L'analisi

Dentro i social network: così l’esperienza diventa merce

Selfie e stories da produrre e condividere velocemente: come incidono nella percezione del sé? Come i social network stanno trasformando il ri-conoscimento sociale e individuale? Viaggio all’interno dei meccanismi che fanno collassare il tempo libero nel tempo del lavoro

Pubblicato il 12 Ott 2021

Alessandro Ugo Imbriglia

Sociologo del conflitto e dell'industria culturale

social network

Quali sono i meccanismi di costruzione identitaria che i social network codificano ed estendono su scala planetaria? Quali sono le proprietà semiotiche che caratterizzano le attuali forme di autorappresentazione digitale? I social media sono un corpus da “vivisezionare” nei suoi elementi intrinseci per coglierne la reale operatività e le funzioni latenti.

Delineeremo il genere e il grado di incidenza che i dispositivi dei social network – in particolare selfie e stories – esercitano nelle performance di ri-conoscimento sociale e individuale. La ricerca metterà a fuoco i meccanismi e le peculiarità di un sistema segnico, il “social network”, in grado di livellare la totalità dell’esperienza umana allo stato di merce.

Dalla privacy all’alienazione di sé: così i social ci hanno “mercificato”

Velocità ed euforia: nel flusso dei social network

Nei social network, selfie e stories si susseguono ad un ritmo tale da non consentire ai suoi produttori/utenti di ri-elaborarne i messaggi entro una narrazione organica e coerente: la velocità di produzione e condivisione è potenzialmente illimitata nella sua istantaneità espositiva. Per questo, si conferma come la logica per eccellenza della sovrapproduzione capitalistica.

Nell’incessante proliferazione iconica delle auto-rappresentazioni social, non vi è alcuna coerenza logica e contenutistica fra i post che, vicendevolmente, si incalzano senza tregua, nel flusso ininterrotto della home del social network. L’immediatezza con cui il soggetto produce e consuma le auto-rappresentazioni social, insieme all’assenza di un nesso di significato fra i contenuti di queste rappresentazioni, tradisce la benché minima possibilità di stabilire una narrazione organica dell’esperienza quotidiana, sia nella sua produzione che nella sua fruizione.

Il simulacro, inteso come proiezione reificata del proprio sé, costituisce mezzo e fine di un’egemonia culturale il cui elemento distintivo è il flusso totale di immagini (Williams, 2000) che appaiono nello spazio social, attraverso due fondamentali modalità di espressione: lo statico ritratto dell’autoscatto e la dinamica filmica della storia. In questo genere di esperienza il contesto è uno spazio de-materializzato entro il quale il tempo collassa nell’eterna istantaneità del suo contrario, il real time. Da tale prospettiva, la temporalità del social network complica sensibilmente la possibilità del soggetto di unificare il passato, il presente e il futuro della propria vita psichica, e, conseguentemente della propria esperienza biografica.

L’assetto emotivo che connota tale costruzione semantica del soggetto è l’euforia. L’euforia costituisce il correlato emozionale di una produzione culturale in cui l’istante assurge a momento topico del vissuto quotidiano: l’esperienza assume significato solo nel fermo immagine che la contiene. L’esperienza, paradossalmente, non ha significato in sé, ma ha significato esclusivamente fuori da sé; l’agire ha significato solo se – mentre si fa – narra simultaneamente del suo farsi. Per soddisfare un tale “eccesso narrativo”, il soggetto si co-stringe negli innumerevoli atti-mi dei propri autoscatti, o nelle sequenze filmiche delle proprie stories. In questo frazionamento artificiale del tempo di vita – compiuto attraverso selfie e stories – l’euforia si sostituisce alla felicità. La felicità richiede un tempo di “gestazione”, un investimento di risorse psichiche pianificato e una narrazione coerente alle fasi evolutive dell’esperienza soggettiva. La cifra con la quale si misura la felicità è la propria stabilità. Al contrario, il criterio di valutazione dell’euforia è l’intensità. La prima ha la propria concretezza di significato nel consolidamento del sentimento. La seconda ha ragion d’essere esclusivamente nell’immediatezza del picco emozionale.

L’interminabile proliferazione di immagini irrelate e autonome – selfie e stories – restituiscono la manifestazione psicotica di uno spazio di vita che cade sotto l’etichetta di social media. Nel social media il senso dell’esperienza non è rintracciabile nella correlazione fra significante e significato (De Saussure, 2009), dunque fra la story e il suo contenuto filmico, fra il selfie e l’immagine che esso ritrae; men che meno nella catena dei significanti (Lacan 1957) – i cosiddetti post – che incessantemente scorrono nella home del social network. Al contrario, il significato dell’esperienza è rinvenibile nella sequenza illogica, casuale ed istantanea di elementi – selfie e stories – che, nella loro incessante proliferazione, si giustappongono l’uno all’altro, lasciando in realtà isolati i propri contenuti. L’immagine filmica (Debord, 1990) di una story e l’immagine ritratta da un selfie veicolano un contenuto che non in-trattiene alcun nesso di significato con l’immagine filmica della story che la precede o con l’immagine immortalata dal selfie che ad essa segue. Agli occhi dell’osservatore/attore (l’utente del social network) il senso dell’intera esperienza non è dunque dato dalla dimensione qualitativa di un significante (selfie e stories) legato al proprio significato (contenuto dei selfie e delle stories), bensì dalla dimensione quantitativa attraverso cui i più disparati significanti – post, selfie, stories etc. – si avvicendano l’uno all’altro entro un flusso interminabile e indistinto, corrispondente allo spazio qualificato con il termine home[1].

