strati multipli di intermediari, molti dei quali non sono banche e non ricadono nei regimi di vigilanza tradizionali. Il risultato è un sistema in cui il valore resta ancorato al dollaro, ma si muove su infrastrutture parzialmente o totalmente fuori portata delle autorità che presidiano il dollaro stesso.
La rete da un miliardo: acquistare una banca per sostenere la guerra
L’inchiesta del NYT cita un caso emblematico che dà la misura della sofisticazione raggiunta dai network criminali. Alla fine di novembre 2025, il Regno Unito ha arrestato diversi membri di una rete di riciclaggio da un miliardo di dollari che, tra le altre cose, aveva acquistato una banca in Kirghizistan. Il triplice obiettivo: aggirare le sanzioni occidentali, facilitare pagamenti destinati a sostenere lo sforzo bellico russo e trasformare capitali illeciti (provenienti da droga, armi, tratta di esseri umani) in Tether (USDT), lo stablecoin più utilizzato.
La National Crime Agency (NCA) britannica ha descritto così il meccanismo: “Questi scambi ‘cash to crypto‘ sono una parte integrante di un ecosistema criminale globale.” Il passaggio cruciale è proprio quel da contante a crypto, una volta che il denaro è stato convertito in stablecoin, può viaggiare rapidamente verso giurisdizioni compiacenti o piattaforme fuori controllo, per poi rientrare sotto forma di carte, acquisti o investimenti apparentemente legittimi.
L’esperimento del giornalista: dal bancomat al pagamento anonimo
Per capire quanto sia semplice aggirare, in concreto, il sistema bancario tradizionale, Aaron Krolik ha deciso di fare un esperimento in prima persona. Per prima cosa individua un crypto A.T.M. a Weehawken, nel New Jersey, cioè un bancomat che non eroga contanti ma consente di inserire denaro fisico e ricevere in cambio criptovalute. Inserisce due banconote da 20 dollari nel terminale e dopo pochi istanti riceve sul proprio smartphone una notifica: gli stablecoin corrispondenti sono arrivati nel suo wallet digitale. A questo punto il denaro contante è stato trasformato in un token digitale ancorato al dollaro, che vive sulla blockchain. Il passo successivo è capire quanto sia facile riportare questi fondi nel mondo dei pagamenti quotidiani.
Entra in gioco un bot su Telegram, la popolare app di messaggistica, che guida l’autore attraverso la procedura per utilizzare gli stablecoin appena ottenuti per generare una carta Visa di pagamento virtuale. Questa carta funziona in modo simile a una carta di debito, non è collegata a un conto corrente bancario personale, è ricaricata con il saldo in stablecoin e può essere usata concretamente per pagare beni e servizi online o, in alcuni casi, anche offline. Dettaglio fondamentale, per ottenere questa carta non viene richiesto alcun controllo di identità, né un indirizzo fisico, né l’invio di documenti.
Di fatto, si crea un livello di anonimato nell’uso dei fondi che sarebbe inconcepibile nel circuito bancario regolamentato. Eppure, sottolinea Krolik, l’esperimento è perfettamente legale dal punto di vista della normativa statunitense. Le leggi antiriciclaggio (AML) negli USA obbligano le banche a verificare l’identità dei titolari di conto e la provenienza dei fondi prima di rilasciare carte di credito, debito o strumenti di pagamento collegati a conti bancari. Ma nel caso descritto non si interagisce mai direttamente con una banca, si naviga in uno spazio ibrido, fatto di crypto, fintech e circuiti di pagamento, dove ogni passaggio ricade sotto responsabilità regolatorie diverse, spesso non coordinate tra loro.
WantToPay: carte ai russi per aggirare le sanzioni occidentali
Il bot Telegram che ha emesso la carta Visa usata nell’esperimento è gestito da un’azienda chiamata WantToPay. WantToPay si presenta così, è registrata a Hong Kong, è guidata, secondo i registri societari, da un imprenditore russo residente in Thailandia, si rivolge esplicitamente a clienti russi e promette l’emissione immediata di carte Visa e Mastercard ricaricabili tramite stablecoin. Il target sono soprattutto quei cittadini che, a causa delle sanzioni nate dopo l’invasione dell’Ucraina, non possono più utilizzare carte di banche russe per pagare servizi online o effettuare acquisti all’estero.
Nelle proprie comunicazioni, il sito web e il canale Telegram, WantToPay pubblicizza emissione rapida, assenza dei controlli tradizionali di customer due diligence che le banche devono effettuare e possibilità di usare le carte per pagare piattaforme altrimenti inaccessibili. Su forum in lingua russa compaiono centinaia di recensioni di utenti che raccontano di aver usato queste carte per aggirare le restrizioni e pagare servizi come ChatGPT, Netflix e altre piattaforme online oggi non raggiungibili in modo diretto dai consumatori russi.
