Il recente conseguimento dell’accensione da fusione nucleare – intesa come il punto in cui l’energia prodotta da una reazione di fusione autosostenuta supera quella immessa per innescarla – presso il National Ignition Facility (NIF) del Lawrence Livermore National Laboratory ha riacceso, in modo ineludibile, interrogativi latenti da decenni circa la possibile violazione del Comprehensive Test Ban Treaty (CTBT) on nuclear explosions, ovvero ilTrattato per la Messa al Bando Totale degli Esperimenti Nucleari da parte di determinati esperimenti.
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Fusione nucleare e trattato CTBT: un rapporto controverso
Le ricerche sulla fusione nucleare, tanto nell’àmbito civile quanto in quello militare, risultano intimamente interconnesse, malgrado i tentativi di celare gli arsenali nucleari dietro il rassicurante velo retorico dell’ “atomo per la pace”.
Sebbene l’ignizione sia stata effettivamente raggiunta, permane un silenzio “assordante” sulla questione, quanto mai cruciale, circa l’eventuale finalità programmatica della realizzazione di armi a fusione pura: ordigni capaci di provocare la morte di ingenti quantità di esseri umani mediante irraggiamento neutronico, ma con effetti d’onda d’urto notevolmente inferiori rispetto agli attuali dispositivi termonucleari.
L’eredità storica della fusione nucleare, tra propaganda e timori
Anche qualora tali armi non rappresentino un obiettivo esplicitamente dichiarato, si porrebbe comunque la questione della loro realizzazione pratica laddove la tecnologia della fusione ne rendesse possibile la fattibilità ingegneristica.
La ricerca sperimentale e teorica inerente la fusione nucleare ad uso civile e quella connessa alla progettazione di armamenti è da sempre vincolata da un nodo epistemologico e strategico, un nodo che risale agli anni ’50: in sèguito al test sovietico “a strati” del 1953, e al test statunitense Castle Bravo da 15 megatoni nel 1954 – entrambi afferenti alla tecnologia termonucleare – l’amministrazione Eisenhower si trovò costretta ad architettare una campagna di comunicazione scientifica capillare, il cui intento propagandistico era riabilitare l’immagine pubblica della tecnologia atomica sotto la formula rassicurante degli “atomi per la pace”.
La medesima dinamica si sta riproponendo oggi, in seguito al recente successo ottenuto dal NIF, con la significativa differenza che oggi l’opinione pubblica ignora se le armi a fusione pura rientrino nei piani strategici impliciti della ricerca.
Fusione nucleare: dall’incubo radioattivo agli atomi per la pace
In un’epoca segnata da tensioni geopolitiche crescenti e conflitti armati che coinvolgono potenze nucleari, è quanto mai urgente che gli Stati si schierino con fermezza dichiarando l’intenzione irrevocabile di non perseguire mai la realizzazione di armi a fusione pura. Occorre inoltre adottare misure precauzionali intermedie per contenere lo sviluppo di tale tecnologia fino a quando non sarà chiarita la sua collocazione strategica ed etica.
Il precedente storico del fallout e la genesi del tabù nucleare
Il test Castle-Bravo del 1° marzo 1954, svoltosi nell’atollo di Bikini, diede tragica concretezza agli avvertimenti summenzionati: l’ordigno liberò un’energia pari a 1.000 volte quella della bomba atomica sganciata su Hiroshima, contaminando con livelli quasi letali di radioattività l’atollo di Rongelap e la nave da pesca giapponese Lucky Dragon No. 5, provocando l’avvelenamento dei pescatori e della loro intera riserva ittica.
Il mondo giudicò l’evento “intollerabile”. Nel maggio dello stesso anno, il presidente Eisenhower dichiarò con amarezza: “Tutti sembrano considerarci puzzolenti sciacalli, guerrafondai e provocatori.” Il Segretario di Stato John Foster Dulles affermò che ormai si tracciavano “paralleli tra la nostra macchina bellica e quella di Hitler”.
Per esorcizzare tali incubi radioattivi, fu concepita la strategia comunicativa dell’“atomo pacifico”, eppure, le preoccupazioni non si placarono. Il Manifesto Einstein-Russell del 1955 avvertiva che un numero elevato di esplosioni idrogeniche sottomarine o terrestri avrebbe potuto diffondere radioattività su scala globale, provocando la “morte universale – immediata solo per pochi, ma per la maggioranza una lenta tortura di malattia e decomposizione”.