La fruizione di un singolo autoscatto e di un’unica story non hanno, di per sé, alcuna valenza: solo nell’interminabile proliferazione di tali auto-rappresentazioni ognuna di esse può rivendicare la propria significatività. Dunque, è la bruta quantità che, nel suo stesso incessante proliferare, de-termina la qualità, con-cedendo alla singolarità (il selfie o la story) una propria apparente unicità[2].

In questo flusso indistinto di rappresentazioni e narrazioni del sé, l’hashtag è l’elemento congiunturale che eleva esponenzialmente la possibilità di creare, surrettiziamente, infinite e sempre nuove catene di significanti. Entro questa logica gli elementi significanti restano “agganciati” solo artificialmente, nonostante i rispettivi contenuti – i significati – presentino, per lo più, una coerenza logica e contenutistica assolutamente marginale, se non addirittura assente.

L’identità come performance e l’esibizione dell’esperienza come scopo

Nell’interminabile proliferazione delle immagini filmiche (stories) e, al contempo, delle immagini istantanee (selfie), la definizione e ridefinizione dell’identità personale non è posta più in relazione alla funzione sintattica che l’uomo – prima dell’avvento dell’era social – stabiliva e ri-conosceva tra un enunciato e l’altro. Le grandi produzioni umane, rintracciabili nell’epica e nel teatro, poi nel romanzo, e in ultimo nel cinema, cedono una consistente fetta della propria “sovranità narrativa” alle espressioni ego-iconiche dell’autoscatto e della storia. Come sottolineato nel precedente paragrafo, nella realtà social la definizione dell’identità personale ri-conosce il proprio criterio fondativo nelle performance iconiche che ogni singolo selfie e ogni singola story pro-muovono in totale autonomia rispetto ai post che li precedono e ai post che ad essi seguono.

Ad incidere nella costruzione dell’identità soggettiva non è più la coerenza formale e contenutistica che intercorre fra i segni, ma la definitiva indipendenza che, per mezzo della loro giustapposizione, ne garantisce l’effettiva separazione. È la stessa giustapposizione fra gli elementi segnici – selfie e stories – a garantirne la connessione, precludendone, irreversibilmente, la relazione. In realtà, l’isolamento è conditio sine qua non, la connessione non potrebbe altrimenti verificarsi. Nel momento in cui il fine narrativo del soggetto non risiede più nella coerenza logica stabilita dal tempo diacronico e dalla relativa struttura sintattica, i valori distintivi dei segni traslano dal peso della loro relazione all’esclusività della propria, singola, sovraesposizione.

L’affermazione del sé non passa attraverso la distanza critica (Bell, 1969) dall’industria culturale (Adorno, Horkheimer 2010), ma ripone la propria ragion d’essere – senza eccezione alcuna – nella parodia che la stessa industria culturale incessantemente promuove. Se la distanza critica posizionava e individuava l’elemento culturale al di fuori della cultura di massa, la parodia odierna, nel verso opposto, si posiziona solo ed esclusivamente all’interno dell’industria culturale stessa. Mentre la prima adottava un percorso divergente al Capitale, la seconda segue un itinerario convergente alla logica capitalistica. Il fine ultimo dell’odierna parodia non è satirico, bensì ludico; lo scopo verso il quale tende non consiste nello straniamento (Brecht), nello sconvolgimento della percezione abituale della realtà, ma persegue l’acquietamento entro una solida e unica percezione del dato reale.

Lo scopo pedagogico della distanza critica implica una postura attenta, uno sforzo interpretativo in grado di avanzare una severa messa in dubbio del dato reale. Il carattere oppositivo della critica radicale ammette l’emergere di un sentimento di ostilità, a cui può seguire l’intolleranza, se non addirittura il consolidamento di un vero sentimento di repulsione. Lo scopo dell’industria culturale, posto in netta opposizione a quello appena descritto, pre-dispone il soggetto alla messa in opera di un giocoso disimpegno: al carattere oppositivo si sostituisce un carattere adattivo; la radicale e severa messa in dubbio della realtà data flette entro una postura accomodante, mentre lo sguardo attento, circospetto, evolve in un’andatura distratta. Al sentimento di ostilità subentra un’indifferente accettazione e il senso di intolleranza cede il posto all’inebriante condivisione della “diretta”. Se nel luogo della distanza critica il dis-gusto dettava l’incondizionata “presa di distanza” del soggetto dall’industria culturale, ora il gusto è mosso, nel verso opposto, in direzione di un’allucinogena ed eccitante sovraesposizione. Il sentimento di segno negativo (-) è sostituito da un’emozione di segno positivo (+). La traiettoria contrastiva della condotta individuale vede azzerate le proprie possibilità di realizzazione, a favore di una traiettoria confermativa dell’agire soggettivo. Non a caso il social network segna la scomparsa definitiva del confine distintivo fra arte e vita quotidiana. Facebook e Instagram penetrano e annettono quelle énclave che, seppur residuali, preservavano l’alta cultura entro un luogo incontaminato e non ancora de-materializzato. L’arte entra, in via definitiva, nell’interminabile ricorsività del ciclo produttivo: ogni genere di espressione umana esige, nel social network, una piena e incondizionata legittimazione artistica.

