La realtà virtuale (VR) sta progressivamente trasformando la psicologia clinica, passando da semplice strumento di simulazione a vero e proprio spazio terapeutico. Grazie alla possibilità di creare ambienti immersivi, interattivi e sicuri, la VR consente di riprodurre situazioni della vita quotidiana, come parlare in pubblico, conservando un elevato controllo sperimentale. Le evidenze scientifiche confermano la sua efficacia nel trattamento di disturbi d’ansia, fobie, traumi, disturbi alimentari e schizofrenia.
Il valore aggiunto della VR risiede nella capacità di favorire esperienze di embodiment e presenza, che amplificano le emozioni e facilitano il contatto con vissuti profondi difficili da raggiungere con il colloquio tradizionale. Progetti pionieristici mostrano, inoltre, che l’integrazione con biosensori e intelligenza artificiale (AI) permette di personalizzare dinamicamente le esperienze, modulandone l’intensità in base alle risposte del paziente. Tuttavia, restano limiti legati a costi, accessibilità, formazione e variabilità delle reazioni individuali. Guardando al futuro, la convergenza tra VR, realtà aumentata e AI apre scenari inediti di psicoterapia personalizzata e predittiva. La vera sfida per i terapeuti sarà integrare la tecnologia senza perdere la centralità dell’esperienza umana e della relazione clinica.
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La VR in psicologia clinica
Da anni la realtà virtuale (VR) ha oltrepassato i confini del gaming e dell’intrattenimento, conquistando uno spazio crescente nella ricerca e nella pratica clinica. La sua principale caratteristica risiede nella capacità di creare ambienti immersivi, multisensoriali e interattivi, che consentono di evocare emozioni e osservare comportamenti in contesti sia realistici che immaginati, mantenendo al tempo stesso un elevato livello di controllo sperimentale. In psicologia clinica, ciò significa poter ricreare situazioni molto simili a quelle della vita quotidiana – come affrontare un viaggio in aereo o interagire in un contesto sociale – senza esporre il paziente al rischio o allo stress che tali esperienze comporterebbero nella realtà ordinaria. Si tratta di scenari ecologicamente validi, ossia abbastanza realistici da suscitare reazioni paragonabili a quelle della vita reale, ma più sicuri e gestibili sia per il terapeuta che per la persona in trattamento.
Le evidenze scientifiche confermano che la VR può essere applicata con efficacia in diversi ambiti clinici. Uno dei campi più studiati riguarda i disturbi d’ansia e le fobie specifiche: attraverso un’esposizione graduale e controllata agli stimoli temuti, come l’altezza o gli spazi chiusi, i pazienti possono affrontare progressivamente le proprie paure, riducendone l’impatto in modo significativo (Freeman et al., 2018). Anche nel trattamento del disturbo post-traumatico da stress la VR ha mostrato risultati promettenti: riprodurre in ambiente virtuale alcuni elementi legati al trauma consente al paziente di rielaborarli con il sostegno del terapeuta, mantenendo sotto controllo l’intensità delle emozioni attivate (Gerardi et al., 2010). Ma le applicazioni non si fermano qui. La VR, infatti, è stata sperimentata anche nel trattamento dei disturbi alimentari, favorendo un confronto guidato con l’immagine corporea o con situazioni legate al cibo (Clus et al., 2018). Inoltre, nel trattamento della schizofrenia, ambienti virtuali controllati hanno aperto nuove possibilità di intervento su percezioni e dinamiche relazionali (Penn et al., 2010).
