IL’Autorità garante delle Comunicazioni ha da poco emanato un comunicato col quale ha annunciato che nella riunione del 7 ottobre 2025 sono state approvate le nuove regole per l’assegnazione della banda 24,25–26,5 GHz, completando così la regolamentazione della banda 26 GHz, già parzialmente assegnata nel 2018.
L’obiettivo è favorire lo sviluppo delle reti 5G, in particolare delle soluzioni di tipo Fixed Wireless Access. La procedura di assegnazione avverrà tramite gara competitiva, con modalità simili a quelle del 2018, ma con importanti novità economiche.
Gli operatori potranno infatti pagare le frequenze in rate annuali, beneficiando di una maggiore flessibilità finanziaria, e ottenere sconti sul prezzo di riserva se raggiungeranno obiettivi concreti di implementazione delle reti. In questo modo, l’Autorità intende incentivare gli investimenti effettivi e accelerare il dispiegamento del 5G.
È prevista inoltre una proroga di due anni per gli attuali utilizzatori della banda, per consentire una migrazione ordinata verso le nuove tecnologie. Le misure si applicano solo a questa banda e non pregiudicano future decisioni su altre frequenze.
È dunque così avviata la procedura del rinnovo delle concessioni delle frequenze rappresenta per il governo italiano, e per il ministro Urso, ministro delle Imprese e del Made in Italy, in particolare, un’occasione storica per ripensare radicalmente l’approccio alla politica delle telecomunicazioni. Dopo decenni di aste miliardarie che hanno drenato risorse agli operatori mobili, è giunto il momento di adottare una strategia più lungimirante: quella di rinnovare le frequenze ad un costo inferiore in cambio di impegni vincolanti di investimento nelle infrastrutture di rete, con particolare attenzione al 5G stand-alone.
Questo non sarebbe un favore agli operatori, ma una scelta strategica nell’interesse nazionale. Un governo che optasse per questa strada dimostrerebbe di comprendere che il valore per le casse pubbliche non risiede nell’incasso immediato di miliardi attraverso le aste, ma nella creazione di un ecosistema digitale avanzato che generi crescita economica, produttività e gettito fiscale nel medio-lungo periodo.
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Telco in Italia: vent’anni di aste e 24 miliardi bruciati
Per comprendere la portata del problema, è necessario ricostruire la storia delle aste delle frequenze in Italia. Nel 2001, in piena euforia della bolla tecnologica, gli operatori italiani sborsarono complessivamente 13,8 miliardi di euro per le frequenze 3G. Fu uno degli esborsi più elevati in Europa, e quell’onere finanziario colossale ha pesato sui bilanci degli operatori per oltre un decennio, rallentando il dispiegamento delle reti e l’innovazione dei servizi. Dieci anni dopo, nel 2011, con l’avvento del 4G, gli operatori dovettero mettere sul piatto altri 4 miliardi di euro, in un contesto di mercato già caratterizzato da pressioni competitive crescenti ed erosione dei margini. Il colpo finale è arrivato nel 2018 con le frequenze 5G: nonostante gli operatori fossero ormai in una situazione finanziaria critica, l’asta fruttò allo Stato la cifra record di 6,6 miliardi di euro.
Per fare un paragone con altri paesi europei della gara 5G, il prezzo unitario per MHz in banda 3,4–3,8 GHz è stato 7 volte a quello pagato in Irlanda, 4 volte quello pagato in Spagna e 3 volte quello pagato nel Regno Unito, anche a causa di una configurazione dei lotti (2×80 MHz e 2×20 MHz) che ha creato una scarsità artificiale e una “gara distruttiva” tra operatori.
In totale, considerando solo queste tre principali tornate, gli operatori mobili italiani hanno versato nelle casse dello Stato oltre 24 miliardi di euro. Si tratta di risorse sottratte agli investimenti in infrastrutture che, se fossero rimaste nella disponibilità degli operatori con l’obbligo di destinarle alle reti, avrebbero potuto trasformare radicalmente il panorama della connettività italiana.
