l'analisi

Big tech senza limiti, così estendono i propri domini: le sfide antitrust

Amazon, Apple, Facebook, Google hanno un ruolo dominante nei rispettivi settori, e lo sfruttano per condizionarne altri. Le autorità antitrust, in Europa e negli Usa, stanno cercando di mettere un freno al loro strapotere, ma più della normativa possono la consapevolezza degli utenti e il consumo critico

Pubblicato il 23 Giu 2021

Andrea Boscaro

Partner The Vortex

bigtech

Nelle scorse settimane, il procuratore generale di Washington D.C. Karl Racine ha intentato una causa antitrust contro Amazon. Il punto della causa è semplice, sebbene non dichiarato esplicitamente: dimostrare il fatto che con Prime, Amazon non stia solo consolidando la propria leadership nei confronti dei concorrenti, ma aumentando i prezzi che vengono applicati ai consumatori finali.

Ma Amazon non è certo la sola big tech che approfitta della propria leadership in un settore per esercitare la propria influenza in altri ambiti.

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Questo contributo intende offrire, dunque, oltre all’esempio di Amazon, una panoramica dei casi in cui i colossi digitali tendono ad accrescere il loro ruolo in modo trasversale a più settori, così da aumentare la consapevolezza degli utenti di fronte ai provvedimenti antitrust che, di qua e di là dall’Atlantico, vengono presi in questi mesi.

Le (troppe) parti recitate da Amazon

Benché Amazon abbia esplicitamente dichiarato nel 2019 che non impedisce ai merchant di vendere i propri prodotti a un prezzo più basso sul proprio sito o su altri marketplace, Racine argomenterà che la visibilità offerta dalla Buy Box – la prima scelta mostrata da Amazon per un prodotto – induce sì le aziende a mantenere su Amazon un prezzo competitivo, ma, per via delle elevate commissioni da retrocedere (dal’8% al 20%) e dei costi dei servizi logistici che offre (FBA, “Fullfilled by Amazon” ha accresciuto i suoi ricavi da 11,75 miliardi di dollari nel 2014 ad oltre 80 miliardi nel 2020), tale prezzo risulterà elevato e influenzerà di conseguenza anche quello praticato altrove in rete.

Sarà interessante osservare l’evoluzione dell’indagine, ma non c’è alcun dubbio che Amazon reciti più parti in commedia: è un enorme campo da gioco (la sola Prime ha oggi 126 milioni di iscritti), è un giocatore che opera anche come retailer e come venditore con marchi propri, è un arbitro grazie all’algoritmo con cui regola la Buy Box ed è, per così dire, anche la VAR per il ruolo che svolge nelle controversie che hanno luogo fra merchant ed acquirenti finali.

Ha dunque avuto successo la visione di Jeff Bezos secondo il quale la “logistica di Amazon è così importante perché è la colla che collega indissolubilmente il marketplace e Prime. Grazie alla logistica di Amazon, Marketplace e Prime non sono più due cose, ma sono felicemente e profondamente intrecciati”. Oggi due terzi dei prodotti che sono venduti sulla piattaforma sono consegnati attraverso FBA e i ricavi generati da tale servizio e dalle commissioni di vendita permettono ad Amazon non solo di offrire la consegna gratuita agli utenti iscritti a Prime, ma anche di rafforzarne l’appetibilità grazie a servizi collaterali come lo streaming video.

In questa prospettiva, l’accusa di Racine è dunque solo uno dei tanti fronti in relazione ai quali le piattaforme digitali paiono servirsi della loro leadership in un settore – in questo caso la vendita online – per influenzare settori differenti: l’acquisizione di Metro Goldwyn Mayer, con il suo sterminato archivio, è l’ultima delle tante mosse che il gigante di Seattle ha attuato per competere nelle “Streaming Wars” con Netflix ed Apple.

Apple e la app economy

Come sostiene Stefano Quintarelli, con una sintesi efficace, “quando acquistiamo uno smartphone, pensiamo che diventi nostro, ma in realtà non lo è”. Nelle lunghe ore di audizione a cui è stato sottoposto Tim Cook, il CEO di Apple, ha probabilmente avuto di fronte a sé questa immagine mentre si trovava a difendere la sua azienda dall’accusa di abuso di posizione dominante da parte di Epic Games, il produttore di Fortnite: con una difesa fondata sui servizi offerti ai produttori di app e agli utenti per proteggerne la privacy e la sicurezza dei dispositivi, Apple si trova infatti a dover giustificare il 30% di commissione richiesta agli sviluppatori per un valore che l’anno scorso è ammontato a 70 miliardi di dollari.

È ancora più pericolosa però l’indagine che in Europa l’Antitrust sta conducendo dopo l’accusa rivolta ad Apple da parte di Spotify che sottolinea quanto non sia possibile, dall’AppStore, comunicare agli utenti la possibilità di sottoscrivere abbonamenti più convenienti al di fuori della piattaforma e di quel 30% di commissioni che debbono essere tenute in considerazione (le cosiddette “anti-steering provisions”): anche in questo caso, la leadership in un settore (la produzione di smartphone) può accrescere il ruolo che Apple interpreta in un altro, con il proprio Apple Music, concorrente diretto di Spotify.

Le riforme proposte lo scorso autunno dalla Commissione europea – il Digital Services Act e il Digital Markets Act – sono proprio volte a regolare ex ante i limiti a cui debbono conformarsi i “gatekeeper” come Apple e Google per evitare distorsioni del mercato, tanto dal punto di vista della concorrenza che dei prezzi finali che vengono praticati ai consumatori.