Dentro l’esperienza: come funziona la VR in terapia
Un aspetto particolarmente rilevante della VR è che non si limita a mostrare scenari, ma li rende interattivi: il paziente, dunque, può muoversi, agire e ricevere feedback immediati. Ciò aumenta la sensazione di presenza e di coinvolgimento, rendendo l’esperienza più intensa anche dal punto di vista emotivo. Le tecnologie che sostengono la VR hanno conosciuto sviluppi notevoli negli ultimi anni. Visori sempre più leggeri e realistici, sensori capaci di rilevare i movimenti del corpo con grande precisione e biosensori integrati con sistemi di intelligenza artificiale (AI), contribuiscono a costruire esperienze immersive di forte impatto clinico. A differenza di un semplice esercizio immaginativo, il paziente non si limita a osservare uno scenario: vi entra, interagisce e si percepisce “dentro” quel mondo. Questa esperienza di embodiment, ossia di incarnazione virtuale, accresce il realismo e il coinvolgimento, generando uno spazio di lavoro terapeutico ricco di possibilità. Il valore clinico di tale immersione risulta considerevole. Non si tratta soltanto di evocare emozioni, ma di amplificarle e renderle più accessibili, facilitando il contatto con stati affettivi profondi che spesso appaiono difficili da raggiungere attraverso il colloquio clinico tradizionale.
Alcuni progetti pionieristici, come ARCADIA VR per il trattamento dei disturbi alimentari (Riva et al., 2023), mostrano bene le potenzialità di tale approccio. Grazie all’integrazione tra biosensori e AI, il sistema risulta in grado di monitorare in tempo reale parametri fisiologici come frequenza cardiaca o sudorazione, e di adattare dinamicamente lo scenario virtuale alle caratteristiche psicologiche del paziente. In questo modo, diventa possibile costruire percorsi terapeutici altamente personalizzati, modulando l’intensità delle esperienze in base alla risposta emotiva del soggetto. Un altro esempio riguarda il trattamento della fobia sociale: sistemi VR di nuova generazione possono regolare il numero di interlocutori presenti in una stanza virtuale o la complessità della situazione comunicativa, calibrandole sulle reazioni fisiologiche del paziente. Tale approccio adattivo consente di mantenere l’esperienza entro una finestra di tolleranza emotiva, massimizzando l’efficacia terapeutica ed evitando il rischio di sovraccarico (Wechsler et al., 2019).
Un ulteriore esempio è rappresentato da Covid Feel Good, un protocollo sviluppato per supportare la popolazione durante la pandemia di COVID-19 attraverso brevi esperienze immersive di realtà virtuale, volte a ridurre stress e ansia e a promuovere strategie di coping adattive. In questo caso, la VR è stata utilizzata come strumento accessibile e facilmente fruibile anche a distanza, offrendo agli utenti la possibilità di vivere esercizi guidati di rilassamento e imagery positiva. I risultati hanno mostrato come l’intervento fosse in grado di incrementare il benessere psicologico e di sostenere le risorse personali in un momento di particolare vulnerabilità collettiva (Riva et al., 2020).
In sintesi, la VR non rappresenta soltanto uno strumento di simulazione, ma un ambiente terapeutico attivo e adattivo. La possibilità di vivere esperienze personalizzate, emotivamente intense e al tempo stesso sicure, apre scenari inediti per la psicologia clinica, coniugando la dimensione tecnologica con quella profondamente umana della cura.
Psicoterapia e VR: esplorare nuove frontiere
L’integrazione della VR nei percorsi psicoterapeutici rappresenta una delle sfide più stimolanti degli ultimi anni. Non si tratta soltanto di introdurre un nuovo strumento tecnologico, ma di ridefinire le modalità stesse con cui il terapeuta e il paziente lavorano. La VR, infatti, apre l’accesso a esperienze che nel colloquio tradizionale resterebbero confinate all’immaginazione: rivivere in sicurezza situazioni traumatiche (Rothbaum et al., 2021), sperimentare nuove forme di interazione sociale (Geraets et al., 2021), confrontarsi con il proprio corpo o con scenari simbolici capaci di evocare emozioni profonde (Riva et al., 2023) rappresentano solo alcuni aspetti delle potenzialità offerte dalla VR.
Vivere un forte senso di immersione e “presenza” all’interno dell’ambiente virtuale è ciò che rende queste esperienze particolarmente efficaci dal punto di vista clinico (Rossi et al., 2025; Slater, 2018). Altri progetti hanno mostrato che la VR può supportare anche funzioni cognitive complesse, come il recupero di memorie autobiografiche nei pazienti con dipendenze, contribuendo ad arricchire il lavoro terapeutico con strumenti nuovi e mirati (Frisone et al., 2024).