Reazioni delle istituzioni dopo l’inchiesta giornalistica
L’azienda non ha risposto alle richieste di commento del New York Times. Dopo i contatti da parte del giornale i riferimenti a Visa e Mastercard sono stati rimossi dal sito e sul canale Telegram è apparso un avviso che annuncia la cessazione dell’emissione di carte. Dal lato dei big del pagamento Visa ha dichiarato di disporre di controlli di conformità robusti e di richiedere a clienti e partner il rispetto delle leggi applicabili, aggiungendo di aver aperto un’indagine su WantToPay.
Un portavoce di Mastercard ha ribadito la “tolleranza zero” verso le attività illegali e l’impegno a verificare potenziali violazioni. Un portavoce di Telegram, Devon Spurgeon, ha affermato che la piattaforma rispetta le normative statunitensi in materia di riciclaggio e rimuove contenuti illegali una volta ricevuta conferma. Tutto questo mostra come, in uno scenario fatto di più attori e giurisdizioni, anche quando interviene un soggetto tradizionale (come Visa) la catena di responsabilità resti opaca e frammentata.
La catena degli intermediari: Dock e il banking-as-a-service
L’inchiesta chiarisce che WantToPay era solo uno degli anelli della catena. Approfondendo, Krolik scopre che la carta Visa ottenuta tramite il bot Telegram non era emessa direttamente da WantToPay, ma da un soggetto terzo, una fintech brasiliana chiamata Dock. Dock si posiziona come fornitore di servizi per aziende che vogliono emettere carte di pagamento senza essere banche.
Emette carte Visa e Mastercard conto terzi, si appoggia a banche partner per la parte strettamente regolamentata e si colloca in quel segmento di “Banking-as-a-Service” in cui società tecnologiche offrono infrastrutture per i pagamenti senza essere esse stesse istituti di credito. Dock ha negato qualsiasi rapporto diretto con WantToPay e ha affermato di aver cancellato le carte che riteneva riconducibili ad attività illecite, dichiarando che i propri clienti devono comunque rispettare le procedure di Know Your Customer.
Il problema strutturale della responsabilità nel sistema crypto
Il caso Dock/WantToPay rende visibile un problema di fondo. Da un lato le banche sono soggette a regole stringenti; circuiti come Visa e Mastercard devono presidiare la compliance su scala globale. Dall’altro lato, l’emergere di fintech che offrono emissione carte “chiavi in mano”; aziende registrate in giurisdizioni leggere e soggetti che operano esclusivamente via Telegram, API e piattaforme crypto, creano una catena in cui ogni anello può sostenere di aver delegato ad altri la parte più delicata dei controlli.
L’inchiesta evidenzia che, su Telegram e altrove, è stato possibile individuare almeno 24 società che pubblicizzano carte Visa/Mastercard, le ricaricano tramite stablecoin, promettono vari livelli di anonimato, fissano limiti di spesa fino a 30.000 dollari, risultano incorporate in Paesi come Costa Rica, Malta, Georgia, Kazakistan, Russia, gestiscono iscrizioni e pagamenti attraverso bot automatici, senza contatto umano. Una infrastruttura diffusa, modulare, replicabile. Anche se una singola azienda viene chiusa, il modello può essere ricreato altrove con poche modifiche.
Il GENIUS Act: primo tentativo federale di regolamentazione
Di fronte a questa evoluzione, gli Stati Uniti hanno approvato nel luglio 2025 il GENIUS Act, descritto come la prima grande legge federale sulle criptovalute, in particolare sugli stablecoin.
Gli obiettivi dichiarati sono tre:
- Creare un sistema regolatorio federale per gli stablecoin, definendo quali soggetti possono emetterli e a quali condizioni.
- Stabilire regole per garantire la stabilità finanziaria, ad esempio sugli asset di riserva e sui requisiti di liquidità.
- Introdurre programmi di conformità specificamente pensati per contrastare l’uso di questi strumenti a fini illeciti o per aggirare le sanzioni.
La società Circle, emittente di USD Coin (USDC) e secondo player per dimensioni nel mercato degli stablecoin, ha accolto positivamente la legge, sostenendo che rappresenti un passo avanti nella modernizzazione delle norme antiriciclaggio per l’era digitale. In un’intervista, Dante Disparte, dirigente di Circle, ha sottolineato che l’azienda collabora con le autorità di enforcement ed è pronta a congelare asset quando vengono individuate violazioni. Inoltre, ritiene che la criptovaluta offra agli utenti una “maggiore presunzione di innocenza” rispetto alla finanza tradizionale, in cui spesso il sospetto è incorporato nei meccanismi di controllo preventivo.
