L’impegno italiano (ed europeo) per il 5% del PIL al 2035 alla Difesa, confermato in settimana al summit Nato, rivoluziona la spesa italiana. E non solo per gli importi: un peso crescente ce l’avranno la cybersicurezza, tecnologia satellitare e telecomunicazioni, con risorse dedicate.
Un cambiamento dettato da una parte dalla nuova realtà strategica USA e dalla necessità per l’Europa di assumere le proprie responsabilità; dall’altra, dal nuovo quadro tecnologico della guerra ibrida.
Indice degli argomenti
L’alba di nuovi investimenti globali: la Difesa si ridisegna
Il mondo è a un bivio, e la sicurezza globale si sta ridefinendo in modi inaspettati. L’impegno della NATO di destinare il 5% del PIL alla difesa entro il 2035 non è una semplice evoluzione, ma una vera e propria rivoluzione che sta costringendo i paesi membri a ripensare radicalmente le proprie priorità e le proprie capacità militari.
Cosa contiene il 5 per cento del pil per la Difesa al 2035
Ma cosa contiene esattamente questo 5% e qual è la sua parte più controversa? La quota più consistente è costituita dal 3,5% del PIL, destinato alla “spesa fondamentale per la difesa”: parliamo di investimenti tradizionali come carri armati, jet, droni, soldati, tonnellate di nuove munizioni di artiglieria e, naturalmente, truppe.
Ma il restante 1,5% lascia aperti ben altri interrogativi.
La NATO lo ha definito genericamente “investimenti legati alla difesa e alla sicurezza”. Si intendono infrastrutture civili e informatiche progettate per potenziare e supportare le operazioni militari, come ponti, strade e porti strategici, sistemi di stoccaggio, nonché sicurezza informatica e protezione di infrastrutture critiche come gli oleodotti. Tuttavia, questa parte del bilancio è considerata vaga e soggetta a interpretazioni nazionali, rappresentando la sua natura più controversa.
Per l’Italia, questo si traduce in un impegno finanziario senza precedenti: le stime parlano di oltre 100 miliardi di euro all’anno da investire entro meno di un decennio, un balzo enorme rispetto agli attuali circa 33,4 miliardi. Ma questa non è solo una questione di cifre; è un profondo cambiamento qualitativo nella percezione e nella pratica della difesa.
Cosa è accaduto esattamente? Questo ambizioso obiettivo è emerso con forza dall’ultimo vertice NATO, in risposta a un quadro geopolitico profondamente mutato. La guerra in Ucraina ha evidenziato in modo drammatico le carenze nelle capacità di difesa e nella produzione di armamenti di molti paesi europei, oltre a sottolineare la persistente dipendenza dagli Stati Uniti per la sicurezza del continente. Di fronte a minacce crescenti e alla necessità di un’Europa più autonoma e resiliente, l’Alleanza ha deciso di innalzare l’asticella, passando dal precedente obiettivo del 2% del PIL a un ben più stringente 5%.
Italia pronta alla guerra ibrida: cyber security, tecnologie per la Difesa
La guerra moderna non si combatte più esclusivamente con carri armati e jet. È una guerra ibrida, un conflitto che affianca alle tattiche militari tradizionali gli attacchi informatici, le campagne di disinformazione, la destabilizzazione economica e le pressioni politiche.
Ed è proprio su questo fronte invisibile che si concentra la parte più innovativa dell’impegno NATO, e dunque anche quello italiano: oltre al 3,5% del PIL destinato alla spesa militare “stretta”, quel cruciale 1,5% sarà investito in settori civili con attinenza militare, come la cybersicurezza, la tecnologia satellitare e le telecomunicazioni. L’Italia è chiamata a trasformare le proprie debolezze storiche e attuali in questi ambiti in nuove frontiere di resilienza e autonomia strategica.
Questo testo esamina a fondo la portata di tale svolta per il nostro Paese, mettendo in luce le implicazioni specifiche per l’Italia in termini di investimenti in cyber e tecnologie dual-use, le debolezze attuali da colmare e le modalità con cui il Paese intende farlo. Vengono poi presentate le voci dal governo, con le posizioni del Ministro della Difesa Guido Crosetto e della Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, e le sfide di sostenibilità economica che un tale impegno comporta. Infine, si analizzano le ragioni geopolitiche che hanno spinto la NATO a un obiettivo così ambizioso, la nuova postura strategica degli Stati Uniti con il loro baricentro che si sposta verso l’Indo-Pacifico, e il ruolo chiave di analisti come Elbridge Colby nel definire la necessità di una difesa europea più autonoma e responsabile. Attraverso dati, documenti e casi studio comparativi, viene tracciato il quadro completo di una trasformazione che cambierà il volto della sicurezza italiana ed europea.
