Lo smartphone, nel tempo, ha manifestato la sua natura eclettica: oggetto ipertecnologico elitario, vettore di socializzazione e parte irrinunciabile della vita quotidiana di miliardi di persone. Esso non viene più percepito come un mero strumento, ma come una vera e propria estensione del nostro organismo, un mezzo attraverso cui si comunica si intessono relazioni, all’interno di uno scenario fluido (Bauman, 2000) che mitiga il confine tra la vita reale e quella digitale (Khanna, 2016).
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McLuhan e la teoria del medium come estensione
Marshall McLuhan, negli anni Sessanta, aveva preconizzato questo destino per i mezzi di comunicazione tout court, gettando le basi di una visione sinottica ancora molto attuale. Nel suo lavoro Understanding Media (1964), lo studioso canadese affermava che “il medium è il messaggio”, anticipando una rivoluzione, culturale e al contempo antropologica, che avrebbe cambiato radicalmente il nostro modo di percepire il mondo che ci circonda, come tanti uomini e donne vitruviane. In questo senso, lo smartphone rappresenta la realizzazione più compiuta della profezia mcluhaniana, ossia un prolungamento, ideale e fattuale, del nostro organismo e della nostra mente. Lo smartphone diventa, quindi, medium protesico, che influenza decisamente il modo di comunicare, di socializzare, di costruire l’identità personale, in un’ottica meccanicistica la cui analisi lega teorie classiche e contemporanee.
Secondo Marshall McLuhan ogni mezzo di comunicazione, come spiegato, rappresenta l’estensione di una funzione umana. Nel libro Gli strumenti del comunicare lo studioso canadese sviluppa analiticamente questa intuizione: i media, sostiene, non sono neutri, ma modificano la percezione, la cognizione e la socialità dell’uomo (McLuhan, 2015). Ad esempio, il telefono è un’estensione della voce, l’auto dell’organismo umano e i media elettronici costituiscono il naturale prolungamento del sistema nervoso centrale. La popolare formula “Il medium è il messaggio” (McLuhan, 1967) sottolinea proprio questa aspetto, ossia conferma l’importanza del contenuto veicolato, ma afferma con forza che è la struttura del medium a produrre gli effetti più profondi, quelli che influenzano e modificano gli ambiti socioculturale e relazionale. In tale prospettiva, lo smartphone si palesa come il medium definitivo: potenzia simultaneamente vista, udito, tatto, parola, pensiero, configurandosi come il punto di convergenza multimediale di tutti i media sopracitati (Jenkins, 2014). Anche per Derrick de Kerckhove, allievo di McLuhan, lo smartphone rappresenta una “protesi cognitiva” che trasforma irreversibilmente l’esperienza esistenziale antropica in ogni suo aspetto (de Kerckhove, 2000).
Il corpo digitale: lo smartphone come protesi dell’identità
Il concetto di “protesi” è stato ampiamente analizzato in letteratura sociologico-mediologica per descrivere il rapporto biunivoco tra essere umano e tecnologia. In questo senso l’uso continuo dello smartphone ne fa, come spiegato, una sorta di organo esterno, si tratta di un dispositivo che è sempre con noi, nel quale depositiamo memorie, emozioni, desideri e che, in molti casi, gestiamo con la stessa attenzione e cura riservata al nostro corpo. Quest’ultimo si adatta alla tecnologia, e viceversa, attraverso un tipo di simbiosi che va ben oltre la semplice familiarità con l’oggetto, si tratta di una ristrutturazione del sé corporeo e mentale (Turkle, 2011).