L’incessante produzione di stories e selfie è l’indice che fornisce evidenza empirica a questo “bisogno generalizzato”: l’esperienza quotidiana non è più tassello, parte integrante di un progetto di vita; l’esperienza non ha un’incidenza circoscritta entro la totalità di un percorso biografico ben più ampio e complesso. Al contrario, la singola esperienza assurge a finalità esistenziale. L’esperienza diviene, al contempo, mezzo e fine del progetto medesimo, e lo fa sino ad estinguere il confine fra strumento e scopo. A differenza di quanto accadeva nell’era antecedente al social network, oggigiorno la biografia individuale, anziché pre-disporre e compendiare il progetto che ognuno deve scrivere da sé (Beck, 2000), registra le innumerevoli e irripetibili esperienze che ciascuno, da sé, deve simultaneamente vivere e immortalare. Nell’era precedente all’avvento del web, il significato della biografia individuale maturava e si consolidava in piena aderenza con il tempo di vita biologico: al suo farsi forniva intima voce il diario; un primo elementare esercizio psicoanalitico era garantito dallo scambio epistolare. Si ricorreva infine alle memorie per tentare di restituire un giudizio compiuto sul proprio percorso di vita.

Al contrario, nella società odierna, la biografia conquista la propria dignità narrativa nella misura in cui è l’esperienza degli infiniti e irrelati attimi ad attribuirle un significato: la sacralità del diario personale è violata da un’inappagabile eccitazione per il tempo reale della home. In questa profanazione dell’intimo si disvela la potenza di un mezzo in grado di elevare ogni genere di atto, fatto e contingenza al rango di esperienza.

In antitesi alla funzione dialogica e al contempo autoriflessiva dell’epistola, si afferma nella sua massima evidenza l’esposizione del singolo sé: il soggetto impone alla parzialità dell’enunciato l’inamovibilità della propria icona. In ultimo, il giudizio definitivo delle memorie si frammenta nelle innumerevoli autovalutazioni delle performance quotidiane. In questo quadro, l’esperienza di vita è, essa stessa, il progetto di vita.

Like e autostima: nei social network ogni esperienza è merce misurabile

In un mondo in cui i social network si apprestano a diventare l’agente di socializzazione dominante, gli attori che propongono e veicolano i segni identificativi da acquisire impongono, in maniera più o meno consapevole, un preciso criterio di leggibilità dello status sociale, il cui elemento regolatore, il prestigio (Weber, 2005) abbandona una formula di giudizio qualitativa e assume un modello di misurazione quantitativo. Il numero dei like ottenuti, la quantità delle condivisioni registrate, il numero dei follower raggiunti e la mole complessiva delle interazioni prodotte attestano la legittimazione sociale ottenuta del soggetto, svelandone le aspettative, e dunque il ranking sociale a cui lo stesso soggetto ambisce. In questa logica affermativa del sé, il prestigio del singolo soggetto è valutato entro parametri statistico-descrittivi.

Il prestigio, quindi diviene una grandezza sottoponibile al criterio scientifico dell’esattezza, sulla base del quale l’individuo socializzato formula le proprie valutazioni, e, in particolar modo, le proprie autovalutazioni. I giudizi prodotti, a seconda dello score statistico ottenuto, incidono sulla costruzione dell’identità, e, più esattamente, sul livello di autostima[3] dell’individuo socializzato. Posta questa fondamentale osservazione, non si può che identificare nell’influencer l’intermediario culturale (Bourdieu, 2001) in grado di definire e dettare le gerarchie del gusto e degli stili di vita. In questo quadro il giudizio di valore abbandona l’approccio ermeneutico-discorsivo che, almeno in parte, riusciva a conservare nell’era pre-social: se è il significante a prevalere sul significato, allo stesso modo è il calcolo a prevalere sull’enunciato. Ove lo scopo dell’agire soggettivo mira alla performatività, il soggetto stesso non può che sottoporsi ad un criterio di misurazione in grado di azzerare la possibilità di errore. Dunque, l’elaborazione del dato subentra all’analisi del testo, nello stesso momento in cui il discorso abdica in favore della figura (Lyotard, 1988): l’affermazione del social network ribadisce la definitiva subalternità della parola all’immagine e predispone l’elemento figurale come lo strumento più adeguato alla realizzazione della performance, la quale altro non è che il ritratto fedele dell’esperienza stessa.

In definitiva, la qualità dell’esperienza è certificata dal responso quantitativo che essa registra. L’etichettamento del prodotto – inteso come elemento dirimente nella logica del marketing – invade la sfera dell’esperienza umana, sottoponendo quest’ultima al criterio valutativo del rating. L’esperienza è dunque prodotto, merce, poiché la significatività dell’esperienza stessa risiede nella sua appetibilità sociale; quest’ultima, l’appetibilità, è legata all’effettiva remuneratività dell’esperienza ritratta. È dunque la remuneratività che attesta la legittimità dell’esperienza in quanto merce. In ultimo, il grado di legittimità registrata incide, più che proporzionalmente, sul livello di autostima del soggetto che ha agito l’esperienza immortalata. Quest’ultima, l’autostima, immediatamente co-incide nella definizione dell’identità soggettiva.

Attraverso questo processo circolare si verifica la definitiva trasposizione della costruzione identitaria nel luogo della merce e nella logica del prodotto. Se per Featherstone (1994) l’ethos piccoloborghese moderno e tardo-moderno poteva essere individuato nella creazione del “consumatore perfetto”, nella società odierna è possibile rinvenire la logica distintiva e auto-validante della cultura piccoloborghese nel pro-porre sé stessa come il prodotto perfetto.

