L'analisi

Imprese al tempo dell’IA, il ruolo di competenze e formazione per cavalcare la rivoluzione senza subirla

L’intelligenza artificiale sta imprimendo un cambiamento radicale nel modo di lavorare e nel rapporto con le macchine: una condizione con cui le aziende di ogni dimensione sono chiamate a confrontarsi. Competenze e formazione, oltre a oculate azioni di politica industriale, possono sostenere un cambiamento positivo

Pubblicato il 10 Mar 2023

Giovanni Baroni

Presidente della Piccola Industria e vice presidente di Confindustria

AI (immagine: https://pixabay.com/it)

L’intelligenza artificiale è un tema di cui si discute ormai da oltre settant’anni ma solo oggi, forse, ha la forza di imprimere alla società un segno ben più profondo di quanto abbiano fatto le rivoluzioni industriali e tecnologiche precedenti, grazie a big data, elevate capacità computazionali e algoritmi più performanti.

L’IA ha la capacità di ridefinire il nostro modo di lavorare, di interagire tra noi e con la realtà, ma soprattutto con gli oggetti e le macchine. Sempre più dispositivi potrebbero operare in autonomia, senza il diretto intervento umano. Parliamo di un’accelerazione dirompente, capace di aprire innumerevoli fronti di riflessione, di sfida e di azione: dall’acuirsi della concorrenza tecnologica internazionale ai rischi di aumento del digital divide, dai possibili impatti su consistenza ed efficacia dei nostri diritti come cittadini o consumatori, alle tutele sul lavoro, fino a porre interrogativi sullo stesso “futuro del lavoro”.

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Ci sono quindi tre diversi livelli su cui siamo chiamati a confrontarci come cittadini, imprese e istituzioni:

  • un piano sociale, inerente al rapporto che l’intelligenza artificiale avrà con l’individuo, ovvero con i suoi diritti e il suo ruolo nel lavoro e nella società;
  • uno industriale, in una matrice che riguarda tanto i produttori quanto i consumatori e che coinvolge software, hardware e competenze;
  • uno strategico e geopolitico: ovvero la competizione internazionale, in particolare tra Europa, Stati Uniti e Cina per la leadership e la costruzione di sistemi di IA proprietari, oltre che di raccolta ed utilizzo dei dati.

IA e lavoro, perché serve attenzione all’etica

Rispetto al primo tema è confortante la grande attenzione dedicata all’etica dell’IA, a scongiurare e ridurre i pregiudizi e gli errori nell’addestramento, così come a imporre limiti ai sistemi di creazione di contenuti multimediali verosimili e potenzialmente rischiosi per la stessa vita comune. Paletti e regole che sempre di più il sistema educativo dovrà supportare assicurando nelle nuove generazioni la capacità di discernere tra virtuale e reale, affinando il loro senso critico.

Le tecnologie digitali e l’intelligenza artificiale stanno infatti dimostrando sempre di più che il problema non sono le risposte, ma porsi le giuste domande. Nel momento in cui l’80% di un codice può ormai essere generato da un software e in cui i testi sono prodotti in modo quasi immediato, c’è sempre più spazio per interrogarsi sul senso di quello che stiamo facendo e sugli obiettivi che vogliamo raggiungere. Rimane quindi lo spazio per il pensiero critico, strategico, utile a cogliere a pieno la componente di progresso di ogni lavoro.

L’importanza cruciale delle competenze

Anche in azienda, la possibilità o meno di rivoluzionare il proprio business o i propri processi di lavoro con la digitalizzazione sottende la capacità di analizzarli, comprenderne i benefici potenziali e utilizzare le tecnologie quale strumento per coadiuvare un cambiamento profondo. Ritengo, quindi, più che condivisibili le parole di Satya Nadella, presidente e amministratore delegato di Microsoft, che ha definito l’intelligenza artificiale “un copilota per i lavoratori del futuro”, capace di aiutarli nei loro compiti piuttosto che sostituirli completamente.

Assistiamo oggi, con un misto di stupore e preoccupazione, alla rapidità con cui la digitalizzazione sta pervadendo le nostre vite e le nostre imprese. È ormai una dimensione imprescindibile e indivisibile dal mondo “fisico”, tanto che, come ricorda anche il filosofo Luciano Floridi, è ormai insensato chiedersi se siamo online o offline. Ogni azione è oggi aumentata, ovvero, pur se realizzata nel mondo fisico, è coadiuvata da informazioni o supporto digitale.