Anche Tether, attraverso un portavoce, difende il proprio operato sottolineando che le transazioni su blockchain sono molto più tracciabili del contante, che la maggior parte delle attività illecite avviene nei mercati secondari, al di fuori del loro diretto controllo. Ha dichiarato, inoltre, di lavorare a stretto contatto con autorità di vari Paesi, rivendicando di aver contribuito a congelare oltre 3,4 miliardi di dollari di fondi riconducibili ad attività illegali.
I limiti della legge di fronte alle piattaforme offshore
Nonostante il passo avanti rappresentato dal GENIUS Act, l’inchiesta mette in luce i limiti strutturali dell’intervento. La nuova normativa si applica soprattutto alle piattaforme e agli operatori con base negli Stati Uniti, come ad esempio Coinbase, che devono verificare l’identità dei clienti, monitorare le transazioni e sono obbligati a segnalare movimenti sospetti.
Ma una volta che i fondi sono entrati nel mondo crypto, possono spostarsi verso exchange offshore, transitare su token non regolamentati, fluire in protocolli di finanza decentralizzata (DeFi) e muoversi di wallet in wallet in giurisdizioni dove non esiste un obbligo equivalente di KYC/AML.
In altre parole, l’azione regolatoria è parziale, presidia un tratto del percorso, ma non chiude il cerchio. Il caso più significativo riguarda proprio Tether.
Tether: il gigante offshore del dollaro digitale
Tether è oggi l’emittente di stablecoin più grande al mondo, con oltre 180 miliardi di dollari in token in circolazione. Basata in El Salvador, quindi fuori dal perimetro di applicazione diretto del GENIUS Act. Detiene oltre 112 miliardi di dollari in titoli del Tesoro USA, collocandosi in pratica tra i maggiori detentori privati di debito americano.
Qualsiasi misura drastica contro Tether rischierebbe di avere effetti a catena sui mercati, potrebbe destabilizzare segmenti critici del mercato dei Treasury, innescando fughe di capitali o crisi di fiducia nel più grande “dollaro digitale” esistente. Avrebbe impatti globali su exchange, piattaforme DeFi e operatori che utilizzano USDT come asset di riferimento. Il paradosso è evidente, uno dei principali strumenti usati per aggirare il controllo del dollaro è, in realtà, profondamente intrecciato con i mercati finanziari americani attraverso la detenzione di titoli del Tesoro.
Conflitto di interessi: i legami tra Tether e il governo USA
A complicare ulteriormente il quadro c’è un elemento di potenziale conflitto di interessi evidenziato dal New York Times. Tether ha legami stretti con la famiglia del Segretario al Commercio, Howard Lutnick. Il Segretario è responsabile, tra l’altro, delle restrizioni all’export di tecnologie sensibili dagli Stati Uniti verso altri Paesi, proprio quelle tecnologie che alcuni cercano di procurarsi aggirando le restrizioni anche tramite pagamenti in stablecoin.
Secondo l’inchiesta, uno dei figli di Lutnick, Brandon, è presidente di Cantor Fitzgerald, un altro figlio, Kyle, è vice presidente esecutivo della stessa società. Cantor Fitzgerald fornisce servizi a Tether. Questo pone la famiglia in una posizione in cui la più grande infrastruttura privata di dollari digitali “offshore” si interseca con un ruolo chiave di enforcement federale. Sia Cantor Fitzgerald sia il Dipartimento del Commercio hanno rifiutato di commentare. Senza suggerire illeciti, il dato politico è comunque chiaro, la governance del sistema degli stablecoin non è soltanto una questione tecnica o di mercato, ma tocca interessi e relazioni ad altissimo livello.
Il caso A7A5: quando le sanzioni non fermano i token
L’ultima parte dell’inchiesta si concentra su un esempio particolarmente istruttivo: il token A7A5, uno stablecoin pegged al rublo. Una società con sede in Kirghizistan ha lanciato carte Visa e Mastercard denominate in dollari, acquistabili utilizzando stablecoin agganciati al rublo, tra cui appunto A7A5.
Questo consentiva, di fatto, a persone collegate alla Russia o ad altri soggetti sanzionati di operare in rubli nell’ecosistema crypto, convertirli in uno stablecoin rublo-agganciato e poi trasformare quel valore in dollari spendibili tramite carte di pagamento.