Social network e definizione del Sé: l’invasione dell’economia

Dall’analisi condotta nei precedenti paragrafi emerge la natura ossimorica dei social network sites. Se da un lato selfie e stories propongono un contenuto che pare assumere, in prevalenza, una connotazione ludico-ricreativa, sul fronte opposto le stesse rappresentazioni social fondano la propria intellegibilità sociale sul criterio della performatività. Il carattere ludico-ricreativo pertiene alla logica dell’intrattenimento, predilige il divertissement improduttivo e dunque privo di un agire teleologicamente orientato, dilatato in una temporalità disorganizzata e intermittente. Al contrario, il carattere performativo attiene ai criteri prescrittivi dell’economia aziendale. L’esecuzione efficiente ed efficace della prassi performativa (selfie e stories) volge – come già affermato in questa sede – verso uno scopo incrementale; il soggetto opera all’allargamento del proprio spazio espositivo: la proliferazione dei selfie e delle stories, e più in generale dei post ai quali vengono annessi, mira ad un aumento del numero dei like e delle condivisioni, nonché all’aumento del numero dei follower (seguaci) del soggetto/utente. Questa stabile presenza di elementi antitetici non solo erode la soglia di demarcazione fra tempo libero e tempo di lavoro, ma letteralmente con-fonde l’agire produttivo e orientato allo scopo (Weber, 2005) con l’agire lassista e disinteressato concernente la sfera del loisir (Morin, 2005). La logica della produzione invade e integra il mondo dello svago, ma, nel verso opposto, è lo svago ad ex-tendere e con-cedere la propria forma alla logica della produzione. Il fine dei dispositivi narrativi come i selfie e le stories resta l’accumulazione illimitata della forma-merce, ma il genere di esperienza che conduce a tal fine preserva la percezione apparente dello svago. È nella con-fusione di questi opposti che si sostanzia e rinnova la logica dell’accumulazione capitalistica. L’equivoco, banalmente, si pone nell’ovvia ma fallace convinzione del soggetto contemporaneo, agli occhi del quale il tempo di lavoro e il tempo libero restano due mondi opposti e autonomi. In verità, con l’affermazione planetaria del social come principale agenzia di socializzazione, logica del lavoro e sfera del loisir divengono parti indistinte di un tutto inscindibile. In questo verso si potrebbe addirittura considerare il lavoro come sub-stantia, ciò che letteralmente “sta sotto” l’apparente e superficiale divertissement: l’agire produttivo, e dunque performativo, si rivela, quasi paradossalmente, il fondamento ontologico del tempo libero vissuto nel social net-work.

Nello specifico, il soggetto produce la propria attività ottemperando alle regole fissate dal più generale concetto di economicità: l’attivazione di un profilo social da parte del soggetto e la produzione delle proprie rappresentazioni – stories e selfie – hanno un costo economico-finanziario pari a zero. Dunque, la produzione oggettivante del soggetto raggiunge un livello di rendimento massimo all’interno del processo produttivo; l’impiego del soggetto stesso, cioè del suo corpo reificato nelle immagini dell’autoscatto e delle stories, si rivela un fattore produttivo efficiente ad un grado ottimale. In termini squisitamente economicistici, il costo d’acquisto che si sostiene per l’approvvigionamento delle risorse (selfie e stories) da impiegare nel processo produttivo è nullo. In termini monetari, al soggetto/utente non grava produrre e “postare” i selfie e le stories attraverso il proprio profilo social. Questa ingannevole gratuità maschera la sub-stantia economico-produttiva di un “gesto” erroneamente concepito come ludico-ricreativo. Oltre a un livello di efficienza economica ampiamente garantita, il soggetto registra un elevato grado di efficienza tecnica: la quantità fisica delle risorse impiegate, quindi la corporeità reificata dall’immagine soggettiva, è in grado di sostenere volumi prestazionali (selfie e stories) potenzialmente illimitati.

La produzione delle autorappresentazioni social va colta nella rispondenza fra i risultati ottenuti (outcomes) e gli obiettivi prefissati. Dunque, da un lato il soggetto osserva la produzione iconografica di stories e selfie in rapporto alla quantità di condivisioni, like, follower e commenti che selfie e stories – attraverso i post pubblicati – sono stati in grado di genere (outcomes). Dall’altro lato il soggetto valuta la produzione iconografica dei selfie e delle stories in relazione diretta con gli obiettivi prefissati, quindi con il volume di like, condivisioni, commenti e follower che avrebbe voluto o potuto registrare. Lo scarto fra risultati ottenuti (outcomes) e obiettivi prefissati costituisce il differenziale quantitativo che incide direttamente sulla produzione biografica del soggetto e sul consolidamento del proprio livello di autostima. In questo processo, i criteri di economicità su cui si fonda l’economia aziendale costituiscono, come mai prima d’ora, i fattori determinanti nella costruzione dell’identità soggettiva. Il social network è il luogo ove si concentra, massimamente, ciò che identifichiamo con la definizione di delusione delle aspettative. La categoria analitica dello spread, dal mondo inanimato della tecno-scienza, invade la sfera biografica, quindi cognitiva ed emotiva, del soggetto, sottomettendola alle leggi empirico-descrittive dell’economia.

La riduzione economicistica della definizione identitaria del soggetto va concepita in relazione ai meccanismi attraverso cui la piattaforma codifica la creazione di profitto. L’identità del soggetto costituisce la fonte dalla quale la piattaforma estrae valore attraverso specifiche formule di riconoscimento sociale – selfie, stories, post, condivisioni, like. La definizione del Sé va dunque demistificata e ricondotta necessariamente alla sua logica materialistica: l’identità corrisponde alla materia prima che, una volta immessa nel circolo della produzione, consente – attraverso un incessante lavorìo industriale (selfie e stories) – l’estrazione e l’accumulazione di plusvalore. La materia prima che la piattaforma consente di lavorare non è altro che l’autocoscienza del soggetto. Nel suo divenire cosciente il soggetto si fa merce (selfie, stories, post, condivisioni, like, commenti) e la merce di cui dispone la piattaforma è immessa sul mercato dei beni. Alla stregua del mondo inanimato dei beni e dei servizi, l’identità entra direttamente negli schemi della produzione, e, la vita intera dell’uomo diviene, al contempo, materia prima e pluslavoro (Demichelis, 2019).