Tlc, un mercato sotto pressione
Il problema non riguarda solo l’entità assoluta delle cifre versate, ma il momento storico in cui queste sono state richieste. Il settore delle telecomunicazioni mobili in Italia ha attraversato negli ultimi vent’anni una profonda trasformazione strutturale che ha eroso sistematicamente i ricavi degli operatori. La liberalizzazione del mercato e l’ingresso di operatori low-cost hanno innescato una guerra dei prezzi che ha drasticamente ridotto il ricavo medio per utente. I dati parlavano chiaro già nel 2019: secondo i dati di ASSTEL (contenuti in una audizione alla Camera il 9 aprile 2019 nell’ambito dell’indagine conoscitiva sul 5G della IX commissione parlamentare) tra il 2007 e il 2018 (anno dell’asta 5G) i ricavi del settore erano diminuiti del 25%, mentre la generazione di cassa si era più che dimezzata.
Bisogna anche guardare a questi numeri per comprende il grave impatto che ha avuto sul settore l’asta 5G in Italia. Parallelamente, l’Italia presentava già nel 2019 i prezzi più bassi d’Europa: con 10 euro si acquistavano 9,3 GB in Italia contro 4,8 GB in Francia, 3 GB in Spagna e solo 1,7 GB in Germania. Questo contesto di iper-competitività ha portato a una situazione paradossale: i consumatori hanno beneficiato di prezzi sempre più bassi e volumi di dati sempre maggiori, mentre gli operatori hanno visto i propri margini comprimersi fino a livelli insostenibili.
Il paradosso del 5G in Italia
Il caso delle frequenze 5G rappresenta il paradosso più evidente dell’approccio basato sulle aste onerose. Gli operatori hanno sborsato 6,6 miliardi nel 2018 per frequenze che, a distanza di anni, sono ancora largamente sottoutilizzate. La maggior parte delle reti 5G opera ancora in modalità non-stand-alone, con benefici limitati rispetto al potenziale rivoluzionario del 5G stand-alone che potrebbe abilitare applicazioni come la telemedicina avanzata, l’industria 4.0, l’agricoltura di precisione e la mobilità intelligente.
Le frequenze sono state assegnate, ma l’asta super onerosa ha rappresentato il freno a mano per gli investimenti necessari a realizzare queste potenzialità. Solo nella metà del 2025 gli operatori hanno iniziato a mettere in piedi reti 5G stand-alone. Abbiamo dunque una vasta copertura 5G ma di qualità inferiore rispetto al potenziale.
L’approccio alternativo: rinnovo gratuito con impegni vincolanti
Non tutti i Paesi europei hanno seguito l’approccio italiano. Alcuni governi hanno compreso che l’obiettivo strategico non è massimizzare l’incasso immediato, ma accelerare il dispiegamento delle infrastrutture digitali. Il rapporto di Mario Draghi sulla competitività europea ha dedicato ampio spazio proprio a questo tema, sottolineando come l’interesse nazionale sia creare le condizioni perché gli operatori investano massicciamente nelle reti.
Un rinnovo delle frequenze a costi ridotti non può ovviamente essere incondizionato. Certo, sarebbe stato meglio avere un rinnovo gratuito vincolato a impegni di investimento precisi, misurabili e sanzionabili: copertura territoriale con particolare attenzione alle aree rurali e interne, qualità del servizio garantita in termini di velocità e latenza, passaggio al 5G stand-alone con scadenze definite, investimenti di ammontare almeno equivalente alla stima della base d’asta, servizi speciali per la pubblica amministrazione a condizioni vantaggiose, e obiettivi di sostenibilità ambientale.
Ad ogni modo la recente decisione dell’Agcom segna un cambio di paradigma: del resto in altri settori regolati le concessioni sono da sempre legate a obblighi di investimento e qualità del servizio (pensiamo alla rete autostradale), non a gare basate sul massimo rialzo. Le frequenze mobili, infrastruttura critica dell’economia digitale, dovrebbero seguire lo stesso principio.
In questo nuovo paradigma, il Ministero delle Imprese e del Made in Italy e l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, ciascuno per i propri ambiti di competenza, assumerebbe un ruolo centrale di verifica e controllo. Non si tratta di un compito impossibile: in altri settori regolati le concessioni sono da sempre legate a obblighi di investimento e qualità del servizio (pensiamo alla rete autostradale), non a gare basate sul massimo rialzo. Le frequenze mobili, infrastruttura critica dell’economia digitale, dovrebbero seguire lo stesso principio.