Facebook e il ruolo dei dati

In mercati dove i servizi sono gratuiti e i costi di sostituzione sono nulli – come i social media – non è semplice comprendere che cosa costituisca una posizione dominante: eppure l’effetto di rete da cui un social network, anche etimologicamente, deriva il suo successo e gli inesistenti costi marginali di ospitare un nuovo utente conducono chiaramente ad una situazione in cui il “vincitore prende tutto”, nel momento in cui sappia concentrare su di sé la proprietà dei dati degli utenti e innervare in essa la promozione di nuovi servizi sia nei confronti degli iscritti che delle aziende che mirano a raggiungerli.

È attorno a questo principio che l’Antitrust italiana ha comminato a Facebook una multa da 7 milioni di euro lo scorso febbraio per la mancata trasparenza con cui ha comunicato agli utenti le ragioni, anche di carattere commerciale, con le quali i loro dati sarebbero stati trattati, concentrandosi invece sul fatto che l’iscrizione fosse gratuita. L’opportunità di questa sentenza è confermata dai primi dati che emergono dalla richiesta esplicita di accettazione del tracciamento da parte delle app che, a partire da iOS14, gli utenti Apple si sono visti mostrare: il 95% degli utenti americani non ha dato il proprio consenso.

La proprietà dei dati degli utenti e la possibilità di avvalersene a fini commerciali e per promuovere nuovi servizi è alla base dunque del modello di business di Facebook ed è oggetto delle attenzioni dei consumatori, delle altre piattaforme digitali competitor e comparable e delle Authority indipendenti, soprattutto in un momento, come quello attuale, in cui sono elevate sia la concentrazione dei dati che del tempo speso online sulle diverse app del mondo Facebook: Facebook, Messenger, Instagram, WhatsApp. Anche in questo caso, lo sviluppo di aree promettenti quali il gaming e lo streaming video apre uno scenario di possibile utilizzo della leadership acquisita in un settore per influenzarne altri.

Google e le nuove frontiere del “quantified self”

Ha fatto molto rumore la sanzione da 100 milioni di euro comminata dall’Antitrust italiana a Google per la mancata accettazione su Android della app di EnelX Juicepass, volta a consentire la localizzazione delle colonnine di ricarica delle auto elettriche ed i servizi ad esse correlati: è solo l’ultima delle cause che, in Europa e negli Stati Uniti, hanno visto il motore di ricerca essere condannato per abuso di posizione dominante ed è l’ulteriore conferma di quanto la leadership acquisita in un settore (Android, la cui app Android Auto peraltro non produce ricavi) possa influenzarne un altro, il promettente settore delle connected car dove la concorrente Apple aveva già accettato la app di Enel X sul proprio servizio di smart car, CarPlay.

Se il passato ha visto Google condannata in Europa per aver favorito nei propri risultati di ricerca Google Shopping a discapito dei concorrenti, recente è l’approvazione in sede comunitaria dell’acquisizione di FitBit, il fitness tracker che si avvale delle tecnologie wearable per monitorare i dati biometrici del corpo (“quantified self”).

Di fronte a questa nuova frontiera di raccolta di dati per ragioni di benessere e salute, ha sollevato una certa preoccupazione la voce di Evgeny Morozov, un attento e critico osservatore del mondo big tech, che ha ricordato come da un lato Google, oltre a FitBit, fornisca servizi cloud a ospedali e istituzioni sanitarie e del resto collabori con alcune di queste ultime – attraverso le società di Alphabet DeepMind e Verily nell’utilizzo dell’intelligenza artificiale per la prevenzione di mali quali la retinopatia diabetica – e dall’altro, proprio con Verily, abbia lanciato Coefficient Insurance, un servizio assicurativo.

Tale servizio riguarda le polizze con cui i datori di lavoro possono proteggersi dalla volatilità dei costi sanitari e, anche a detta dei dirigenti di Verily, presto potrebbe seguire i dipendenti attraverso gli smartphone per indirizzarli verso uno stile di vita più salutare. Senza alcun dubbio, rientra nei casi in cui gli sconfinamenti fra settori in cui opera Google debba essere affrontato nel rispetto della privacy e della legislazione sulla concorrenza.

Conclusioni

Il panorama offerte potrebbe essere ancora più ampio, tanto più che l’Internet delle Cose mostra direzioni di digitalizzazione delle nostre vite via via più promettenti e più pervasive: pensiamo solo alle smart home dove Google è presente sia con il proprio assistente vocale Google Home che con un prodotto dedicato alla domotica come Nest.

Proprio questo in effetti è il punto: la tecnologia cambia più velocemente delle legislazioni antitrust ed è forse con la consapevolezza di questo limite che alcuni – nel guardare al ruolo esercitato dalle Big Tech – ricordano lo Sherman Act, il provvedimento fondante della normativa statunitense a tutela del mercato, in base al quale nel 1911 la Standard Oil di John D. Rockefeller venne spezzettata in trentaquattro distinte società. Da allora i petrolieri non hanno smesso di esercitare un ruolo rilevante nella vita pubblica americana ed è forse solo la consapevolezza dei cittadini e un loro consumo critico che possono, oggi come allora, porre il freno ai limiti che lo scenario che abbiamo tratteggiato disegna.

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