L’utente della piattaforma accoglie febbrilmente la gratuità che connota il proprio lavoro in rete (Terranova 2000), ma, a partire da questa entusiastica adesione, tralascia lo specifico contraltare che tale gratuità prevede: dalle infinite “prestazioni d’opera” attivate dagli utenti ne con-segue un preciso meccanismo di monetizzazione delle performance[4]. In questo processo, il soggetto abilitato alla monetizzazione del “prodotto finale”, dunque della merce (l’identità), non è il singolo utente-produttore, bensì è il proprietario dei mezzi di produzione. Le singole operazioni che il soggetto compie attraverso il proprio profilo producono identità; l’identità assume un valore esatto, ma quest’ultimo è accumulato dal proprietario della piattaforma. In un luogo che progressivamente erode il confine fra svago e produzione (Scholz, 2012), il produttore-utente è assorbito in una quadruplice falsa coscienza:

  1. Non ha coscienza di essere a lavoro (Fuchs, Sevignani 2013).
  2. Non ha coscienza di ridurre a merce di scambio la propria emotività, la propria intimità, le proprie esperienze.
  3. Non ha coscienza di produrre un nuovo genere di merce, che corrisponde alla propria identità.
  4. Non ha coscienza che tale merce, assumendo un preciso valore monetario, dovrebbe prevedere una remunerazione.

L’attribuzione di valore positivo che il soggetto concede alla gratuità del proprio lavoro maschera, inconsapevolmente, lo sfruttamento di cui l’attività del soggetto è in realtà portatrice: poiché il soggetto produce valore e questo valore è monetizzato dal proprietario dei mezzi di produzione, all’utente-produttore dovrebbe essere corrisposta una remunerazione, cioè un salario (Ferraris, 2018). In maniera alquanto paradossale il soggetto si giova di questa assenza retributiva ed elogia la gratuità che connota la propria attività. In definitiva il soggetto, nella sua attività, riconosce una gratuità fittizia e misconosce il reale sfruttamento a cui è sottoposto.

Il soggetto «è alienato dai dati, cioè dalla sua vita che cede ad altri diventando altro da sé; alienato dalla piattaforma/social che gli prende i dati a sua insaputa e che non è sua ma è di un capitalista; alienato perché il frutto del suo lavoro di produzione dei propri dati – i dati stessi – non gli appartiene» (Demichelis, 2019).

Il social network dunque “salda”, entro un unico dispositivo, la costruzione dell’identità soggettiva e l’estrazione di valore (profitto) compiuta dalla piattaforma.

Il divorzio tra il Soggetto e la Coscienza: l’umanità ai tempi dei social

Dalla disamina proposta nel paragrafo precedente emerge un primo “grado” di mercificazione che il soggetto subisce e, al contempo, attiva. Ad esso si sovrappone un ulteriore livello di mercificazione: al fine di comprenderne il funzionamento, è necessario volgere lo sguardo verso la logica della produzione che connota l’agire del soggetto e, più specificatamente, la definizione che quest’ultimo fornisce della propria identità.

Attraverso i dispositivi narrativi[5] forniti dal social network, il soggetto consuma sé stesso, poiché da soggetto dell’esperienza si fa, letteralmente, oggetto nell’esperienza. Per mezzo delle stories e dei selfie, il soggetto, in quanto attore, pone in atto sé stesso e, contingentemente alla produzione dell’esperienza agita, si pone come oggetto agito da sé stesso.

La coscienza, intesa come riflessività del soggetto posto dinnanzi a sé stesso (auto-riflessività), con l’estensione illimitata della realtà social, stabilisce e consolida un radicale salto di prospettiva.

Per comprendere questo salto è necessario porre in essere una distinzione preliminare: l’esperienza di “primo grado” coinvolge il soggetto nell’hic et nunc dell’agire stesso; il soggetto, qui ed ora, pone in essere l’azione e la termina nel suo atto conclusivo. Dunque, il soggetto ha coscienza del proprio agire solo dalla prospettiva entro la quale è esperienza direttamente agita e definitivamente conclusa. Al contrario, le stories e i selfie possono essere annoverati fra le esperienze di “secondo grado” nella misura in cui il soggetto pone in essere, quasi simultaneamente, l’azione (l’autoscatto), la rappresentazione dell’oggetto (pubblicazione del post) e addirittura la re-azione all’oggetto (like, emoticon, commenti). In quest’ottica, la coscienza fissa, e continuamente ri-pone, il suo sguardo sull’esperienza di “secondo grado”, giacché, sistematicamente, la coscienza operativizza – attraverso il selfie e la story – l’atto attraverso il quale il soggetto mette in cornice l’esperienza di “primo grado”.

In questo slittamento di prospettiva, la coscienza, anziché porre il suo sguardo retrospettivo sull’esperienza agita e irreversibilmente conclusa, orienta le proprie lenti sullo scopo celebrativo dell’esperienza posta in atto, cioè sull’esperienza fissata nel “post”. Per tal motivo, la coscienza, in quanto facoltà dell’intelletto, esercita la sua funzione nella costruzione identitaria non più a partire dallo scopo del soggetto agente in quanto differ-ente dall’oggetto, bensì a partire dallo scopo del soggetto come corrispond-ente all’oggetto, e dunque come prodotto realizzato da sé medesimo. Da un punto di vista ontologico, si è dunque obbligati a concepire il soggetto come soggetto oggettivato. Nelle stories e nei selfie il soggetto resta consumatore di un prodotto, ma quest’ultimo, il prodotto, corrisponde al soggetto pienamente oggettivato: il soggetto è simultaneamente produttore-prodotto-consumatore, giacché consuma il prodotto – se stesso – nel momento stesso in cui lo produce. Entro questa inedita sintesi, il soggetto si attesta come effettivo nodo del sistema tecnico, dal quale viene definitivamente sussunto e ibridato (Demichelis, 2020).