Il rischio delle nuove aste: l’ingresso di giganti tecnologici globali
Le obiezioni a questo approccio sono prevedibili ma superabili. Chi dice che “lo Stato rinuncia a miliardi di entrate” non considera che non si rinuncia a valore, ma lo si trasforma in investimenti che generano più PIL e gettito nel medio periodo. Non è un “regalo agli operatori” che dovrebbero sobbarcarsi impegni stringenti e verificabili, con un sistema sanzionatorio credibile che potrebbe arrivare fino alla revoca delle frequenze in caso di inadempienze gravi.
Esiste però un rischio ancora più concreto e preoccupante che dovrebbe far riflettere chi propone di tornare al modello delle aste onerose: l’ingresso nel mercato italiano di nuovi soggetti dotati di capitali pressoché illimitati e interessati a integrare le frequenze terrestri con infrastrutture satellitari.
Colossi tecnologici globali come Amazon (con la costellazione Kuiper), SpaceX (con Starlink), o altri grandi player internazionali potrebbero vedere nelle aste italiane e nella difficoltà finanziaria del settore telco un’opportunità strategica per consolidare la propria presenza in Europa e offrire servizi ibridi terrestri-satellitari.
Questi soggetti dispongono di capacità finanziarie enormemente superiori rispetto agli operatori tradizionali e potrebbero permettersi di partecipare alle aste con offerte aggressive, non tanto per massimizzare il ritorno immediato sulle frequenze italiane, quanto per acquisire una testa di ponte strategica nel mercato europeo delle telecomunicazioni. Per loro, pagare cifre elevate per le frequenze italiane sarebbe un investimento marginale rispetto ai capitali complessivi e alla visione di lungo periodo di convergenza tra connettività terrestre e satellitare.
L’ingresso di questi nuovi attori avrebbe conseguenze profonde e potenzialmente destabilizzanti per l’ecosistema delle telecomunicazioni italiane. Gli operatori tradizionali, già indeboliti da vent’anni di aste onerose e da margini compressi, si troverebbero a competere con soggetti che operano su scala globale, con modelli di business diversificati e con la capacità di sussidio incrociato le attività di telecomunicazioni attraverso i profitti generati da altri segmenti (cloud, e-commerce, servizi digitali).
Questo scenario presenterebbe rischi strategici per il Paese. La concentrazione del controllo delle infrastrutture di comunicazione in mano a pochi giganti tecnologici globali solleverebbe questioni di sovranità digitale, sicurezza nazionale e dipendenza tecnologica. Gli operatori italiani ed europei, già sotto pressione, potrebbero essere marginalizzati o costretti a uscire dal mercato, con conseguente perdita di competenze tecniche, posti di lavoro qualificati e capacità industriale nazionale nel settore strategico delle telecomunicazioni.
Inoltre, la logica industriale di questi nuovi potenziali entranti sarebbe radicalmente diversa da quella degli attuali operatori. Mentre TIM, Vodafone-Fastweb, WindTre e Iliad hanno investito massicciamente in infrastrutture fisiche sul territorio italiano e hanno una presenza radicata con migliaia di dipendenti e fornitori locali, i nuovi entranti potrebbero privilegiare modelli più leggeri basati prevalentemente sul satellitare, con investimenti limitati in infrastrutture terrestri e ricadute occupazionali ed economiche sul territorio molto ridotte.
Un rinnovo gratuito delle frequenze agli attuali operatori, vincolato a impegni stringenti di investimento, stimolerebbe la crescita dell’ecosistema esistente, preserverebbe competenze e occupazione nel settore, e garantirebbe che gli investimenti infrastrutturali siano effettivamente indirizzati a beneficio del territorio.
Una crisi di ricavi ma non di investimenti
La fotografia più aggiornata del settore mostra che i ricavi per gli operatori italiani in 13 anni si sono ridotti di quasi 15 miliardi, passando da circa 42 miliardi nel 2010 a poco più di 27 miliardi nel 2023: una riduzione di oltre un terzo (il 35%). Volendo fare un raffronto con altri paesi europei: nello stesso periodo le telco francesi hanno perso in tredici anni il 12% dei ricavi pari a circa 6,6 miliardi di euro. Sono andate male le telco spagnole, ma non peggio di quelle italiane, con una riduzione di ricavi (sempre nel periodo 2010-2023) pari a 8,9 miliardi (il 26% in meno), mentre gli operatori hanno sostanzialmente tenuto in Germania con una riduzione di soli 1,1 miliardi in tredici anni, pari al 2%.