L’inefficacia delle misure punitive contro il token russo
Le autorità statunitensi ed europee sono intervenute con una batteria di misure: sanzioni contro il token A7A5, contro il suo emittente, contro le banche di appoggio, contro i principali exchange che lo trattavano e contro l’oligarca ritenuto responsabile della sua creazione.
Nonostante ciò, il token continua a circolare. Il New York Times, analizzando l’attività sulla blockchain, ha rilevato che poco prima che gli Stati Uniti imponessero sanzioni all’exchange principale dove A7A5 veniva trattato, la piattaforma ha trasferito di nascosto decine di milioni di dollari in stablecoin verso nuovi wallet non ancora individuati dalle autorità e quindi non inclusi nelle liste di sequestro.
Questo mostra come anche quando la reazione regolatoria è coordinata e rapida, token, emittente, banche ed exchange vengono formalmente sanzionati, le infrastrutture crypto permettano a chi le controlla di anticipare l’intervento delle autorità, spostando i fondi verso indirizzi non ancora noti, difficili da collegare immediatamente ai soggetti designati.
Una nuova geografia del potere finanziario globale
Mettendo insieme tutti i tasselli, dai bancomat crypto del New Jersey alla banca in Kirghizistan, dalle carte anonime in Costa Rica alle connessioni politiche a Washington, emerge un quadro chiaro.
- Gli stablecoin stanno creando un sistema finanziario parallelo, fortemente dollarizzato ma gestito da attori privati, piattaforme offshore e protocolli decentralizzati.
- Questo sistema indebolisce il principale strumento di potere economico degli Stati Uniti: la capacità di controllare l’uso del dollaro attraverso banche, circuiti di pagamento e infrastrutture regolamentate.
- Le misure normative come il GENIUS Act rappresentano un primo tentativo di riportare gli stablecoin dentro un perimetro regolato, ma non possono, da sole, controllare ciò che accade al di fuori del territorio e della giurisdizione USA.
- L’intreccio tra grandi emittenti di stablecoin, detentori di debito pubblico americano, istituzioni politiche e reti criminali transnazionali rende il tema molto più complesso di una semplice questione di tecnologia o di mercato.
In questa prospettiva, la domanda che l’inchiesta implicitamente pone è: stiamo assistendo alla nascita di una forma di “dollaro ombra“, in cui la valuta resta nominalmente la stessa ma le leve di controllo, chi può usarla, a che condizioni, sotto quale sorveglianza, si spostano progressivamente dallo Stato a un mosaico di attori privati e network globali?
Conclusioni: cosa significa per cittadini e istituzioni
La che emerge dall’indagine può essere riassunta così, gli stablecoin sono strumenti potentissimi, con usi legittimi (pagamenti veloci, inclusione finanziaria, innovazione), ma sono anche diventati l’infrastruttura preferita da molti attori che vogliono aggirare sanzioni, controlli AML e restrizioni normative.
Non si tratta più di piccoli volumi, si parla di decine di miliardi di dollari in transazioni illecite. I tentativi di regolamentazione, se limitati a un solo Paese o a una sola categoria di operatori, rischiano di essere sempre un passo indietro rispetto a chi ha interesse a sfruttare i vuoti normativi. A livello geopolitico, ciò che è in gioco non è solo “la sicurezza del mondo crypto”, ma la capacità degli Stati di usare la leva finanziaria come strumento di politica estera. Dal punto di vista europeo, e italiano, questa vicenda ci invita a porci alcune domande. Come si coordineranno le normative USA con il quadro europeo (MiCA e oltre) su stablecoin e cripto-asset?
Quali spazi avranno le autorità nazionali e continentali per intervenire su operatori che agiscono fuori dall’UE ma hanno impatti diretti sui nostri mercati e sulla nostra sicurezza? Quale ruolo avranno le banche tradizionali e le nuove infrastrutture di pagamento nel bilanciare innovazione e controllo del rischio? Non ci sono risposte semplici. Ma è chiaro che la stagione in cui il dollaro era sinonimo di controllo centralizzato è finita. Al suo posto sta emergendo un ecosistema in cui lo stesso dollaro, sotto forma di stablecoin, può diventare contemporaneamente: strumento di innovazione, veicolo di inclusione finanziaria e linguaggio privilegiato del crimine e dell’elusione delle sanzioni.
Capire questa trasformazione è il primo passo per decidere, come legislatori, regolatori, imprese e cittadini, quale tipo di infrastruttura finanziaria vogliamo per il prossimo decennio.