Nel medesimo spirito, lo Stato Maggiore congiunto delle Forze Armate statunitensi concluse che un’esplosione sottomarina come quella del 1946 a Bikini avrebbe generato “nebbie radioattive” capaci di condannare i sopravvissuti “alcuni in poche ore, altri in giorni, altri ancora in anni…”. L’esplosione, si legge nel rapporto, avrebbe avuto la “potenzialità di spezzare la volontà di nazioni e popoli attraverso l’attivazione delle paure primordiali dell’uomo: l’ignoto, l’invisibile, il misterioso.”
Da tali premesse nacque una duplice linea strategica nei laboratori statunitensi: da un lato, “ripulire” l’immagine pubblica della termonucleare mediante finalità civili; dall’altro, realizzare armi termonucleari a fusione pura, ossia prive del tradizionale innesco a fissione.
Fusione termonucleare pura: l’evoluzione scientifico-strategica dal 1957 in poi
La ricerca sulla fusione termonucleare con un volto pacifico ha visto una prima espressione nel 1957, quando Edward Teller e altri scienziati del Lawrence Livermore National Laboratory pensarono di generare elettricità utilizzando esplosioni termonucleari di dimensioni megatoniche in una vasta cavità sotterranea di mille piedi di diametro. Una proposta simile, questa volta con esplosioni sotterranee termonucleari da un kiloton ogni 20 minuti per alimentare una centrale elettrica da un gigawatt, fu avanzata da due scienziati di Livermore, mentre la Guerra Fredda stava finendo.
L’idea di eliminare la parte di fissione della bomba acquisì maggior consenso. John Nuckolls, un giovane fisico a Livermore a metà degli anni ’50, successivamente direttore del laboratorio, pose due questioni sulla fusione nucleare riassumibili in questo quadro: il concetto prevedeva di comprimere e riscaldare il combustibile termonucleare, generalmente una pallina di deuterio-trizio (D-T), a temperature e pressioni estremamente elevate per un tempo molto breve, provocando un’esplosione termonucleare. Bastava un milligrammo di combustibile D-T per generare un’esplosione da 50 megajoule—equivalente a circa 50 stecche di dinamite o 12 chilogrammi di TNT. Sebbene fossero possibili sia applicazioni belliche che energetiche, il programma fu finanziato dalla parte bellica.
Un gruppo da hectotoni invece che da megatoni fu creato a Livermore; l’idea era di creare un’esplosione di fusione senza un’esplosione di fissione; la chiamavano “fusione pura”: un hectotone sarebbe uguale alla forza esplosiva di cento tonnellate di TNT, mentre un megatone è pari a un milione di tonnellate di TNT. Se trasformate in bombe, le esplosioni di fusione pura non avrebbero i residui radioattivi altamente pericolosi delle esplosioni di bombe pure a fissione e termonucleari, anche se un po’ di radioattività si creerebbe sotto forma di prodotti di attivazione dei neutroni.
Un problema tecnico centrale era sostituire l’esplosione di fissione, il driver delle reazioni di fusione nelle bombe termonucleari, con un driver non nucleare in grado di riscaldare e comprimere il combustibile di fusione a temperature estreme (da 5 a 10 keV, ovvero circa 50 milioni a 100 milioni di gradi Kelvin) e pressioni.
Cominciarono ad essere esplorati laser, fasci di ioni pesanti e leggeri, banchi di condensatori ad alta tensione, esplosivi chimici e driver meccanici, come cannoni ad alta velocità per pellet. L’obiettivo? Un “guadagno” superiore a uno; in altre parole, più energia di fusione rispetto all’energia del driver usato per generare la fusione. Questo è noto come “accensione” nel contesto dei dispositivi di fusione per confinamento inerziale. Non sarebbe stato sufficiente per una produzione complessiva netta di energia, ma rappresentava il passo scientifico essenziale per dimostrare che la produzione netta di energia era tecnicamente realizzabile.
Un secondo problema doveva essere risolto per realizzare le armi a fusione pura: il dispositivo doveva essere abbastanza piccolo da poter arrivare verso un bersaglio. La maggior parte dei dispositivi era troppo grande per essere utilizzata come arma, anche se fosse stata raggiunta l’accensione. Combinava confinamento magnetico e inerziale, un plasma “caldo” (dell’ordine dei 100 eV), confinato magneticamente, successivamente ulteriormente riscaldato da un dispositivo esplosivo: questo concetto fisico fu concepito dal fisico sovietico Andrei Sakharov nel 1951, ed altri esperimenti vennero condotti nell’Unione Sovietica nel 1952.
