La personalizzazione dell’intelligenza artificiale è un processo fondamentale per trasformare strumenti generici in alleati precisi, capaci di rispondere in modo coerente e utile alle specifiche esigenze individuali.
Solo così possiamo evitare di subirne passivamente gli effetti e sfruttarne appieno il potenziale. Questo approccio si rivela decisivo nel momento in cui l’AI entra nei flussi di lavoro quotidiani.
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Personalizzazione dell’intelligenza artificiale come scelta strategica
Gli strumenti di intelligenza artificiale funzionano meglio non se guardi, copi e incolli quello che fanno gli altri, ma se li progetti per essere proprio i tuoi assistenti, con il tuo tono di voce, il tuo modo di fare le cose, persino di lavorare: se non facciamo pratica, infatti, il rischio è quello di subire passivamente non solo tutta la narrazione che abbiamo provato a scardinare fin qui, ma anche questi strumenti.
Prima o poi le AI diventeranno integrate in software e dispositivi che usi già – banalmente, smartphone, tablet e computer – e le esperienze utente saranno più agevoli. A quel punto, ciò che farà la differenza non sarà necessariamente il modello che scegli (miglioreranno, si equivarranno, alcuni saranno migliori di altri in compiti specifici) ma la tua capacità di personalizzare l’assistente che userai, di creare i tuoi assistenti per fare le cose come dici tu.
Allenare l’AI al proprio stile e metodo di lavoro
Le intelligenze artificiali non sono strumenti neutrali. Si basano su dati, su scelte fatte a monte, su modelli di addestramento che rispondono a logiche specifiche. Se non impariamo a intervenire, se non diamo alle macchine il nostro contesto, il nostro modo di lavorare e le nostre regole, rischiamo di trasformarle in strumenti che decidono per noi invece di aiutarci a prendere decisioni.
Personalizzare un AI non significa semplicemente scegliere un nome per il proprio chatbot o dargli un’icona riconoscibile, ma ad- destrarlo a riconoscere il nostro stile, a organizzare le informazioni nel modo in cui ci serve, a supportarci nei nostri flussi di lavoro. Significa insegnargli come pensiamo e non solo come scriviamo. È un processo che richiede tempo, pratica e sperimentazione, ma è anche l’unico modo per evitare che siano gli strumenti a definirci, invece del contrario.
Acquisire competenze per un uso consapevole e autonomo dell’AI
Purtroppo, se non si studia e se i costi diventano elevati (il piano di abbonamento Pro di ChatGPT costa 200 euro al mese) rimarranno un lusso per pochi.
Se non altro, l’accesso agli strumenti e alle tecniche di personalizzazione è già possibile, anche per chi non è uno sviluppatore. OpenAI, Meta, Anthropic e altri stanno spingendo sempre più verso modelli che consentono agli utenti di creare versioni personalizzate delle AI. Ma la vera questione non è se possiamo personalizzarle, bensì se sappiamo farlo. E per saperlo fare, dobbiamo cambiare prospettiva: non usare le AI come scatole nere, ma come strumenti che possiamo modellare. Se non lo facciamo, qualcun altro lo farà per noi e ci ritroveremo risposte medie e spesso mediocri anziché dei potenziatori del nostro lavoro, delle nostre competenze, della nostra creatività.
Progettare casi d’uso mirati per una personalizzazione efficace
La prima cosa da fare è senz’altro imparare a progettare e scrivere un caso d’uso che risponda alla domanda: come vogliamo usare l’AI? Questo passaggio è cruciale, perché senza una direzione chiara rischiamo di ottenere risposte generiche e poco efficaci: ChatGPT e le altre sono macchine general purpose, sono generaliste, sei tu che devi decidere come usarle. E non sono dotate di creatività autonoma, ma funzionano al meglio se sai cosa fare.
Qual è l’obiettivo principale dell’uso dell’AI? Deve aiutare a scrivere testi più rapidamente, migliorare la qualità della scrittura, fare analisi dei dati, sintetizzare informazioni complesse o automatizzare determinate operazioni? Definire lo scopo permette di ridurre la di- stanza tra ciò che l’AI può fare e ciò che ci serve davvero.