Il soggetto, essendo a questo punto oggetto di sé stesso è, contingentemente, attore e osservatore della propria esperienza. Quindi l’erosione del confine distintivo fra soggetto e oggetto coincide con la dissoluzione della soglia distintiva fra attore e osservatore. Il soggetto non orienta il suo agire in direzione di un oggetto che è altro da sé; al contrario, il soggetto, orienta il proprio agire su di sé, e, in questa rifrazione identitaria, non fa altro che oggettivare sé stesso. Il correlato percettivo dell’oggettivazione diviene la contemplazione. Se nel recente passato il soggetto poneva come oggetto della propria contemplazione la natura o il divino, per arrivare in ultimo alla merce, nella società odierna il soggetto, in quanto soggetto oggettivato, pone sé stesso come destinatario, e dunque oggetto, della propria contemplazione. La contemplazione, da tensione spirituale protesa alla sfera trascendente dell’essere, ora colloca il suo raccoglimento attorno alla dimensione immanente del vissuto quotidiano ed è questa “discesa di prospettiva” ad elevare l’oggetto contemplato, cioè il soggetto oggettivato, a ente divino. Dunque, l’oggettivazione del soggetto corrisponde, quasi paradossalmente, alla deificazione dell’oggetto, in quanto il soggetto contemplante è, per mezzo dell’autoscatto e delle stories, l’oggetto contemplato.

Se con la dialettica hegeliana, la coscienza, dunque lo spirito, muoveva entro una riflessione circolare con la datità del mondo circostante, sino a riappropriarsi di sé in modo arricchito (Hegel, 2014), ora la coscienza – che non è coscienza generica (Marx, 1976) e men che meno coscienza collettiva (Durkheim, 2016) – anziché partire da sé per porre le proprie specifiche qualità fuori da sé, inverte la direzione del proprio processo. La coscienza – da concepire, beninteso, come coscienza del singolo soggetto – identifica le proprie qualità in ciò che è altro da sé, il quale altro non è che il soggetto oggettivatosi per mezzo del selfie e della storia. In questo capovolgimento dialettico, la coscienza dunque resta tale, si preserva, solo nel suo verso opposto, cioè a partire dall’oggetto. Quest’ultima torna al soggetto solo come provvisoria transizione, in vista di un sempre ulteriore potenziamento dell’oggetto, cioè del soggetto oggettivatosi nell’atto dell’autoscatto o nel video della story[6]. L’idea del soggetto – dunque la percezione che il soggetto ha di sé – è stabilmente ancorata all’oggetto, il quale oggetto corrisponde all’immagine del soggetto reificata nella story o nel selfie. A partire da questa costante, la coscienza abbandona solo temporaneamente l’oggetto per collocarsi provvisoriamente nel soggetto e riapprodare stabilmente sul lato dell’oggetto. In sintesi, la coscienza resta una facoltà del soggetto, ma la percezione di sé ha sede altrove. La percezione di sé ha sede nell’oggetto. Selfie e stories sono alcuni fra principali dispositivi che conducono a questo insediamento. Il momento “antitetico” quindi si riduce ad una fase intra-soggettiva di rielaborazione dei feedback ricevuti dall’oggetto – like, condivisioni, commenti, emoticon, messaggi – ai quale segue l’immediato atto estetico-performativo – il ritocco del selfie o della storia – per giungere, in molti casi, all’atto conclusivo della chirurgia estetica.

Se l’alienazione è classicamente intesa come il passaggio transitorio mediante il quale la coscienza si colloca fuori da sé per tornare, successivamente, in sé arricchita, con l’argomentazione proposta in questo paragrafo il termine alienazione sta ad indicare la costante che segna la legittimità ontologica dell’oggetto, cioè del soggetto che si è prodotto oggetto e che si concepisce a partire da ciò che, per l’appunto, è totalmente altro da sé. Anziché proiettarsi fuori da sé per stabilire una provvisoria collocazione nelle forme della natura e delle datità delle istituzioni, la coscienza individua il proprio luogo di partenza nell’immagine di sé reificata per mezzo dei selfie e delle stories, al fine di proiettarsi temporaneamente nel soggetto fisico, corporeo, di sua appartenenza e restituirsi arricchita alle proprie autorappresentazioni “social”. Gli attributi del soggetto, che siano essi di segno positivo o di segno negativo, sono in primis e prevalentemente gli attributi dell’oggetto, che il soggetto può vantare o negare solo indirettamente, in quanto riflesso. Ciò significa che il soggetto, nei passaggi sistematici in cui si riappropria della propria coscienza lo fa in quanto oggetto, favorendo dunque il proprio impoverimento. I dispositivi narrativi codificati dal social network ipostatizzano l’oggetto, cioè il soggetto oggettivatosi. L’ipostasi del soggetto oggettivato è l’immediato risultato di un processo attraverso il quale il soggetto rinviene le proprie qualità al di fuori di sé, cioè a partire da sé in quanto oggetto e non da sé in quanto soggetto. È questo divorzio fra il Soggetto e la sua stessa Coscienza a definire la condizione esistenziale dell’uomo al tempo del social network. La coscienza, metaforicamente, “tradisce” il soggetto a cui appartiene, per concedersi all’oggetto, cioè al suo fac-simile, e, in questa formidabile separazione, l’aspetto forse più grottesco è legato al soggetto, all’euforica “accettazione” dell’adulterio subìto, anzi agognato.