La ricerca sulla fusione in laboratorio ebbe un grande impulso negli anni ’90, dopo che gli Stati Uniti cessarono i test nucleari e avviarono sforzi di laboratorio e di calcolo per studiare la fisica delle armi. L’obiettivo dichiarato era mantenere la “sicurezza e l’affidabilità” dell’arsenale nucleare statunitense con un’enorme iniezione di fondi e nuovi dispositivi.
Ora c’erano due nuove ragioni per perseguire con vigore la fusione pura. In primo luogo, la fisica della fusione in relazione alle armi termonucleari non poteva più essere studiata con esplosioni nucleari presso il Nevada Test Site. La sua esplorazione dipendeva dal calcolo, dalla teoria e dai dati derivanti dagli esperimenti di fusione pura in laboratorio. Lo strumento di laboratorio principale per la fusione doveva essere il gigantesco impianto a 192 laser del National Ignition Facility a Livermore.
In secondo luogo, l’Unione Sovietica si era disintegrata nel 1991. La sua economia era in crisi. Una grande preoccupazione riguardava la sicurezza delle armi nucleari e dei materiali lì presenti, e il destino di un milione di lavoratori nel complesso di armi nucleari russo. Molti erano in difficoltà economiche, in quanto alcuni di loro avrebbero potuto essere tentati di “vendere” le loro conoscenze in àmbito nucleare.
Una soluzione per ridurre il rischio era avere un programma finanziato dagli Stati Uniti di cooperazione tra scienziati delle armi americane e russe: uno di questi programmi fu la ricerca congiunta statunitense-russa sulla fusione a target magnetizzato, istituita a Los Alamos negli anni ’90.
Il 5 dicembre 2022, i 192 laser del National Ignition Facility a Livermore hanno innescato una produzione di fusione di 3,15 megajoule, circa il 50% in più rispetto all’energia in ingresso del laser: dall’inizio alla fine, ci sono voluti più di sei decenni di sforzi per raggiungere l’accensione.
Fusione nucleare pura: prospettive di armi senza tabù
È possibile che un dispositivo di fusione a target magnetizzato o un altro dispositivo di fusione pura altrettanto compatto possa essere trasformato in un’arma qualora si riuscisse a conseguire il guadagno di fusione necessario. Considerato che il problema del “guadagno” è comune a tutti i dispositivi di fusione, sia che si tratti di armi o di energia, il potenziale per un rapido apprendimento tra i vari dispositivi è oggi più grande che mai.
Ad esempio, esperimenti condotti in grandi impianti, come il National Ignition Facility, potrebbero fornire tecniche diagnostiche, approcci computazionali e intuizioni sulla fisica del plasma che potrebbero rendere possibile la realizzazione di armi a fusione pura. Attualmente, più di 140 strutture di fusione di vario tipo, sono in fase di progettazione, costruzione o operazione in oltre 50 paesi, con scopi che spaziano dallo studio della fisica del plasma alla ricerca di energia da fusione commerciale.
Le prospettive che tra queste ci sia la realizzazione di un’arma nucleare possa essere realizzata sono incerte, ma il conseguimento dell’ignizione presso il National Ignition Facility ha significativamente concretizzato tali possibilità, possedendo un ampio spettro di applicazioni militari, tra cui la funzione di bomba al neutrone.
Milioni di europei si opposero al dispiegamento delle bombe a neutroni negli anni Ottanta, temendo che fossero progettate per uccidere le persone mantenendo intatti gli edifici. Gli europei temevano giustamente che le bombe a neutroni potessero essere utilizzate in Europa in risposta a un ipotetico attacco da parte dei sovietici, grazie alla loro presunta superiorità travolgente nelle forze convenzionali.
La verità riguardo ad esse negli anni Ottanta era più complessa: la maggior parte della loro energia si trovava nei neutroni, ma con un rendimento di circa una kilotone, erano comparabili, o addirittura superiori, ad altre armi nucleari tattiche. Il quaranta per cento della loro potenza esplosiva derivava dal meccanismo di innesco da fissione, tuttavia, la potenza esplosiva elevata e la ricaduta di prodotti di fissione rimanevano ancora fattori limitanti nell’uso militare, soprattutto nei paesi alleati.