La pervasività del dispositivo genera anche un mutamento identitario. L’utente diventa “profilo”, “account”, “storia da condividere”. La costruzione dell’identità avviene in tempo reale e in forma visiva, in uno spazio di esposizione continua (Marwick, 2013). Lo smartphone non solo estende il corpo, ma lo riscrive: è il teatro mobile della rappresentazione di sé. Altro indotto rilevante riguarda la trasformazione delle relazioni interpersonali: in un’epoca in cui le reti digitali competono con quelle fisiche, il dispositivo diventa il principale vettore di comunicazione. La socialità è sempre più mediatizzata, filtrata, performata attraverso lo schermo, ciò comporta vantaggi innegabili: accessibilità, immediatezza, connessione, ma anche nuove forme di fragilità.
Lo smartphone permette la “presenza assente” (Gergen, 2000): si è fisicamente in un luogo ma cognitivamente altrove. Questo crea situazioni paradossali: si è insieme, ma soli; connessi, ma isolati. Sherry Turkle (2011) ha definito questo fenomeno “solitudine condivisa”. L’intimità è sostituita dall’interazione continua, ma superficiale.
Inoltre, la comunicazione mediata dal dispositivo implica una selezione, un controllo, una gestione dell’immagine di sé. Ciò comporta una pressione performativa che si traduce spesso in ansia sociale, FOMO (fear of missing out), o dipendenza da approvazione (Andreassen et al., 2012).
La vetrinizzazione del sé nell’ecosistema digitale
La dimensione dell’identità digitale ha acquisito centralità nel rapporto con lo smartphone. I social media, fruiti principalmente tramite smartphone, hanno creato una cultura della visibilità in cui l’individuo è costantemente invitato a esporsi, raccontarsi, mostrarsi. Questo processo è stato descritto da Giovanni Boccia Artieri come “vetrinizzazione del sé” (Boccia Artieri, 2012): si è contemporaneamente soggetti e oggetti della comunicazione.
In tale contesto, la logica narcisistica diventa dominante. La cura dell’immagine, la ricerca di like, la costruzione strategica della propria “storia” configurano una nuova forma di egocentrismo connesso. Lo smartphone è lo specchio contemporaneo in cui il soggetto si guarda, si modella, si promuove (Codeluppi, 2012).
Tale narcisismo non è solo individuale, ma sistemico: è richiesto dall’ambiente mediale. McLuhan aveva già intuito che ogni medium modifica la coscienza e la percezione del sé (McLuhan 1967). Oggi, questa trasformazione è visibile nella costante tensione tra autenticità e costruzione, tra visibilità e vulnerabilità.
Prosumer, controllo e riorganizzazione spazio-temporale
Lo smartphone consente a ciascuno di diventare produttore di contenuti: testi, immagini, video, opinioni. Questo processo di disintermediazione ha eroso il monopolio dei media tradizionali, aprendo spazi inediti di espressione, ma anche di controllo. Il soggetto contemporaneo è un “prosumer”, per dirla con Toffler (1980), un consumatore-produttore, ma spesso inconsapevole del valore dei dati che genera.
L’uso dello smartphone produce una quantità enorme di informazioni che vengono elaborate da algoritmi, piattaforme, imprese tecnologiche. Il corpo prolungato dallo smartphone diventa anche corpo monitorato, registrato, predittivo. La libertà percepita si intreccia con nuove forme di sorveglianza invisibile (Zuboff, 2019).
Il medium, in questo caso, non solo è il messaggio, ma è anche il mercato, la merce e il controllo. Il villaggio globale iperconnesso ipotizzato da McLuhan è diventato anche un villaggio ipertracciato, in cui la comunicazione si trasforma in capitale.
Un’altra conseguenza radicale dell’uso dello smartphone riguarda la percezione dello spazio e del tempo. Il dispositivo consente una simultaneità inedita: si può essere in luoghi diversi nello stesso momento, dialogare con chi è dall’altra parte del mondo, accedere a informazioni passate, future, ipotetiche.
Lo smartphone dissolve le coordinate tradizionali dell’esperienza: non esiste più un “qui e ora” definito, ma un costante “altrove e ovunque”. Questo crea una nuova forma di temporalità accelerata, interrotta, frammentaria, che modifica la memoria, l’attenzione, la capacità riflessiva (Rosa, 2013).