Definire obiettivi e linguaggio per una comunicazione coerente
Un buon caso d’uso non si improvvisa. Occorre identificare il contesto in cui l’AI sarà utilizzata e capire quali sono le aspettative. Ad esempio, se il nostro obiettivo è migliorare la scrittura di articoli, potremmo chiederci: l’AI deve proporre scalette, suggerire titoli, generare interi paragrafi o semplicemente affinare testi già scritti? Ogni scelta influisce sulla qualità del risultato finale.
Un altro elemento chiave è il tono e lo stile che vogliamo mantenere. Se scriviamo contenuti professionali, dobbiamo istruire l’AI a mantenere un linguaggio formale e coerente con il nostro pubblico. Se invece produciamo post divulgativi o creativi, possiamo enfatizzare un tono più accessibile e coinvolgente. In ogni caso, la personalizzazione del linguaggio è essenziale per evitare testi anonimi o scollegati dal nostro modo di esprimerci.
Testare e integrare l’AI nei flussi di lavoro reali
Dopo aver delineato il nostro caso d’uso, bisogna passare alla fase di test. Le prime interazioni con l’AI servono a capire se le risposte sono allineate alle nostre aspettative o se richiedono aggiustamenti. Per esempio, potremmo fornire esempi concreti di testi già scritti per affinare la comprensione da parte del modello. Più l’AI riceve feedback, più diventa efficace nel generare contenuti su misura.
Infine, non bisogna dimenticare l’integrazione con il proprio flusso di lavoro. Se usiamo l’AI per scrivere articoli, ha senso integrarla con strumenti di revisione e pubblicazione. Se la usiamo per il customer care dobbiamo verificare che le risposte generate siano affidabili e coerenti con la nostra comunicazione aziendale. Ogni applicazione ha specifiche esigenze e va calibrata di conseguenza.
Se vuoi un modello per progettare un caso d’uso, dovrebbe essere fatto più o meno così.
- Obiettivo principale
(Qual è il problema o il bisogno che vuoi risolvere con l’AI?) [Descrivi il tuo obiettivo in modo chiaro]
- Ambito di applicazione
(In quale contesto verrà utilizzata l’AI? Esempio: scrittura, analisi dati, automazione processi, customer support, ecc.)
[Descrivi l’ambito d’uso]
- Funzionalità richieste
(Quali specifiche funzioni deve svolgere l’AI per essere efficace?)
- Generare testi/articoli
- Correggere e ottimizzare testi
- Sintetizzare documenti
- Rispondere automaticamente ai clienti
- Analizzare dati e creare report
- Creare immagini/video
- Altro: [Specificare]
- Tono e stile desiderato
(Come deve comunicare l’AI? Es. formale, informale, tecnico, persuasivo, narrativo)
[Descrivi il tono e lo stile]
- Input richiesti
(Quali dati o informazioni deve ricevere l’AI per funzionare correttamente?) [Esempio: testi pregressi, database, prompt dettagliati]
- Output desiderato
(Qual è il formato e la qualità del risultato che vuoi ottenere?)
[Esempio: report strutturato, articolo, risposte brevi, immagine, video, ecc.]
Istruzioni chiare e apprendimento contestuale dell’AI
Il primo passo per personalizzare un’AI è fornire istruzioni chiare e contestualizzate. Un’AI non sa chi sei, cosa fai e quale sia il tuo obiettivo, a meno che tu non glielo dica. Se apri un’interazione e scrivi una richiesta generica, riceverai una risposta generica e probabilistica. Se chiedi a un’AI di completare la frase “Il gatto è sul…”, avendo letto su un sacco di grammatiche italiano-inglese la frase “Il gatto è sul tavolo”, la macchina ti proporrà più probabilmente quella. Se però quel gatto lo metti dentro a un romanzo tipo quelli di Scerbanenco, allora diventa “… sul davanzale, immobile come un’ombra, gli occhi gialli spalancati nella notte. Sotto di lui, la città si stendeva in un mosaico di luci fioche, un labirinto di strade dove si consumavano crimini e solitudini. Era il solo testimone silenzioso di un delitto che nessuno avrebbe denunciato, il solo a sapere che dietro quelle finestre socchiuse si muoveva l’assassino, con il respiro pesante e la mano ancora sporca di sangue”1. Spostare il gatto dal tavolo è un modo per personalizzare l’output.