Tali barriere non esisterebbero con le piccole bombe a fusione pura: 100 bombe a fusione pura da una tonnellata, per un totale inferiore all’uno percento della potenza esplosiva della bomba di Hiroshima, utilizzate su obiettivi non sovrapposti, avrebbero un’area di radiazione neutronica letale comparabile, o addirittura maggiore alla predetta bomba ma con danni da esplosione assai minori, non essendovi una ricaduta di prodotti di fissione. Questo “tabù nucleare”, così come esiste, potrebbe svanire con l’avvento delle bombe a fusione pura.
Fusione e silenzi: la minaccia taciuta al trattato CTBT
Il silenzio ufficiale sulla questione delle armi a fusione pura, da quando è stata raggiunto l’accensione nel dicembre 2022, è stato accompagnato dalla mancanza di attenzione alle conseguenze per l’integrità del Trattato CTBT. Con 3,15 megajoule, l’uscita di fusione equivaleva al rilascio dell’energia di tre componenti di dinamite in una frazione di nanosecondo: un’esplosione a dir poco umanamente inconcepibile in qualsiasi progettazione tecnica.
A tal riguardo, il Trattato CTBT nel primo paragrafo dell’Articolo I del trattato afferma: “Ogni Stato Parte si impegna a non effettuare alcun test nucleare o qualsiasi altra esplosione nucleare, e a proibire e prevenire ogni esplosione nucleare in qualsiasi luogo sotto la sua giurisdizione o controllo.” Non ci sono eccezioni.
Tuttavia, la storia diplomatica della fusione per confinamento inerziale si trova nella nebbia più fitta: le richieste del Sud Globale per un divieto completo dei test aumentarono intensamente a metà degli anni Novanta, poiché il Trattato di Non Proliferazione Nucleare (TNP) stava per scadere nel 1995, a meno che non fosse stato esteso dagli Stati Parte: una proroga permanente fu ottenuta nel maggio del 1995.
Il trattato si occupava esclusivamente delle esplosioni nucleari, senza eccezioni e senza riferimento a dispositivi, armabili o meno: questa problematica fu riconosciuta già molto tempo addietro; ciononostante, vi sono numerosi altri potenziali incroci tra la ricerca sulla fusione e lo sviluppo di armi: il predetto fisico russo Andrei Sakharov aveva già proposto, all’inizio degli anni Cinquanta, che l’uranio 233 e il plutonio 239, entrambi utilizzabili per armi di fissione, potessero essere prodotti utilizzando neutroni derivanti da reazioni di fusione per irradiare il torio 232 non fissionabile e l’uranio 238, rispettivamente.
Attualmente, vi è un ampio numero di progetti energetici di confinamento magnetico in corso a livello mondiale. L’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AEIA) ha preso atto di questa problematica, affermando che tali attività “potrebbero essere soggette alle salvaguardie dell’AIEA”; tuttavia, non sono ancora stati stipulati accordi di salvaguardia in tal senso. Sarebbe altresì prudente adottare salvaguardie per la produzione di trizio.
Il confine sfumato tra energia e armamenti nella fusione pura
Le armi a fusione e l’energia da fusione si sono incrociate sin da quando il mondo reagì con ripulsa ai livelli quasi letali di fallout derivanti dal test termonucleare Bravo del 1954. Le esplosioni di fusione pura, che sarebbero due ordini di grandezza inferiori alla bomba di Hiroshima, costituivano parte della risposta dell’establishment delle armi. Tuttavia, raggiungere un “guadagno” maggiore di uno si rivelò estremamente difficile: superare quella soglia utilizzando la fusione laser nel dicembre 2022 ha portato le questioni relative alle armi e alle esplosioni a fusione pura fuori dalla tematica nucleare meramente accademica.
In un periodo in cui ingenti somme di denaro stanno confluendo nell’energia da fusione, e l’Orologio dell’Apocalisse è più vicino alla mezzanotte che mai, è urgente e fondamentale un impegno inequivocabile a non sviluppare armi a fusione pura. Lo sono altrettanto i limiti alla ricerca sulla fusione che implica la sua accensione per proteggere l’integrità del trattato CTBT.
(Fonte: BotAS)