La nuova frontiera della difesa italiana: un 1,5% strategico per cyber e tecnologie
L’impegno italiano di destinare il 5% del PIL alla difesa entro il 2035 non è solo un adeguamento quantitativo alle richieste NATO, ma rappresenta un cambio di paradigma qualitativo nella strategia di sicurezza nazionale. Se il 3,5% del PIL sarà, come tradizionalmente inteso, per la spesa militare in senso stretto – quindi mezzi, equipaggiamenti e personale per le forze armate convenzionali – è l’ulteriore 1,5% del PIL a svelare la vera innovazione e la comprensione della “guerra ibrida” e delle sue implicazioni per l’Italia.
Questo 1,5% sarà specificamente indirizzato a investimenti in settori civili con attinenza militare, riconoscendo che la sicurezza di un Paese non dipende più solo dalla forza dei suoi eserciti, ma dalla resilienza delle sue infrastrutture digitali e comunicative. Si tratta di un’allocazione strategica destinata a:
- Cybersicurezza. In un’era in cui ospedali, reti elettriche, sistemi finanziari e governativi sono costantemente bersaglio di attacchi informatici, la cybersicurezza diventa la prima linea di difesa. Gli investimenti in questo campo mirano a proteggere le infrastrutture critiche, a sviluppare capacità di intelligence e difesa cibernetica avanzate e a formare una forza lavoro altamente specializzata, oggi ancora carente. Si punta a costruire scudi digitali in grado di prevenire, rilevare e rispondere efficacemente alle minacce invisibili che possono paralizzare un Paese. Il Generale Pasquale Preziosa, già Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare e analista di sicurezza, ha più volte ribadito: “La dimensione cibernetica è ormai dominante. Investire in essa non è un’opzione, ma un imperativo per la sovranità nazionale.”
- Tecnologia satellitare. La capacità di controllare lo spazio è fondamentale per la sorveglianza, le comunicazioni sicure, la navigazione e l’intelligence. Investire nella tecnologia satellitare significa ridurre la dipendenza da sistemi di altri Paesi, garantendo all’Italia una maggiore autonomia strategica e resilienza in caso di crisi. Ciò implica lo sviluppo di proprie costellazioni satellitari e la protezione degli asset spaziali da minacce fisiche o cyber.
- Telecomunicazioni. Le reti di comunicazione sono bersagli primari in un conflitto ibrido, essenziali per il funzionamento della società e delle operazioni militari. Gli investimenti nelle telecomunicazioni mirano a rendere le infrastrutture più sicure e resilienti, con un focus su reti di nuova generazione come il 5G e il futuro 6G, garantendo la continuità dei servizi e la protezione delle comunicazioni strategiche da intercettazioni o attacchi.
- Guerra ibrida e tecnologie dual-use. Questo 1,5% è destinato a tutto ciò che “abbia a che fare con la cosiddetta guerra ibrida”. Questo include lo sviluppo di tecnologie dual-use, ovvero innovazioni che possono essere impiegate sia per scopi civili che militari, come l’intelligenza artificiale, il machine learning, la crittografia avanzata e i materiali compositi. Si tratta di investire nella ricerca e sviluppo che può portare a un vantaggio competitivo in un conflitto moderno, dove la manipolazione dell’informazione, la destabilizzazione economica e gli attacchi non convenzionali sono tanto importanti quanto la forza militare tradizionale. L’Italia sta quindi ridefinendo il concetto stesso di “difesa”, abbracciando una visione più olistica e tecnologica della sicurezza nazionale.
Questo ambizioso piano italiano mira a trasformare il Paese, affrontando le debolezze esistenti in ambito tecnologico e di sicurezza cibernetica per renderlo più resiliente in un contesto globale sempre più complesso.