Analogamente, se spieghi chi sei, a chi ti rivolgi, qual è l’intento del tuo messaggio, l’output sarà molto più preciso e utile. Invece di lamentarci di come ci rispondono le AI dovremmo pensare che a volte il problema sono le domande.
Un livello più avanzato di personalizzazione riguarda la capacità dell’AI di apprendere dalle interazioni passate. Alcuni strumenti, come ChatGPT nella sua versione a pagamento, offrono una funzione di memoria: nel tempo, la macchina raccoglie informazioni su di te e le usa per rendere le conversazioni più coerenti. Ma anche quando
questa funzione non è disponibile o è limitata, possiamo aggirare il problema con un uso strategico delle istruzioni iniziali. Scrivere un prompt ben strutturato può fare la differenza tra ottenere un testo che sembra scritto da chiunque e uno che riflette davvero il nostro stile e il nostro pensiero.
Costruire assistenti AI personalizzati come estensione del pensiero
Il passaggio ulteriore è quello della creazione di un assistente AI personalizzato. Alcune piattaforme permettono di costruire veri e propri modelli customizzati, impostando regole fisse e database di conoscenza specifici. Questo è il punto in cui l’AI smette di essere un semplice strumento e diventa un’estensione del nostro modo di lavorare. Qui non si tratta solo di scrivere meglio o più velocemente, ma di costruire un sistema che ci supporti nel prendere decisioni, organizzare informazioni, generare idee.
Il rischio, se non lo facciamo, è di finire per usare le AI nel modo più banale possibile: come generatori automatici di testo che producono risposte generiche. Questo non solo è poco utile, ma è anche dannoso, perché porta a una standardizzazione dei contenuti e a un appiattimento del pensiero critico. Se tutti usano gli stessi strumenti senza personalizzarli, finiranno per scrivere nello stesso modo, ragionare nello stesso modo, produrre contenuti indistinguibili tra loro.
Apprendimento mimetico e memetico: insegnare il proprio stile e logica all’AI
L’apprendimento mimetico e l’apprendimento memetico sono due concetti fondamentali per comprendere come l’intelligenza artificiale possa essere modellata e utilizzata in modo efficace per i tuoi scopi. Non si tratta solo di far generare testi coerenti o imitare stili esistenti, ma di insegnare a un sistema a ragionare, adattarsi e rispondere in un modo che sia significativo per chi lo usa.
L’apprendimento mimetico si basa sul principio dell’imitazione. Esattamente come un bambino apprende osservando e riproducendo le azioni degli adulti, un modello di intelligenza artificiale può essere addestrato fornendogli esempi concreti del modo in cui un individuo scrive, struttura un discorso o affronta un problema. Non si tratta di copiare meccanicamente, ma di catturare schemi, toni, preferenze e modalità di esposizione. Fai leggere alla macchina come tu scrivi un post per LinkedIn e le chiedi di estrarre le regole per imitare lo stile. Ma la macchina funziona meglio. Ed ecco che interviene un’altra forma di apprendimento.
L’apprendimento memetico va oltre la semplice imitazione. Il termine “meme”, coniato da Richard Dawkins in Il gene egoista, indica unità di informazione culturale che si trasmettono e si evolvono nel tempo. Applicato all’intelligenza artificiale, significa insegnarle non solo uno stile, ma un intero sistema di pensiero, una logica di ragionamento, una modalità di organizzazione delle informazioni. Se l’apprendimento mimetico si concentra sulla superficie del linguaggio, quello memetico lavora sulla struttura profonda del pensiero.
