Da qualche giorno in rete si fa un gran parlare di un documentario Netflix che ha colpito l’immaginazione di diverse persone. È “The Social Dilemma”, che racconta con un mix di interviste e drammatizzazioni in forma di fiction le conseguenze pericolose dei social media sulle persone e sulla società contemporanea. Diretto da Jeff Orlowski, questo documentario è stato presentato per la prima volta al Sundance Film Festival del 2020 e lo ha distribuito Netflix a partire dal 10 settembre 2020.
L’argomentazione del documentario è piuttosto semplice: le grandi piattaforme di social media hanno creato un internet il cui unico obiettivo è tenere legate le persone allo schermo dello smartphone alla stregua di una dipendenza e vendere questo tempo agli inserzionisti pubblicitari in maniera efficiente e sistematica.
Il documentario è molto interessante perché funge da divulgazione di una serie di riflessioni ben note per chi si occupa di studiare le conseguenze politiche e sociali delle piattaforme digitali – Facebook e Google sono i brand più citati – inoltre ha il pregio di lasciare la parola ad una serie di protagonisti e testimoni dell’industria tecnologica dei primi anni del 2000 quando è cominciato a nascere il Web 2.0 e che adesso sono pentiti del proprio lavoro hanno assunto un atteggiamento di critica verso questo modo di concepire la tecnologia. Persone del calibro di Jaron Lanier (inventore delle tecnologie di realtà virtuale), Roger McNamee (investitore originario di Facebook), Cathy O’Neill (data scientist).
Il prodotto presenta però anche dei limiti legati alla visione ideologica e al particolare punto di vista espresso dai “protagonisti”.
Struttura e tesi del documentario
Il documentario si presenta come una raccolta di interviste, per un totale di ventuno personaggi che con la propria testimonianza sostengono l’idea centrale dell’argomentazione: i social media sono strumenti che creano dipendenza tramite strategie di conformismo e popolarità e usano questa dipendenza per fare moltissimi soldi grazie ad un pubblicità basata sull’attenzione.
Il punto di vista principale, il protagonista la cui voce funge da filo conduttore delle altre testimonianze è Tristan Harris, ex Google Design Ethicist e presidente del Center for Human Technology. Dalla sua voce veniamo a scoprire che si rese conto che da membro del team di Gmail c’era un aspetto del suo lavoro che era frustrante: nessuno stava affrontando il problema che la progettazione del client di posta di Google creava dipendenza dalle email. Come un novello Jerry McGuire decise di scrivere una presentazione che svelasse questo meccanismo, e proprio come nel film con Tom Cruise, dopo un breve periodo di notorietà sua e della sua idea, tutto finì nel dimenticatoio. Da qui prende le mosse il documentario che è strutturato in cinque capitoli introdotti da una diversa citazione.
Il primo capitolo è ispirato a Sofocle (“Nulla che sia grande entra nella vita dei mortali senza una maledizione”) che introduce il contesto generale del mondo tech contemporaneo: l’economia dell’attenzione, il capitalismo della sorveglianza, la centralità di dati e algoritmi.
Il secondo capitolo prende le mosse da una celebre frase di Artur C. Clarke (“Ogni tecnologia sufficientemente sofisticata è indistinguibile dalla magia”), in cui si usa l’analogia della magia come hacking della mente per introdurre concetti come il growth hacking e la manipolazione basata sulla dopamina rilasciata dal cervello quando riceviamo attenzione dai nostri amici nei social media.
Il terzo capitolo prende le mosse da una acuta osservazione di Edward Tufte – il celebre esperto di data visualization – sul linguaggio del settore IT (“Solo due settori chiamano i propri clienti “utente”: le droghe illegali e il software”) per introdurre temi come la dipendenza da social media (adulti, adolescenti e pre-adolescenti) e la costruzione computazionale di tale dipendenza (attraverso IA e raccolta dei dati).
Lo svelamento del quarto capitolo è lasciato a The Truman Show (“Perché Truman non mette in dubbio ciò che gli accade?” “Perché noi accettiamo la realtà del mondo come ci si presenta. È semplicissimo”) per introdurre temi come la filter bubble (gli algoritmi decidono per ognuno di noi cosa farci vedere e cosa no) e le sue conseguenze sociali come cospirazioni, fake news, populismo e crisi della democrazia.
L’ultimo capitolo è lasciato ad una citazione di Buckminster Fuller – il visionario designer americano delle cupole geodetiche degli anni ’50 – su utopia e distopia (“Se sarà utopia o oblio lo deciderà una gara a staffetta fino all’ultimo minuto”) per introdurre alla critica ad un modello imprenditoriale distorto (attenzione e sorveglianza) e alle sue possibili soluzioni (regolamentazione, privacy, limiti alla raccolta indiscriminata dei dati). Fin qui il documentario che chiude nei titoli di coda con una serie di consigli per difendersi da questa situazione (uno su tutti: eliminare dal cellulare le notifiche dei social media).