La controversia dell’1,5%: un obiettivo vago, rischio di “contabilità creativa”
La distinzione tra il 3,5% per la difesa tradizionale e l’1,5% per “investimenti legati alla difesa e alla sicurezza” è la chiave di volta del nuovo accordo NATO, ma anche il suo punto più controverso. Sebbene la logica sia quella di includere infrastrutture civili e informatiche strategiche – come ponti, strade e porti, sistemi di stoccaggio per rifornimenti, sicurezza informatica e protezione di oleodotti – la definizione rimane ampia e potenzialmente ambigua.
Il think tank tedesco Bertelsmann Stiftung ha espresso preoccupazione, evidenziando che, a fronte di diverse tradizioni di preparazione civile negli Stati membri, si rischia di assistere a una “ingegneria contabile” e a una definizione opportunistica delle priorità, con l’effetto di ostacolare la cooperazione. Senza obiettivi chiari e misurabili stabiliti dall’Alleanza, i paesi potrebbero includere spese già previste nei bilanci civili, senza generare un reale incremento delle capacità di resilienza. Il think tank ha avvertito che se l’obiettivo dell’1,5% non dovesse produrre miglioramenti misurabili nella resilienza europea, potrebbe ripercuotersi negativamente e mettere a dura prova la fiducia transatlantica, suggerendo che la NATO dovrebbe stabilire un processo strutturato di pianificazione delle capacità che rispecchi il suo processo di pianificazione delle capacità di difesa, con obiettivi chiari per l’intera alleanza.
Innovazione militare: puntare sulle tecnologie del futuro, con un focus sui droni
Durante il NATO Summit 2025 dell’Aia, la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha sottolineato che l’aumento della spesa per la difesa offre vantaggi concreti anche per le aziende italiane, evidenziando l’importanza cruciale dell’innovazione. È ormai palese come la guerra, alla stregua di ogni fenomeno sociale ed economico, si evolva con il progresso tecnologico. L’industria, e non solo quella della difesa in senso stretto, è chiamata a un ruolo da protagonista per rispondere alle nuove esigenze.
La consapevolezza del ruolo centrale della tecnologia e dell’innovazione nelle attività militari è ormai consolidata. Meloni stessa ha esemplificato questo concetto citando il conflitto tra Russia e Ucraina, dove “alcuni dei più grandi risultati ottenuti dal fronte ucraino sono stati portati a casa con droni che costano poche migliaia di euro e che distruggono strumenti tecnologici che costano molto di più“. Questo dimostra come “andiamo verso un mondo dove un satellite può essere più strategico di un carro armato“. La premier ha ribadito che “su questo una discussione va fatta, il tema non è solo quanto investiamo ma su cosa investiamo e verso quale mondo stiamo andando“.
Il Rapid Adoption Action Plan (Piano d’azione per l’adozione rapida) di inizio giugno ha identificato nove tecnologie chiave su cui la NATO intende puntare per mantenere la propria competitività globale. Queste includono ambiti come intelligenza artificiale, quantum computing, biotecnologie, materiali avanzati e autonomia. L’appello lanciato dal Premier olandese Rutte, durante il forum del summit, a coinvolgere attivamente aziende e imprenditori evidenzia che la trasformazione non riguarda solo l’industria della difesa tradizionale, ma anche il ruolo delle startup innovative, delle scale-up e di tutte le realtà del settore tech.
Per quanto riguarda la produzione di droni, l’Italia non parte da zero. Aziende come Leonardo sono già attive nella produzione di vari UAV (Unmanned Aerial Vehicles), inclusi mini-droni per l’Esercito Italiano e collaborazioni su progetti più ampi come il P2HH Hammerhead. Inoltre, si sta esplorando la conversione di velivoli addestratori come gli M-345/M-346 per ruoli senza pilota nell’ambito di programmi futuri.
Un recente e significativo sviluppo è la joint venture tra Leonardo e il colosso turco Baykar (produttore dei noti Bayraktar TB2 e Akinci), mirata alla produzione di “super-droni” avanzati e basati sull’intelligenza artificiale in Liguria. Questa partnership rappresenta una mossa strategica per integrare rapidamente l’esperienza nell’IA e nelle tecnologie d’avanguardia per droni direttamente nella produzione italiana, puntando a una quota significativa del mercato globale dei droni militari. Accanto a questi grandi attori, esistono anche realtà italiane più piccole come Italdron, leader nel mercato civile con droni ad alte prestazioni per sorveglianza e soccorso, e Beluga Drone, che progetta mini-droni di categoria NATO con capacità multi-missione e AI.