Per ottenere un apprendimento mimetico efficace, è necessario fornire all’AI una varietà di esempi rappresentativi e specificare chiaramente quali aspetti sono essenziali. Se vogliamo che un’AI scriva come noi, dobbiamo darle non solo testi passati, ma anche indicazioni precise su cosa caratterizza il nostro modo di comunicare. Frasi brevi o lunghe? Domande retoriche? Tono formale o colloquiale? Citazioni e riferimenti? Tutti questi elementi devono essere evidenziati perché il modello possa integrarli nelle sue risposte. Le AI generative di testo possono essere usate anche in modalità meta-testuale: chiedi a loro di analizzare i tuoi contenuti e di generalizzare delle regole per offrirti dei semilavorati.
Apprendimento memetico: dalla personalizzazione linguistica alla costruzione logica
L’apprendimento memetico, d’altra parte, richiede un passo in più: bisogna insegnare alla macchina quali sono le connessioni logiche e i processi decisionali alla base della nostra produzione di contenuti. Questo può essere fatto, appunto, attraverso la formulazione di regole esplicite, l’inserimento di domande guida e la creazione di una struttura narrativa coerente. In altre parole, non ci limitiamo a mostrare all’AI come scriviamo, ma le spieghiamo perché scriviamo in quel modo e quali sono i principi che guidano le nostre scelte. A volte la macchina è più brava di noi a individuare pattern nel nostro modo di scrivere e a schematizzarli in regole.
La combinazione di questi due approcci permette di trasformare un’AI da semplice strumento di generazione automatica a vero e proprio assistente personalizzato. Così, invece di dover correggere continuamente gli output generati dall’AI, possiamo ottenere risultati utili fin dalla prima bozza, riducendo il tempo di revisione e aumentando la qualità complessiva del lavoro. Tuttavia, è un processo che richiede pratica e affinamento continuo: più si lavora con l’AI, più essa si adatta e migliora. Proprio come i modelli che ci stanno inondando e che, a volte, ci confondono.
Intelligenza aumentata e nuovi livelli di creatività
Per quanto sia difficile gestire i propri timori di perdere il lavoro, diventare inutili o essere rimpiazzati da una macchina, possiamo prendere in considerazione la possibilità che questi strumenti, anche se dovessero diventare molto più potenti, non ci sostituiranno del tutto, ma ci affiancheranno e amplieranno le nostre capacità. O meglio: possono anche sostituirci in alcuni compiti, soprattutto nelle attività ripetitive, ma solo se lo vogliamo, come successo a tantissimi lavori a seguito di passate rivoluzioni tecnologiche. Anche nei lavori creativi ci sono parti noiose che possono essere svolte meglio da una macchina, come la ricerca di refusi o di ripetizioni, la sintesi di documenti per capire se ha senso leggerli o la scrittura di testi richiesti dalla burocrazia. Così possiamo concentrarci su ciò che ci piace e aggiunge valore: la generazione di idee, di soluzioni, di progetti. Di sogni.
Con “creatività sovrumana” intendiamo la creatività potenziata da un software, che non è umano, ma che può elevare le possibilità creative oltre i limiti tradizionali, sia nostri sia della nostra specie. Dobbiamo iniziare a vedere questi strumenti come mezzi per realizzare ciò che prima ritenevamo impossibile. Pensiamo all’“impossibile possibile”: tutto ciò che oggi ci sembra irraggiungibile per mancanza di tempo, capacità o risorse potrebbe diventare fattibile con l’aiuto dell’intelligenza artificiale. Potremmo sbloccare nuovi livelli della nostra stessa intelligenza, invece di dare per scontato che le AI la riducano. Come ha sintetizzato il filosofo Maurizio Ferraris all’Internet Festival di Pisa: “Nel momento in cui le nostre preoccupazioni si rivolgono verso l’intelligenza artificiale, diamo per scontato di sapere che cosa sia l’intelligenza naturale, il che è tutt’altro che ovvio”.