Entro questa prospettiva di analisi, selfie e stories possono essere identificati come dispositivi in grado di assumere una funzione di cesura.

Produzione, arte, scienza e sacro: il livellamento dei social network

La modernità, nel suo incessante accrescimento tecno-scientifico, ha promosso e consolidato due particolari forme di alienazione. Sulle orme della tradizionale analisi marxiana, si assiste da un lato alla “separazione generalizzata” (Debord, 1990) del lavoratore dal proprio prodotto e, entro questo distanziamento, si concretizza l’ulteriore separazione fra i produttori (lavoratori) che contribuiscono alla creazione della merce finale (Marx, 2004). In queste due condizioni di alienazione, viene meno, dall’angolatura del lavoratore, la benché minima prospettiva unitaria sull’attività compiuta e sulla realizzazione del relativo prodotto. In aggiunta a questi due elementi connaturati alla logica di produzione capitalistica, l’avvento dell’era social segna un’ulteriore estensione delle condizioni di alienazione. Tale grado di alienazione supera la tradizionale distinzione tra forza-lavoro occupata e forza-lavoro inoccupata – così come intesa dai canoni classici dell’economia politica – per estendersi al soggetto che non vende, ma sostanzialmente dona, il proprio tempo di vita al Capitale: il soggetto – dall’influencer affermato al semplice utente del social network – attraverso gli strumenti oggettivanti del selfie e della story, pone se stesso come input e diversamente come output del medesimo processo produttivo.

Il soggetto assume come ovvio presupposto l’idea che l’azione (selfie o story) compiuta tramite il proprio dispositivo tecnologico si realizzi in un semplice e univoco gesto. Tale gesto, però, se sottoposto ad un’attenta e profonda indagine, deve necessariamente essere de-costruito e analizzato nei suoi tre elementi costitutivi: la materia prima, il processo produttivo e il prodotto finito. Nell’illusoria completezza del gesto univoco – selfie e story – il soggetto entra in realtà come input – materia prima – nel momento in cui prepara e pone in atto l’autoscatto. In quello stesso attimo, la materia prima, quindi il soggetto, attraverso l’elaborazione istantanea nel mezzo di produzione (il dispositivo tecnologico), ri-emerge come output, come prodotto finito (selfie e stories), consolidando la propria definitiva oggettivazione.

L’incapacità di cogliere la struttura trifasica del processo produttivo è dovuta alla straordinaria contrazione del tempo nella quale essa si realizza. Tale contrazione corrisponde, nel caso del selfie, al tempo esatto dello scatto e, nel caso delle stories, al tempo di durata del video. È emblematico il caso dell’autoscatto, cioè quel preciso istante in cui il click realizza e, letteralmente, contiene la metempsicosi del soggetto in oggetto. È il medesimo scatto, nelle sue infinite riproposizioni e manipolazioni, a determinare il collasso del tempo diacronico nell’inquantificabile frazionamento del suo non-divenire. Il soggetto dunque accede, euforicamente, ad una prospettiva sull’agire compiuto che pare essere unitaria. Nell’equivoco, però, lo stesso soggetto porta a compimento un ulteriore stato di alienazione e auto-reificazione, ponendosi, al contempo, come input e output della propria produzione, come oggetto da sottoporre alla propria misurazione e come simulacro a cui dedicare la propria contemplazione. Il soggetto, solo in tal senso, è definitivamente oggetto, giacché diviene, esso stesso, destinatario unico e ultimo della propria coscienza. Questa tappa segna il conclusivo livellamento fra mondo della produzione e mondo dell’arte; fra mondo dell’arte e mondo della scienza; fra mondo della scienza e sfera del sacro.

In quest’ottica, selfie e stories si rivelano dispositivi in grado di assolvere ad una funzione di riduzione o occultamento, poiché letteralmente comprimono l’arco temporale nel quale si articola il processo produttivo, rendendolo “non visibile”.

Conclusioni: consumare se stessi è non riconoscersi

L’oggetto contemplato non è mai definitivamente dato; al contrario, attraverso “filtri” ed “applicazioni” è continuamente manipolato. Non a caso, l’istantanea possibilità di manipolazione dell’oggetto è commisurata alle immediate e infinite possibilità di oggettivazione del soggetto. L’immagine immortalata nella fedele istantaneità dell’autoscatto e l’immagine filmica riprodotta nella story conducono a un’ulteriore forma di estraneazione, giacché il soggetto ha coscienza di sé esclusivamente in quanto oggetto, il quale, infinite volte, produce, manipola e contempla sé stesso. A partire da tale constatazione, la coscienza non può che essere colta in relazione diretta con l’oggettivazione figurale del soggetto.

Solamente in quest’ottica diviene possibile per l’interprete (l’osservatore) ripercorrere la costruzione di significato a cui il soggetto giunge attraverso le proprie valutazioni o, ancor meglio, attraverso le proprie autovalutazioni. La coscienza radica il suo giudizio di valore e dispone il proprio criterio di valutazione nel prodotto figurale in cui è immortalato il soggetto, quindi nell’oggetto.