Il “gap” italiano, in questo senso, non è tanto l’assenza di produzione, quanto piuttosto la necessità di:
- Scalare la produzione. Aumentare la capacità di produrre rapidamente droni a basso costo, efficaci sul campo, come dimostrato nel conflitto ucraino.
- Acquisire tecnologie all’avanguardia. Accelerare l’integrazione di capacità di intelligenza artificiale e autonomia nei sistemi drone.
- Garantire la resilienza della filiera. Proteggere il know-how e le componenti critiche all’interno del controllo strategico nazionale, anche alla luce di precedenti tentativi di acquisizione straniera di aziende italiane del settore.
- Integrare i droni nella dottrina di guerra ibrida. Passare dall’uso di singole piattaforme a operazioni integrate, con sciami di droni e misure di contrasto anti-drone, come parte fondamentale della strategia militare. L’Esercito Italiano, ad esempio, sta già reclutando attivamente piloti di droni con licenze UAS, segno di un’evoluzione strategica.
L’impatto dell’aumento della spesa per la difesa sulle imprese italiane
Per le imprese italiane, quali saranno le conseguenze di questo approccio? Se da un lato esiste il timore che la ricerca di fornitori esteri possa far perdere occasioni al tessuto produttivo nazionale, l’obiettivo dichiarato è proprio quello di valorizzare l’industria interna. La stessa Meloni ha sottolineato che “una parte importante di queste risorse verrà usata per rafforzare le imprese italiane“, con l’intento di realizzare “un circolo virtuoso” se si saprà sfruttare le opportunità in termini di investimenti e produzione maggiorata. Per la Presidente del Consiglio, “il grande tema che dobbiamo affrontare è la capacità delle nostre aziende di rispondere a un impegno importante e questa sarà la prossima sfida. Però non va fatto un ragionamento solamente in termini di costi, ma va fatto anche in termini di ritorno e di proiezione sull’economia“.
Debolezze storiche e raccomandazioni NATO: il contesto degli investimenti
L’urgenza di questi investimenti è amplificata dalle debolezze strutturali che l’Italia ha mostrato in passato e dalle raccomandazioni ricorrenti da parte della NATO. Per anni, l’Alleanza ha sollecitato i membri a non limitarsi alla spesa militare convenzionale, ma a investire maggiormente nelle capacità che sostengono la sicurezza nel XXI secolo.
Le principali debolezze italiane in questi settori includono:
- Carenza di personale specializzato. Una delle lacune più critiche è la scarsità di esperti in cybersicurezza, sia nel settore pubblico che in quello privato. Nonostante le eccellenze accademiche, il “gap di competenze” tra la domanda e l’offerta di professionisti in grado di affrontare minacce cyber sofisticate è significativo. Questo rende difficile la protezione proattiva e la risposta efficace agli attacchi. La NATO ha ripetutamente evidenziato la necessità di una maggiore formazione e addestramento per il personale dedicato alla difesa cibernetica. Come sottolineato dal Prof. Roberto Baldoni, ex Direttore Generale dell’ACN, “la sfida più grande non sono le tecnologie, ma le persone. Dobbiamo formare una generazione di cyber-difensori all’altezza delle minacce”.
- Frammentazione e coordinamento. Sebbene esistano diverse entità coinvolte nella cybersicurezza (come l’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale – ACN, il Comando Operazioni in Rete – COR della Difesa, le forze di polizia), la frammentazione delle competenze e la necessità di una più piena integrazione e coordinamento possono rallentare la reazione e la condivisione di informazioni cruciali in caso di attacchi su larga scala. Le raccomandazioni NATO hanno spesso spinto verso una maggiore interoperabilità e standardizzazione tra le strutture di difesa cibernetica nazionali e alleate.
- Vulnerabilità delle infrastrutture critiche. Molte infrastrutture essenziali del Paese (energia, trasporti, sanità, finanza) sono ancora esposte a rischi cyber elevati, spesso a causa di sistemi legacy obsoleti o di investimenti insufficienti nella loro protezione e aggiornamento. La NATO ha più volte sottolineato l’importanza vitale di proteggere le reti e i servizi essenziali da cui dipende il funzionamento della società moderna.