Eliminare le barriere tra idee e realizzazione
Spesso ci chiedono: “Cosa posso fare con l’AI?” o “Cosa può fare l’AI per me?”. Dovremmo riformulare la domanda e capovolgerla: “Cosa non riesco a fare?”, “Cosa mi è difficile realizzare?”. Per esempio, io non so disegnare, neanche una casetta con il sole e i raggi, ma con un software posso ottenere rapidamente un bozzetto utile a esprimere un’idea. Molte persone trovano difficile scrivere, non perché non hanno fatto le elementari, ma perché scrivere richiede tempo e impegno e una predisposizione a questo tipo di espressione. Sono le persone che preferiscono telefonare, mandare un vocale o fare una riunione. Con le AI la differenza tra parlare e scrivere sparisce, anche concretamente: io posso mandarti un vocale e tu, con la trascrizione automatica, puoi leggerlo se non ti va di ascoltarlo. Abbiamo più possibilità, non meno.
Adottare l’AI solo quando serve davvero
Ciò che non dobbiamo fare è adottare un software solo perché è di moda o perché ci sentiamo costretti a farlo. Nel mondo della tecnologia e delle imprese, spesso si inserisce forzatamente un nuovo strumento nel flusso lavorativo senza una reale necessità. Se nel nostro lavoro quotidiano, creativo e non, non ne abbiamo bisogno, non dobbiamo sentirci obbligati a usarlo. Dubito però che qualcuno sia soddisfatto del modo in cui il lavoro oggi è organizzato e portato avanti e le nostre più grandi aspettative sono proprio in questa direzione, partendo dalla metafora di Tiago Forte di costruire un Second Brain a cui avere accesso per non dover tenere tutto a mente.
Forte, a cui viene spesso chiesto se l’AI sostituisce il suo metodo, risponde: “L’AI non rende inutile la creatività umana, la concentra all’inizio e alla fine del processo creativo”2.
Per citare una battuta di Alessandro Aresu, “Io sogno un’AI che compili per me i moduli che chiedono sempre gli stessi dati”, e se proprio dobbiamo accelerare qualcosa, meglio che si tratti della burocrazia, anche quella che non si presenta come tale. Nel prezioso lavoro di selezione delle startup più promettenti fatta da Stefano Gatti ogni tanto (e troppo poco) spuntano progetti come Yurts, “una startup fon- data nel 2022 che sviluppa una piattaforma che utilizza intelligenza artificiale generativa, agnostica rispetto agli specifici LLM utilizzati, progettata per integrarsi in modo sicuro e scalabile nei sistemi aziendali e governativi critici. La missione di Yurts è connettere le persone al proprio lavoro nel modo più efficiente possibile, trasformando la gestione della conoscenza e i flussi di lavoro aziendali su larga scala attraverso RAG (retrieval-augmented generation) e agenti AI”3.
Il tutto, però, tenendo conto uno dei rischi degli aumenti di produttività offerti da questi software, e cioè che il lavoro aumenti e non diminuisca.
Design thinking come strumento per guidare l’uso dell’AI
Per capire cosa delegare a un’AI e cosa no, può essere utile la sintesi di Ideo per introdurre il corso AI X Design Thinking: “L’AI è brava in compiti in cui le persone sono scarse e scarsa in compiti in cui le persone sono brave”.
Il design thinking è un metodo strutturato per affrontare la risoluzione di problemi, anche i cosiddetti “problemi stregati”, cioè quelli che cambiano quando cerchi di risolverli. Funziona perché il cambiamento è parte integrante di un metodo fatto di iterazioni e di microcambiamenti.
È molto utile nella progettazione di qualsiasi cosa, anche delle no- stre vite. Il primo passo è definire il problema giusto da risolvere: spesso ci fissiamo su difficoltà generiche (“non mi piace il mio lavo- ro”, “sono troppo stanco”), mentre analizzando meglio la situazione scopriamo che il problema reale è più specifico (ad esempio, la routine in ufficio, non il lavoro in sé). Oppure sì, proprio il lavoro, quando la produttività diventa l’unica ragione di vita.