Ne consegue che il tema delle competenze va affrontato da due punti di vista: nella ricerca di personale adeguatamente preparato già al suo ingresso in azienda e nella necessità di reskilling dei collaboratori già presenti, oltre alla formazione continua per entrambe le categorie. Perché con l’avanzamento tecnologico e la continua diminuzione dei costi di accesso alla digitalizzazione, nonché con le possibilità di outsourcing offerte dal cloud, le nuove barriere all’ingresso sono diventate le competenze. Le nostre imprese soffrono già adesso il mismatch tra domanda e offerta di lavoro, molte delle quali si riferiscono alla precedente rivoluzione informatica. Secondo gli ultimi dati Unioncamere Excelsior, sale al 46,2% la difficoltà media di reperimento (+5,9% rispetto a febbraio 2022) e la mancanza di candidati si conferma la principale motivazione del mismatch, in crescita rispetto allo scorso anno (+5,4%).

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IA in azienda, cosa dicono i dati OCSE e ISTAT

Un tema che è forse il vero gap tra le imprese di maggiori dimensioni e quelle più piccole. Nonostante l’attenuante che nelle PMI la formazione sia meno strutturata e rendicontata rispetto alle imprese più grandi, sia i dati ISTAT sia OCSE certificano una distanza rilevante tra le piccole e medie imprese che offrono formazione ICT a specialisti non informatici rispetto alle grandi imprese (nei Paesi OCSE, nel 2020 15,5% delle piccole imprese, 34,1% delle medie e 61,6% delle grandi). Poiché le PMI che formano le competenze ICT dei propri dipendenti sono meno numerose rispetto alle grandi aziende, il divario persiste o si amplia. L’OCSE sottolinea che non avere al proprio interno almeno un’alfabetizzazione digitale di base aumenta il rischio di affidarsi esclusivamente a soluzioni “off-the-shelf”, divenendo dipendenti dalle piattaforme di cloud e non comprendendo a pieno le potenzialità della digitalizzazione e di come sfruttarle nella propria impresa.

Per questo, con riferimento più particolare all’intelligenza artificiale, il rischio è che acuisca ancora di più il divario già esistente tra i “front-runner” e le realtà che faticano di più a stare al passo nella trasformazione digitale. Secondo ISTAT, nel 2021 solo il 6,2% delle imprese ha dichiarato di utilizzare sistemi di intelligenza artificiale, contro una media dell’8% in UE; in particolare, la percentuale di piccole imprese si attesta al 5,3%, contro il 24,3% delle grandi imprese.

Un dato allarmante, se consideriamo che, nei paesi OCSE, le PMI rappresentano il 99% di tutte le imprese e tra il 50% e il 60% del valore aggiunto, e due persone su tre sono impiegate in una piccola o media impresa. Percentuali che in Italia raggiungono, nel 2020, oltre il 64% del valore aggiunto e il 78,5% degli occupati e che richiedono un intervento a livello di sistema. Perché se una digitalizzazione diffusa tra le imprese di minori dimensioni può portare a benefici per tutto il Paese, in particolare anche per le comunità locali e i territori più in difficoltà, è altrettanto vero che non è possibile affidare alle sole imprese il compito di compiere questa continua trasformazione.

Il ruolo di Confindustria e dei Digital Innovation Hub

È quindi per intervenire sul secondo punto, quello industriale, che insieme ad Anitec-Assinform, l’Associazione di Confindustria delle imprese ICT, abbiamo avviato un roadshow di incontri sui territori. L’obiettivo che ci siamo posti è informativo e, soprattutto, di stimolo. Abbiamo provato a fornire alle imprese esperienze che suscitassero in loro delle domande, ma più ancora spunti che potessero spingerle a riflettere su come adottare soluzioni innovative. È infatti fondamentale favorire l’accesso delle PMI alle possibilità fornite dall’intelligenza artificiale, poiché sono proprio le imprese di minori dimensioni che, in alcuni campi, potrebbero trarne un’utilità marginale superiore alle grandi imprese: in un regime di minor fatturato e di personale più limitato, poter ridurre costi non essenziali e affidare nuove mansioni ai collaboratori può imprimere una spinta molto più rilevante che in una grande impresa. La diffusione dell’IA tra le PMI potrebbe assicurare benefici, tra gli altri, in termini di miglioramento dell’efficienza, rispetto dei criteri ESG, personalizzazione del servizio clienti, analisi delle tendenze future del mercato, prevenzione e analisi dei rischi, supporto alle risorse umane.