- Dipendenza da asset satellitari esteri. Nonostante una solida e riconosciuta industria spaziale, l’Italia ha ancora una certa dipendenza da sistemi satellitari esterni per alcune capacità critiche, come comunicazioni sicure e intelligence. Questa dipendenza rappresenta una vulnerabilità strategica in scenari di crisi, e la NATO ha incoraggiato gli alleati a sviluppare una maggiore autonomia strategica nello spazio.
- Sicurezza delle reti di nuova generazione. La transizione verso il 5G e le future reti 6G introduce nuove sfide di sicurezza legate alla complessità e pervasività di queste tecnologie. La protezione da attacchi e spionaggio richiede investimenti continui e una rigorosa supply chain security, aspetti su cui la NATO ha esortato tutti gli alleati a rafforzarsi.
- Sviluppo tecnologico e ricerca. Mantenere un vantaggio competitivo nello sviluppo di tecnologie dual-use (Intelligenza Artificiale, machine learning, crittografia avanzata, nuovi materiali) richiede investimenti significativi in ricerca di base e applicata e una maggiore sinergia tra mondo accademico, industria e settore militare.
L’impegno al 5% del PIL, con la specifica destinazione di una parte significativa a questi settori, è quindi una risposta diretta e strategica a queste debolezze. Permetterà all’Italia non solo di rafforzare le sue capacità militari convenzionali, ma soprattutto di costruire quella resilienza cibernetica e tecnologica essenziale per affrontare le minacce ibride del futuro, allineandosi meglio alle aspettative e alle esigenze di sicurezza collettiva dell’Alleanza Atlantica.
Il contributo europeo: superare le sfide per una difesa condivisa e sostenibile
Questo nuovo scenario globale porta alla necessità che gli Stati europei, inclusa l’Italia, dimostrino un impegno concreto e sostenibile verso l’aumento delle spese per la difesa. Affermare di voler raggiungere l’obiettivo senza piani finanziari dettagliati, meccanismi di controllo adeguati e un sistema sanzionatorio per chi non rispetta gli impegni, non sarebbe una strategia efficace.
L’Italia, purtroppo, è un esempio evidente di questa discrasia tra dichiarazioni e realtà. Non avendo mai raggiunto neppure l’obiettivo del 2% del PIL per le spese NATO – pur beneficiando della protezione militare americana – questo atteggiamento richiede ora un deciso cambio di rotta. Come si può credere di mantenere una credibilità diplomatica e militare internazionale senza essere disposti a investire adeguatamente nella propria sicurezza?
- Pressione finanziaria e trasparenza. Raggiungere il 5% del PIL in meno di dieci anni richiede una roadmap finanziaria e strategica chiara, che deve essere pienamente trasparente. Dove verranno reperite queste risorse? Il Ministro dell’Economia e delle Finanze dovrà fare scelte difficili. Il dibattito sulla sostenibilità di bilancio e sui potenziali impatti su altri settori della spesa pubblica, come sanità o welfare, sarà inevitabile. È fondamentale che non si ricorra a manovre contabili per mascherare l’inadempienza; serve un monitoraggio stringente per assicurare che gli investimenti promessi si traducano in capacità reali. Come sottolinea il Prof. Lorenzo Codogno, ex capo economista del Tesoro e visiting professor presso la London School of Economics, “l’Italia ha un vincolo di bilancio molto stretto dovuto all’alto debito. Qualsiasi aumento significativo della spesa deve essere accompagnato da un piano credibile di copertura, altrimenti rischia di alimentare tensioni sui mercati finanziari.”
- Ruolo dei ministeri e impatto economico. Non sarà solo il Ministero della Difesa a gestire questa mole di denaro. Il Ministero delle Imprese e del Made in Italy avrà un ruolo chiave nell’indirizzare gli investimenti verso l’industria nazionale, mentre il Ministero dell’Università e della Ricerca sarà fondamentale per la formazione e l’R&D. L’impatto sul PIL e sull’occupazione è oggetto di dibattito: se da un lato l’industria della difesa (e quella dual-use) potrebbe vedere una crescita esponenziale, dall’altro, un drenaggio così massiccio di risorse verso la spesa militare potrebbe generare un “effetto di spiazzamento” (crowding out), sottraendo capitale e talenti ad altri settori produttivi civili.