In questo senso, il visore diventa una sorta di “ponte” tra il mondo interno e quello esterno, offrendo al paziente l’occasione di esplorare contenuti psichici difficili da esprimere a parole. Per il terapeuta, la possibilità di modulare intensità e contesto delle esperienze permette di mantenere un equilibrio tra stimolazione ed elaborazione, costruendo un percorso altamente personalizzato (Freeman et al., 2017). Le nuove frontiere della psicoterapia con VR, dunque, non sostituiscono l’incontro clinico, ma lo arricchiscono, ampliando gli spazi di ascolto e di trasformazione.
Oltre il setting tradizionale: i benefici della VR
Come anticipato, uno dei punti di forza più evidenti della VR è la possibilità di offrire esposizioni graduali e controllate a situazioni temute, un aspetto cruciale per il trattamento di ansia, fobie e traumi. In contesti tradizionali, affrontare direttamente stimoli ansiogeni può risultare piuttosto rischioso, ma in VR è possibile modulare intensità e complessità delle esperienze, permettendo al paziente di avvicinarsi progressivamente a ciò che teme, sviluppando sicurezza e competenze di coping in un ambiente protetto. Tale caratteristica rende la VR uno strumento particolarmente utile per gli approcci basati sull’esposizione, garantendo la possibilità di ripetere l’esperienza più volte, monitorare le reazioni del paziente e adattare lo scenario in tempo reale, riducendo al minimo i rischi e massimizzando l’efficacia terapeutica.
Un secondo vantaggio rilevante è il forte coinvolgimento emotivo e la motivazione che la VR può stimolare. A differenza di esercizi di immaginazione guidata o di tecniche di rilassamento tradizionali, infatti, la VR offre un’esperienza immersiva che attiva sia la dimensione cognitiva che quella affettiva, aumentando la percezione di “presenza” e il senso di embodiment. Tale immersione permette di suscitare emozioni autentiche e di lavorare sul loro riconoscimento e integrazione, aspetti fondamentali in psicoterapia.
Inoltre, l’integrazione della VR con l’AI e i biosensori permette di affinare la personalizzazione dell’esperienza, adattando gli stimoli alle caratteristiche psicologiche e fisiologiche del singolo paziente. Monitorando parametri fisiologici come frequenza cardiaca, respirazione e livelli di attivazione emotiva, diventa possibile mantenere il paziente entro una finestra di tolleranza ottimale, per cui né troppo bassa da ridurre l’efficacia, né eccessivamente alta da generare sovraccarico.
Un altro aspetto di grande importanza riguarda la sicurezza e la privacy che garantisce la VR. Affrontare una situazione temuta in vivo comporta rischi concreti e, talvolta, imbarazzi o ostacoli pratici, ma in un ambiente virtuale il paziente sperimenta scenari complessi senza esposizione diretta al pericolo e con la certezza di un setting controllato, protetto e confidenziale, elementi che favoriscono la fiducia, l’apertura emotiva e la partecipazione attiva.
I limiti della VR in psicologia clinica
Naturalmente, l’impiego della VR in ambito clinico non risulta privo di ostacoli. Uno dei principali riguarda i costi: le attrezzature professionali, i software dedicati e la manutenzione restano ancora onerosi, rendendo difficile l’adozione della VR in contesti caratterizzati da risorse economiche limitate. A ciò si aggiunge la necessità, per i terapeuti, di acquisire competenze tecniche specifiche. Gestire la strumentazione, calibrare correttamente gli scenari virtuali e interpretare le risposte emotive e comportamentali del paziente nello spazio digitale richiede formazione continua e aggiornamento costante, aspetti non sempre facilmente accessibili.
Un’ulteriore criticità riguarda la variabilità delle reazioni dei pazienti. Non tutti vivono l’esperienza virtuale in modo positivo. Alcuni possono manifestare sintomi fisici come nausea, vertigini o disorientamento a causa della discrepanza tra movimento percepito e movimento reale, fenomeno noto come cybersickness, mentre altri possono sviluppare difese più rigide o resistenze di fronte a scenari percepiti come troppo intensi o minacciosi.