L’attenzione alle filiere e alla trasformazione industriale è un elemento determinante anche nei lavori dei Digital Innovation Hub, che collaborano alla realizzazione di questo ciclo di incontri che abbiamo avviato sul territorio. È, infatti, fondamentale il supporto che la rete dei DIH di Confindustria può assicurare alle PMI, grazie alle loro attività di sensibilizzazione e di orientamento. In particolare, hanno sviluppato competenze specifiche nella valutazione della maturità digitale attraverso l’utilizzo di uno strumento di assesment elaborato dal Politecnico di Milano, e ad oggi hanno affiancato circa 2mila imprese nella compilazione del questionario, supportandole nella comprensione e nell’analisi dei propri processi produttivi.

Infine, voglio ricordare che il percorso che faremo sui territori non è unidirezionale: sarà anche l’occasione per ascoltare le imprese che parteciperanno, sia per comprendere le difficoltà e i limiti più rilevanti che incontrano nel loro percorso di adozione delle tecnologie digitali avanzate, sia per rappresentarli nell’interlocuzione con il Governo e i Ministeri, in virtù del nostro ruolo di principale associazione datoriale italiana.

IA e imprese, lo scenario

Secondo il Global DataSphere Forecast di International Data Corporation, la quantità di dati creati nei prossimi tre anni sarà superiore ai dati creati negli ultimi 30 e nei prossimi cinque anni saranno creati più di tre volte i dati del quinquennio precedente. Una crescita esponenziale la cui responsabilità è solo in parte umana, poiché nel 2021 circa il 40% del traffico Internet è stato generato da macchine che dialogano tra loro.

Una percentuale che continuerà a crescere, se consideriamo che, secondo il WEF, entro il 2030 il numero di dispositivi collegati in rete dovrebbe raggiungere la cifra di 125 miliardi a livello globale. I dati, quindi, saranno estremamente disponibili e la sfida sarà riuscire a raccoglierli, classificarli adeguatamente e saperli elaborare. Un processo che favorirà anche l’interconnessione tra imprese e diminuirà i costi di transazione: se quindi da un lato ha senso ragionare dividendo tra piccole, medie e grandi imprese, dall’altro sempre di più il tessuto produttivo sarà interconnesso e interdipendente, fatto di filiere ed ecosistemi. Le PMI sono già oggi attori strategici nelle catene globali del valore, svolgendo spesso un ruolo chiave nelle catene di fornitura delle grandi imprese.

Secondo la JDA & KPMG Digital Supply Chain Investment Survey 2019, Intelligenza Artificiale e Machine Learning sono considerate le tecnologie di maggior impatto per il futuro anche per la loro ampia applicabilità e la possibilità di affrontare problemi complessi lungo tutta la filiera. Una potenzialità che ha acquisito sempre più rilevanza a seguito degli shock della pandemia e dall’attacco russo all’Ucraina, oltre che alle tensioni geopolitiche tra Stati Uniti e Cina. Tocchiamo qui il terzo punto, ovvero la necessità di interrogarsi, a livello associativo e come Paese – ma direi come Europa – su quale ruolo possono svolgere le nostre imprese nella trasformazione digitale, ormai 5.0.

L’importanza delle politiche industriali

Di fronte al Chips Act e all’Inflation Reduction Act americano e ai piani quinquennali cinesi, occorre chiedersi se vogliamo essere solo consumatori o anche produttori. Se vogliamo riaffermare la manifattura e l’industria nel continente europeo o porci solo agli estremi della smiling curve.

La politica svolge, infatti, un ruolo fondamentale nel consentire alle PMI di adattare i propri modelli e pratiche aziendali all’economia digitale. Dopo la pandemia, in particolare, abbiamo a disposizione rilevanti risorse per imprimere una trasformazione sostanziale al nostro Paese. Basti ricordare che il PNRR destina oltre 40 miliardi alla digitalizzazione. Ma le risorse finanziarie non bastano, per quanto ingenti. Studi recenti mostrano che sono state le PMI che hanno ricevuto una combinazione di sostegno finanziario e non finanziario, come la formazione delle competenze, quelle che hanno avuto la trasformazione digitale più significativa.

Occorre, quindi, riattivare e rafforzare il piano Impresa 4.0 e intervenire sulle criticità che hanno portato a una digitalizzazione molto spostata sulla parte hardware e dei macchinari e meno sulla componente immateriale e di competenze. Siamo consapevoli, inoltre, che l’eterogeneità della popolazione imprenditoriale e la diversità dei rispettivi ecosistemi aziendali rendono complessa la progettazione di politiche efficaci. Una sfida che per questo richiederebbe una maggiore sinergia e collaborazione con il mondo imprenditoriale.

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