Perché l’Europa possa contribuire a gestire al meglio la situazione dei “due fronti” americani, alleggerendo il carico della deterrenza convenzionale in Europa e fornendo al contempo un contributo strategico nell’Indo-Pacifico, è indispensabile un cambiamento radicale nel modo in cui l’Europa investe in competenze, capacità e tecnologie militari. Ciò richiede una più stretta cooperazione nella pianificazione della difesa e nell’industria tra NATO e UE, concentrandosi su investimenti mirati a esigenze operative concrete.
Le voci dal governo: Crosetto e Meloni a confronto
Le reazioni all’impegno del 5% del PIL mostrano sfumature diverse all’interno del governo italiano, pur nella condivisione dell’obiettivo strategico.
Il Ministro della Difesa Guido Crosetto, figura di spicco nel panorama politico italiano e co-fondatore di Fratelli d’Italia, ha espresso una posizione che, pur riconoscendo la necessità di maggiori investimenti, ha anche sottolineato alcune criticità:
- Sulla fattibilità e la situazione italiana. In passato, Crosetto aveva già evidenziato le difficoltà per l’Italia a raggiungere obiettivi di spesa inferiori, come il 2% del PIL, sottolineando che il Paese ha “un piccolo spazio di manovra”. Ha anche affermato che l’Italia è “più indietro degli altri” paesi NATO in termini di preparazione e spesa militare. Questa affermazione sottolinea la consapevolezza delle sfide strutturali che l’Italia affronta nel raggiungere gli standard richiesti dall’Alleanza.
La Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia e attuale capo del governo, ha invece adottato un tono più assertivo e rassicurante riguardo l’impegno italiano:
- Sull’adesione all’accordo del 5%, Meloni ha confermato l’adesione dell’Italia all’accordo NATO per portare la spesa in difesa e sicurezza al 5% del PIL entro il 2035, definendo gli impegni come “necessari” e “sostenibili”.
- Sulla sostenibilità finanziaria e le priorità italiane. Un punto chiave delle sue dichiarazioni è la rassicurazione che “Nessun euro verrà tolto a politiche per gli italiani”. Ha ribadito che le spese saranno sostenibili e che non distoglieranno risorse dalle altre priorità del governo, aggiungendo che “ci sarà una flessibilità totale” nell’implementazione di questi impegni.
- Sull’interpretazione dell’incremento. Meloni ha cercato di inquadrare l’aumento come una prosecuzione di impegni precedenti, sostenendo che l’incremento dell’1,5% per la sicurezza non è “distante dall’impegno che l’Italia già assunse nel 2014”. Ha anche espresso una certa perplessità sui calcoli che portano a stimare un aumento di 100 miliardi di euro annui, affermando “non so come fate questi calcoli francamente”.
- Sul ruolo dell’Italia nella NATO. Meloni ha ribadito il pieno sostegno dell’Italia all’Ucraina e la necessità di mantenere la pressione sulla Russia, sottolineando l’importanza di rafforzare la difesa e la sicurezza in un contesto che lo richiede.
Governance, trasparenza e il dibattito pubblico necessario
Un investimento di tale portata, con ricadute così profonde sulla società e sull’economia, richiede una governance impeccabile e la massima trasparenza.
- Monitoraggio e accountability. Come verrà garantita la trasparenza sull’allocazione e l’utilizzo di questi fondi? Saranno previsti audit indipendenti e report periodici al Parlamento? Il rischio di sprechi o di un uso improprio delle risorse è elevato senza meccanismi di controllo robusti.
- Ruolo del Parlamento e del pubblico. Il Parlamento sarà pienamente coinvolto nelle decisioni strategiche su questi investimenti, o le scelte avverranno prevalentemente a livello esecutivo? Un dibattito pubblico informato è essenziale per la legittimità di tali scelte, soprattutto in un Paese dove la spesa militare è spesso oggetto di polarizzazione.
- Bilanciamento etico. Lo sviluppo di sistemi d’arma autonomi basati sull’IA, la sorveglianza avanzata e altre tecnologie emergenti sollevano profonde questioni etiche. L’Italia istituirà comitati etici dedicati per guidare lo sviluppo tecnologico in linea con i principi democratici e i diritti umani?