Eppure, le telco italiane, nonostante della diminuzione dei ricavi hanno mantenuto inalterati i loro investimenti nel tempo, tanto che in rapporto ai ricavi dal 2010 al 2023 gli investimenti sono cresciuti costantemente ogni anno: passando dal 15% al 26%. Aggiungere quindi ulteriori costi d’asta a questa situazione significa condannare il Paese a rimanere indietro nella corsa digitale europea.
Il momento giusto per cambiare
Il timing per questo cambio di paradigma è cruciale. Le scadenze delle concessioni si avvicinano, la transizione verso il 5G stand-alone è ancora in una fase iniziale, e le indicazioni europee convergono verso la necessità di massicci investimenti infrastrutturali. La Commissione Europea ha stimato in oltre 500 miliardi di euro gli investimenti necessari per la “Gigabit Society” europea, di cui 55-70 miliardi solo per l’Italia. Drenare capitali con aste costose significa sottrarli a questi fabbisogni essenziali.
Un dispiegamento accelerato di reti 5G stand-alone avrebbe ricadute immediate sul tessuto produttivo italiano: dalle PMI manifatturiere all’agricoltura, dalla logistica al turismo, dalla sanità alla pubblica amministrazione. Il network slicing, il massive IoT, l’ultra-low latency e l’edge computing non sono solo acronimi tecnologici, ma abilitatori concreti di una trasformazione digitale che può aumentare significativamente la produttività e la competitività del sistema Paese.
Connettività, coesione e sostenibilità
C’è anche una dimensione sociale importante in questa scelta. Un modello basato su investimenti vincolati potrebbe prioritizzare le aree oggi sotto-servite, contribuendo a ridurre il digital divide che ancora penalizza molte zone del Paese. La connettività mobile avanzata può integrare e compensare i ritardi nell’ultrabroadband fisso (invece di “regalare voucher” per il satellitare come il sottosegretario Butti si appresterebbe a fare per “salvare” il Piano Italia a 1 Giga), contribuendo all’inclusione e alla coesione territoriale.
L’aspetto ambientale non va trascurato. Vincolare i rinnovi a obiettivi di efficienza energetica, uso di energie rinnovabili e condivisione dei siti ridurrebbe l’impatto ambientale delle reti, in linea con gli obiettivi del Green Deal europeo e con le crescenti aspettative di sostenibilità da parte di cittadini e imprese.
Verso il futuro: prepararsi al 6G
Guardando al futuro, con il 6G già all’orizzonte, perseverare con il modello delle aste onerose significa condannare il Paese ad arrivare sempre in affanno alle transizioni tecnologiche. Spezzare ora questo circolo vizioso renderebbe il sistema delle telecomunicazioni italiano finanziariamente solido e tecnologicamente pronto per le sfide future.
Il rinnovo delle frequenze mobili rappresenta quindi un’occasione storica per il Ministero delle Imprese e del Made in Italy guidato da Urso, di dimostrare una visione lungimirante e pragmatica. Dopo aver drenato complessivamente oltre 24 miliardi di euro dagli operatori in meno di vent’anni, con ricadute negative sulla capacità di investimento che sono oggi evidenti, è tempo di adottare un approccio diverso. Un approccio che generi più valore per la collettività, che sia coerente con l’agenda europea sugli investimenti digitali, e che risponda concretamente ai fabbisogni infrastrutturali del Paese.
Il valore per le casse pubbliche non sarà immediato ma sarà certamente più alto nel medio-lungo termine attraverso maggiore PIL, produttività aumentata, sviluppo di nuovi mercati digitali e conseguente maggior gettito fiscale. Le sfide di implementazione esistono ma non devono scoraggiare: i benefici di un’Italia dotata di reti mobili d’avanguardia e di un 5G stand-alone diffuso, giustificano ampiamente lo sforzo e il coraggio politico necessari per questo cambio di paradigma.