Applicando il design thinking alla malattia più diffusa della nostra società, la stanchezza, possiamo scoprire per esempio che noi diamo per scontato che il lavoro sia quello che dà dignità e valore alle nostre vite, mentre quello che Filippo Pretolani chiama “nonlavoro” (tutto attaccato) sia un passatempo per perdigiorno. Scrive Pretolani nella sua newsletter Le fabbriche del nonlavoro4:
Il nonlavoro suona subito come una roba da principini, un capriccetto per chi non si sporca le mani e può permettersi di cincischiare. Se va bene ti prendono a schiaffoni. Più che a un capriccetto aristocratico prova a pensare a uno sciopero bianco, a un atto di resistenza. Io nonlavoro non tanto perché ho già risolto il problema di mettere insieme i pranzi con le cene. No. Io mi oppongo a una logica lavorista in cui da un lato si è con- dannati a lavorare nella ruota del criceto. Dall’altro ogni possibile guizzo di talento, ogni libero atto creativo viene immediatamente messo al soldo di una monetizzazione che uniforma tutto in un blob ingestibile.
Le AI devono farci lavorare tutti meno, senza guadagnare meno, perché la produttività non cambia. E perché a dare dignità alle nostre vita non è il lavoro: è l’indipendenza economica.
Design per tutti e AI come generatore di possibilità
Il bello del design thinking è che non serve essere designer professionisti per applicarlo. È il tema di un bellissimo libro di Ezio Manzini, Design, when everybody designs, che ci libera di un altro equivoco: usare queste tecniche senza avere le necessarie competenze professionali non è velleitario o rischioso. Stiamo parlando infatti di pensare in modo progettuale, cioè di applicare a quello che fai – qualunque cosa sia, anche decidere che studi fare – il design mode, cioè nelle parole di Manzini “il risultato della combinazione di tre doni umani: il senso critico (la capacità di guardare alle cose come sono e di riconoscere quello che non è o non dovrebbe essere accettato), la creatività (l’abilità di immaginare qualcosa che non esiste ancora) e il senso prati- co (la capacità di trovare modi possibili per far succedere quello che vogliamo)5.
Il design thinking è quindi la modellizzazione di un processo capace di riattivare, allenare e migliorare capacità che abbiamo sempre avuto e che abbiamo in parte perso, anche per colpa di quello che sempre Manzini chiama conventional mode, cioè l’adesione a modi di fare e di pensare tradizionali, trasmessi nel tempo e quindi rafforzati dalla loro durata. Quando confondiamo la tradizione con la realtà, ci areniamo. Per la matematica e sviluppatrice Grace Hopper, “«Abbiamo sempre fatto così» è la frase più pericolosa in assoluto”, perché significa che abbiamo dimenticato che i modi in cui facciamo qualcosa sono un’invenzione umana e, come tutte le creazioni umane, possono e devono essere migliorati, cambiati e anche, se necessario, abbandonati. Questo passaggio non è per niente facile e un’AI può aiutarci a generare tantissime idee in poco tempo e senza giudizio, che è una delle chiavi per arrivare, in breve tempo, a trovare un paio di idee giuste, da testare.
Prototipi e visualizzazioni rapide con l’aiuto dell’AI
Un’altra fase delicata per chi non riesce a spiegare le proprie idee, a parole o con uno schizzo, è la prototipazione dell’idea, che permetta di testarla. Un prototipo è un micro-cambiamento veloce da realizzare e poco rischioso da testare, qualcosa cioè che ci permetta di fare errori poco costosi.
L’AI offre anche strumenti concreti per la generazione e la visualizzazione delle idee. Ad esempio, si possono creare storyboard per illustrare concetti che altrimenti sarebbero difficili da comunicare. Posso generare un’immagine in pochi secondi anziché cercare foto di riferimento, oppure posso chiedere uno storyboard per uno spot pubblicitario, ottenendo rapidamente una sequenza visiva che renda l’idea più comprensibile.