Nel costante moto di oggettivazione, il soggetto, in quanto merce, consuma sé stesso. E dunque l’essere umano – nelle vesti del soggetto divenuto pienamente oggetto – non fa altro che estinguere sé stesso. Entro questa logica, più l’osservatore si ri-conosce nella propria oggettivazione figurale, più dis-conosce la propria autentica esistenza. La socializzazione digitale preclude all’Esser-ci, dunque all’essere umano, la possibilità di situare al centro della propria esistenza la questione della differenza ontologica (Heidegger, 2005) fra l’Essere e l’Ente, giacché il soggetto, oggettivatosi – in quanto oggetto manipolabile, misurabile e contemplabile – legittima sé stesso ad una piena e inderogabile esclusività ontologica: esso esiste, e, al di fuori di esso, nulla è. In verità il soggetto, in tale ostinato e inarrestabile incedere, non fa che condannarsi all’esatto opposto, cioè a un irrimediabile livellamento ontico: il soggetto esiste, e dunque si concepisce, solo comparabilmente agli oggetti derivanti dalla sfera della propria produzione.

________________________________________________________________________

Note

  1.  Al fine di chiarificare questo specifico approccio semiologico, può rivelarsi utile proporne la seguente esemplificazione: l’attore/osservatore, nel lasso di tempo in cui esperisce i contenuti pubblicati dagli utenti del social network sulla home condivisa, potrà imbattersi in un post che ritrae una celebrità impegnata nella promozione dei diritti LGBTQ, a seguire intercetterà la story del proprio collega di lavoro alle prese con il decoupage e, scorrendo la home, potrà ammirare il selfie di gruppo che ritrae suo figlio sul London Bridge con i propri compagni di classe. La sequenza degli esempi proponibili entro questo genere di fruizione è potenzialmente interminabile. Sorgono spontanee due domande: nell’esperienza dell’attore/osservatore (l’utente social) qual è il nesso di significanza fra i significanti (post, selfie, stories)? È rinvenibile una funzione sintattica fra gli elementi passati in rassegna? Dalla disamina proposta emerge chiaramente l’assenza di un nesso fra i contenuti che si susseguono entro il flusso inarrestabile delle produzioni social. Paradossalmente l’esperienza del soggetto (l’utente social) assume significato nella fruizione e produzione di contenuti che, tra loro – il più delle volte – non intrattengono alcun legame. Si tratta, per l’appunto, di contenuti irrelati e auto-evidenti.
  2. L’eccesso di stimoli esterni a cui è sottoposto il sé soggettivo (fattore quantitativo) richiede un’ampia e profonda de-sensibilizzazione emotiva del soggetto stesso (fattore qualitativo), al fine di consentire al soggetto stesso una più agile gestione del sovraccarico informativo. La complessità di questo meccanismo percettivo è resa, più sinteticamente, nella categoria psicopatologica di ”analfabetismo emotivo”. Per ulteriori approfondimenti si veda Galimberti U. (2008), “L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani”, Feltrinelli, Milano.
  3. La visione distorta (dis-percezione) che si ha del proprio corpo è causata dall’eccessiva preoccupazione della propria immagine fisica. In questo caso il soggetto concentra la sua attenzione sull’aspetto esteriore complessivo o solamente su una zona circoscritta del proprio corpo. Nel momento in cui tale preoccupazione diviene una fonte ansiogena stabile, assumendo una chiara connotazione ossessivo-compulsiva, si parla di “dismorfismo corporeo”. La dismorfia si manifesta con maggiore evidenza nei soggetti con un basso livello di autostima, in particolar modo adolescenti, sia femmine che maschi.
  4. Il soggetto “contribuisce” alla produzione della propria identità e dell’identità altrui, attivando specifiche pratiche di qualificazione (Casilli, 2020): attraverso i post, i commenti su un blog, i pareri espressi all’interno di una pagina dedicata al cinema, i like e dislike su specifici canali tematici, i punti attribuiti su un forum di discussione, gli emoticon o gli hashtag che connotano il sentiment di una conversazione, il soggetto forma, e al contempo rivela, le proprie opinioni politiche, il proprio orientamento sessuale, le proprie credenze religiose. Il soggetto, in via generale, condivide e cede al mercato il proprio gusto e le proprie abitudini. Gli attribuiti identitari manifestati entro queste particolari pratiche espressive trasmutano in merce nell’esatto momento in cui assumono un prezzo. Il valore monetario di questa merce è dato – secondo i canoni tradizionali dell’economia politica – dal matching fra domanda e offerta dei beni summenzionati. L’offerta pertiene al soggetto economico corrispondente alla piattaforma, la quale per l’appunto vende i dati aggregati, mentre la domanda corrisponde, il più delle volte, a soggetti economici identificabili con i data brokers o con le società afferenti al targeting pubblicitario.
  5. Sulla base della distinzione classificatoria proposta da Fulvio Carmagnola nell’opera “Dispositivo. Da Foucault al gadget” (2015) reputo opportuno specificare che selfie e stories, in via sperimentale e dunque provvisoria, possono essere annoverati – in riferimento alle chiavi interpretative proposte da Michel Foucault in “Sorvegliare e Punire” (1976) e ne “L’uso dei piaceri. Storia della sessualità 2” (1984) – fra le tecnologie del sé, cioè fra quelle operazioni di ordine tecnologico-pragmatico che producono soggettivazione.
  6. La definizione “dismorfia da snapchat” indica la condizione psicopatologica nella quale i pazienti sottoposti a trattamenti di chirurgia estetica desiderano diventare come le versioni di sé ottenute attraverso l’applicazione dei “filtri” previsti dal selfie. Per ulteriori approfondimenti vedi Vashi Neelam, “Beauty and Body Dysmorphic Disorder: A clinician’s Guide”, Springer Science + Business Media LCC, 2015

Bibliografia

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