Il tempo dello smartphone è il tempo dell’istantaneità. Ciò influisce su tutte le sfere della vita: lavoro, affetti, politica, cultura. L’esperienza viene compressa in uno schermo, e il vissuto diventa spesso una sequenza di notifiche.
idefinizione della soggettività e nuovi equilibri etici
Lo smartphone è un dispositivo tecnologico ma anche una protesi sociocomunicativa, un’estensione organica dell’individuo moderno, che funge da prolungamento della mente, della voce e della memoria; esso afferma la nostra presenza nel mondo, sia da un punto di vista digitale sia reale, combattendo, di fatto, la più grande paura dell’uomo ossia l’esclusione. In questo senso si inserisce in un processo di mediatizzazione radicale della vita quotidiana, in cui le dimensioni del tempo, dello spazio e della relazione vengono continuamente negoziate secondo una logica pervasiva e squisitamente ubiqua. Il sé si costituisce anche attraverso le notifiche, le immagini condivise e i messaggi inviati.
Il corpo sociale, come ricorda Derrick de Kerckhove, diventa “connettivo”, più che collettivo: siamo uniti da fili invisibili di dati che rendono il nostro apparato psico-cognitivo continuamente iperstimolato, ma anche più vulnerabile (de Kerckhove, 1996).
Sul piano sociologico, si delinea una ridefinizione della soggettività: l’individuo è sempre più “profilato”, “quantificato”, “visualizzato”, e spesso subordinato alla logica della performance mediale. La comunicazione non è più solo un veicolo tra persone, ma un atto di costruzione identitaria e simbolica, costantemente monitorata da uno sguardo collettivo che agisce come specchio e giudice (Codeluppi, 2007). È la logica della “vetrinizzazione sociale”, in cui lo smartphone diventa lo strumento attraverso cui mettiamo in scena la nostra esistenza.
Come ha osservato Sherry Turkle, siamo “insieme ma soli” (Turkle, 2012): la continua connessione produce spesso un’illusione di prossimità che cela una crescente incapacità di sostenere relazioni profonde, empatiche, corporee. Il digitale seduce e promette contatto, ma spesso sottrae tempo e qualità alla relazione.
Eppure, il giudizio non può essere semplicemente negativo o nostalgico. Lo smartphone è anche un mezzo di liberazione per molte soggettività marginali, uno strumento di accesso all’informazione, di partecipazione politica, di narrazione del sé altrimenti invisibile. La sua ambivalenza è strutturale. Come ricordava Luciano Floridi, la nostra epoca richiede una “infosfera” etica, in cui l’essere umano non venga schiacciato dalla tecnica, ma la governi consapevolmente (Floridi, 2017).
Guardando al futuro, la tendenza all’integrazione tra corpo e dispositivo si intensificherà: wearable technology, intelligenza artificiale conversazionale, interfacce neurali. In questo scenario, lo smartphone potrebbe essere solo un passaggio intermedio verso un “sé aumentato” permanente, in cui l’identità si dislochi tra biologia, software e reti. Ciò rende urgente un ripensamento critico e pedagogico della nostra relazione con le tecnologie mobili, soprattutto nei contesti educativi, familiari e politici.
In definitiva, il problema non è lo smartphone in sé, ma il modo in cui scegliamo di viverlo. Come protesi, può amplificare capacità comunicative e cognitive; come feticcio, può diventare una prigione invisibile. In un mondo sempre più mediatizzato, la sfida sarà quella di coltivare una nuova alfabetizzazione dell’attenzione, della presenza e della responsabilità sociale. McLuhan ci aveva avvisato: non siamo noi a usare gli strumenti, sono loro che plasmano noi. Sta a noi imparare a leggere, e riscrivere, il codice del nostro tempo.
Bibliografia
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