L’interesse del pubblico
Nei giorni scorsi incuriosito dal successo di questo documentario (al momento è al quarto posto nella top ten dei film più visti in Italia su Netflix) e dalla numerosa presenza di post sull’argomento nella mia rete di contatti, ho deciso di fare un piccolo questionario per sondare il gradimento da parte del pubblico. Su una base di poco più di 480 rispondenti, ho fatto alcune domande sia a chi ha visto The Social Dilemma che chi ancora non l’ha fatto. Tra coloro che l’hanno visto, è stato scoperto grazie ai suggerimenti di Netflix (39%) o su consiglio di un conoscente (26%), è piaciuto molto pur conoscendo l’argomento (73%) tanto che lo consiglierebbero ad un amico (89%) anche se più della metà si dice pessimista rispetto alle conseguenze dei social media sulla società (56%). Fra coloro che non l’hanno visto, la maggioranza dichiara di volerlo vedere (92%) perché sono stati incuriositi dal dibattito presente sui social (52%), si dichiarano in leggera prevalenza ottimisti sul futuro del rapporto social media – società (45%) anche se non mancano i pessimisti (41%).
Quindi nel complesso un documentario articolato grazie alle ricche testimonianze, non semplicistico, con una buona capacità divulgativa, che ha incontrato l’interesse del pubblico e la curiosità chi ancora non l’ha visto ma ne ha sentito parlare in rete.
I due limiti di “The social dilemma”
Per quanto mi riguarda però non posso fare a meno di far ricorso alle mie conoscenze di sociologo digitale, ovvero di chi studia gli effetti sociali delle piattaforme digitali, che pur apprezzando l’intento divulgativo, non può non notare alcuni passaggi.
In primo luogo, la visione ideologica del documentario (intesa come prospettiva di una parte specifica della società). Il documentario è ideologico perché il punto di vista è tutto interno al mondo di Silicon Valley. L’idea che emerge è che la tecnologia sia stata progettata in un modo errato, quindi bisogna cambiare la progettazione perché abbia un ruolo corretto. Quello che c’è di sbagliato in questa affermazione è che la tecnologia è frutto del contesto sociale che la produce: non è possibile una tecnologia non manipolativa in un contesto capitalistico avanzato come quello di Silicon Valley. Non è un caso che alcune argomentazioni siano deboli: per esempio, è vero che il piacere dell’uso dei social sia dovuto alla dopamina, ma siamo dipendenti dal neurotrasmettitore o dall’effetto sociale dell’interazione con la nostra rete di contatti? Un altro esempio: Tristan Harris per criticare i social media afferma che quando arrivarono le biciclette nessuno reagì negativamente, mentre chiunque abbia fatto studi sociali sulla tecnologia sa che la bicicletta come innovazione è un caso da manuale di come il sistema sociale non l’abbia accettata e abbia provato a riconfigurarla.
Qui arriviamo al secondo problema del documentario: i social media sono visti come tecnologie e non come media. Questa linea di interpretazione fa si che il problema della manipolazione sia tutto interno all’artefatto, mentre invece il problema riguarda anche e soprattutto i contenuti. Ovvero non possiamo prendercela – solo – con gli algoritmi se i no vax si lasciano incantare da altre teorie complottiste come Pizzagate, il motivo sta nella immagine del mondo che questo tipo di persone ha, che porta a preferire il consumo di alcuni contenuti e non altri. In soldoni se i no vax ricevessero tramite volantinaggio informazioni su nuovi complotti, sarebbero comunque interessati. Con buona pace degli algoritmi.
Conclusioni
In estrema sintesi, pur nell’ottimo lavoro svolto da The Social Dilemma nel dare la parola ai testimoni della rivoluzione della Silicon Valley, il problema è che proprio perché interni al sistema hanno difficoltà a vedere il quadro generale. Non è un caso che su 21 intervistati solo quattro siano scienziati sociali: Shoshana Zuboff (economista autrice del concetto di capitalismo della sorveglianza), Cinthia Wong (ex Human Rights Watch), Rashida Richardson (Rutgers Law School), Renèe Diresta (Stanford Internet Observatory). Ed è a queste quattro – forse non casualmente – studiose viene lasciato il compito di delineare il quadro generale: una nuova forma di capitalismo informazionale basata sulla sorveglianza degli utenti, le conseguenze politiche dei social media in mano a dittatori e populisti, le dinamiche sociali delle fake news diffuse dalle piattaforme.
The Social Dilemma è un buon documentario pur avendo una linea di attacco piuttosto riconoscibile, ma che risente del fatto di essere tutto interno alla Silicon Valley e alle sue forme economiche e culturali che non sono né casuali né circostanziali. È bene comunque aprire un dibattito quanto più ampio possibile su questi temi perché nel prossimo futuro la tecnologia sarà alla base della lotta politica fra costruttori di mondi (digitali) e abitatori di mondi.