Un esempio di prototipo un po’ più strutturato è quello delle piste ciclabili di corso Buenos Aires a Milano: inizialmente erano semplici strisce dipinte sull’asfalto, un test per verificare l’effettiva utilità dell’infrastruttura. Solo dopo che le persone hanno iniziato a utilizzarle sono state consolidate in maniera permanente.
Allo stesso modo, possiamo sperimentare piccoli cambiamenti nella nostra routine per vedere che effetto hanno, ma se ciò non è possibile, con l’AI possiamo visualizzare e testare idee in modo rapido e senza grandi investimenti oppure usarle per individuare gli ostacoli del processo creativo.
Un esempio interessante di ostacolo invisibile è quello di Franklin Leonard e la blacklist delle sceneggiature di Hollywood6. Anni fa Leonard, un produttore cinematografico, insoddisfatto dei criteri con cui venivano selezionati i copioni, chiese a 75 colleghi di segnalargli privatamente le migliori sceneggiature che nessuno aveva voluto produrre. Ne emersero film come Juno, Il discorso del re e Argo, opere che inizialmente erano state scartate, ma che poi hanno avuto un enorme successo. La lezione è che, nelle riunioni, le persone tendono a conformarsi al pensiero comune per paura di esporsi. Chiedere un’opinione in privato può rivelare valutazioni diverse. Lo stesso principio si applica all’uso dell’AI: può offrirci un confronto privo di condizionamenti emotivi e pregiudizi. La sua disumanità ci torna utile e spesso offre un punto di vista ingenuo e rinfrescante. La creatività si nutre di candore, non di sarcasmo.
“Nella mente del principiante ci sono molte possibilità, in quel- la dell’esperto poche”. Così scrive Shunryū Suzukiroshi, monaco e insegnante buddista giapponese, nel suo libro Mente zen, mente di principiante. Conversazioni sulla meditazione e la pratica zen. Si può non essere interessati alla meditazione, allo zen o a pratiche di consapevolezza simili, ma questo non impedisce di applicare subito su di sé e sul proprio lavoro questa piccola magia.
Dimentica, cioè, tutto quello che sai. Guarda con occhi nuovi, ingenui e puliti tutto quello che fai. Se non sai come si fa qualcosa puoi reinventarlo e una volta che l’avrai visto per la prima volta, con occhi diversi, potrai migliorare il tutto con la tua esperienza, che a questo punto tornerà preziosa. Oppure, se proprio non riesci a liberarti di tutto quello che sai, chiedi a un’AI, chiedendole di comportarsi come una absolute beginner.
Questi strumenti si rivelano utili anche in urbanistica, in architettura e nell’interior design, permettendo di visualizzare in tempo reale come potrebbe apparire un progetto prima della sua realizzazione. Ad esempio, durante incontri di progettazione partecipata nei quartieri, è possibile mostrare simulazioni interattive di come un’area cambierebbe con un nuovo parco giochi o un parcheggio, facilitando le decisioni collettive. Potresti provare nella prossima riunione di condominio (scherzo).
Dall’idea all’azione: AI come abilitatore creativo
L’importante è ricordare che questi strumenti non devono limitarci, ma espandere le nostre possibilità. La creatività non è solo avere idee, ma trovare il modo di realizzarle e comunicarle. Se l’AI ci aiuta a rendere tangibile ciò che prima era solo immaginato possiamo davvero trasformare l’“impossibile” in “possibile”.

Sitografia
1. https://chatgpt.com/share/e/67a57ce9-ccc8-8006-a203-4ae887438bfc
2. https://fortelabs.com/blog/will-artificial-intelligence-replace-the-needfor-
second-brains-entirely/
3. https://stefanogatti.substack.com/p/laculturadeldato-150
4. https://galliziofp.substack.com
5. Ezio Manzini, Design, when everybody design, The MIT Press, 2015.
6. https://www.ted.com/talks/franklin_leonard_how_i_accidentally_changed_
the_way_movies_get_made_jan_2018