Alla luce di tali considerazioni, occorre tener presente che la VR non può essere considerata uno strumento valido in ogni situazione clinica, ma piuttosto una risorsa da utilizzare con cautela, valutando attentamente il contesto, le caratteristiche del paziente e gli obiettivi terapeutici.
Guardando avanti: la realtà mista e l’intelligenza artificiale
Il futuro della cura psicologica non si limiterà alla VR così come la conosciamo oggi. La convergenza tra VR, realtà aumentata (AR) e AI apre prospettive ancora più ampie, delineando uno scenario in cui i confini tra reale e virtuale diventano sempre più sfumati. I dispositivi di realtà mista permetteranno di integrare elementi digitali negli ambienti quotidiani, creando esperienze ibride più naturali e meno invasive rispetto agli attuali visori (Cipresso et al., 2018; Milgram & Kishino, 1994). Ciò significa, ad esempio, poter sovrapporre stimoli terapeutici a contesti reali come la propria casa o l’ambiente lavorativo, ampliando le possibilità di generalizzazione degli apprendimenti e favorendo un training ecologico delle competenze psicologiche.
Parallelamente, i progressi nell’AI consentono di immaginare interventi sempre più adattivi. Algoritmi di machine learning possono già oggi analizzare in tempo reale parametri fisiologici (battito cardiaco, conduttanza cutanea), comportamentali (movimenti oculari, postura) e persino aspetti linguistici ed emotivi del paziente (Insel, 2017; Valmaggia et al., 2016). Integrando questi segnali, diventa possibile modulare dinamicamente l’esperienza terapeutica, calibrando scenari, intensità e stimoli sulla base delle reazioni individuali. Non si tratta, dunque, di sostituire il terapeuta con la tecnologia, ma di creare un ecosistema terapeutico aumentato, in cui la tecnologia diventa un alleato discreto, capace di amplificare la dimensione relazionale e simbolica della psicoterapia (Riva et al., 2023).
In prospettiva, questo approccio integrato potrebbe dar vita a protocolli di terapia personalizzata e predittiva in cui l’AI non solo adatta le esperienze in tempo reale, ma contribuisce a identificare pattern clinici ricorrenti, monitorare l’andamento del trattamento e suggerire al terapeuta aree di attenzione. È un orizzonte che richiama la necessità di coniugare l’innovazione tecnologica con una riflessione etica e clinica profonda, per garantire che le nuove possibilità si traducano in un autentico beneficio per la persona.
Integrare la tecnologia senza perdere l’umano: la sfida dei terapeuti
Considerando vantaggi e limiti, la VR si configura come uno strumento complementare in psicologia clinica, il cui valore dipende dalla capacità del terapeuta di integrarla all’interno di un percorso coerente e significativo.
Non basta proporre un’esperienza immersiva: ciò che avviene nello spazio digitale deve essere compreso, elaborato e ricondotto al vissuto del paziente, affinché emozioni, conflitti e dinamiche relazionali trovino un senso nel percorso terapeutico.
Un ulteriore elemento di interesse riguarda l’incontro con le nuove generazioni, cresciute in contesti digitali e abituate a esperienze interattive e multimediali. Per questi pazienti, esplorare il proprio mondo interiore attraverso ambienti virtuali può risultare un canale più familiare e immediato di introspezione. La vera sfida per i professionisti è di mantenere la profondità della relazione terapeutica utilizzando la tecnologia come ponte tra emozioni, consapevolezza e cambiamento.
Non occorre trascurare il valore insostituibile del contatto umano e della cura personalizzata.
Se i mondi virtuali costituiscono ormai parte integrante della vita quotidiana, la psicologia ha l’opportunità di guidarne l’esplorazione interiore, coniugando innovazione tecnologica e profondità clinica. Così facendo, l’esperienza terapeutica potrebbe diventare anche più ricca, coinvolgente e trasformativa per i pazienti di oggi e di domani.
Bibliografia
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