Perché siamo arrivati a questo punto: la nuova postura statunitense e le ragioni del 5% NATO
Per comprendere appieno l’urgenza e la portata dell’obiettivo del 5% del PIL per la difesa, è fondamentale analizzare il contesto geopolitico che lo ha generato. Non si tratta di una decisione improvvisa, ma della culminazione di tendenze strategiche e pressioni internazionali.
La nuova dottrina statunitense: il baricentro si sposta verso l’Indo-Pacifico
Il fattore scatenante principale dietro l’aumento delle aspettative NATO è la nuova realtà strategica globale degli Stati Uniti. Come sottolineato da esperti di difesa come Elbridge Colby, già Sottosegretario alla Difesa per la Politica degli Stati Uniti sotto l’amministrazione Trump, la principale minaccia alla potenza militare americana oggi non è più solo in Europa, ma proviene dall’Indo-Pacifico, dove la Cina rappresenta la sfida dominante.
Gli Stati Uniti si trovano a gestire contemporaneamente un “due fronti”: quello russo in Europa e, soprattutto, quello cinese. La National Defense Strategy del 2022 dell’amministrazione Biden ha ammesso esplicitamente che gli USA non hanno le risorse per combattere contemporaneamente una guerra ad alta intensità con la Cina e un altro conflitto significativo, come in Europa. La scarsità si manifesta non tanto nel numero complessivo di soldati o nelle spese totali, quanto nelle piattaforme critiche, armi e mezzi di supporto che rappresentano i principali vantaggi nella guerra moderna: bombardieri pesanti, sottomarini d’attacco, trasporti aerei, logistica e munizioni di precisione.
In questo scenario, l’idea che gli Stati Uniti possano continuare a difendere l’Europa senza un aumento sostanziale del contributo da parte degli alleati è, come direbbe Colby, “del tutto fuori luogo”. L’appello a portare le spese NATO al 5% del PIL non è un capriccio, ma una chiara necessità strategica per liberare la “larghezza di banda” americana e consentire agli USA di concentrarsi sull’Asia. Pretendere protezione incondizionata, mentre si critica il protettore, è semplicemente insostenibile. Questo spostamento di focus americano impone all’Europa di assumere maggiori responsabilità per la propria sicurezza.
Le carenze rivelate dalla guerra in Ucraina e la necessità di resilienza europea
L’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte della Russia nel febbraio 2022 ha agito da catalizzatore, esponendo in modo crudo le carenze strutturali delle capacità di difesa europee.
- Scorte di munizioni insufficienti. Molti paesi europei si sono trovati con scorte di munizioni e armamenti inadeguate a sostenere un conflitto prolungato, rendendo difficile il supporto all’Ucraina senza compromettere la propria prontezza.
- Capacità produttiva limitata. L’industria della difesa europea, ridimensionata dopo la fine della Guerra Fredda, ha mostrato difficoltà a scalare rapidamente la produzione per soddisfare le nuove esigenze.
- Minaccia ibrida e cyber. La guerra in Ucraina ha dimostrato l’importanza cruciale della guerra ibrida, con attacchi cibernetici, campagne di disinformazione e operazioni di influenza che affiancano le azioni militari convenzionali. In questo contesto, il rischio proveniente da attori statali come la Russia, ma soprattutto la Cina, con le loro capacità avanzate di attaccare e sabotare strutture critiche come le telecomunicazioni, le reti elettriche e gli ospedali, è diventato sempre più evidente. Molti paesi europei non erano adeguatamente preparati a fronteggiare questa dimensione della minaccia, che può paralizzare un Paese senza sparare un colpo.
- Dipendenza energetica e tecnologica. La dipendenza da fornitori esterni per energia e componenti tecnologici critici ha rivelato vulnerabilità strategiche.
Di fronte a queste evidenze, e alla crescente aggressività russa, la NATO ha riconosciuto la necessità di un cambiamento radicale. L’obiettivo del 5% del PIL è quindi una risposta diretta a queste sfide, mirata a:
- Rafforzare la deterrenza e la difesa collettiva. Aumentare le capacità militari per scoraggiare potenziali aggressori e garantire una risposta robusta in caso di attacco.
- Promuovere la ri-industrializzazione della difesa europea. Incentivare gli investimenti nell’industria della difesa per aumentare l’autonomia produttiva e ridurre la dipendenza da fornitori esterni.
- Investire in tecnologie emergenti e dual-use. Prepararsi alla guerra del futuro, dove intelligenza artificiale, droni, cybersicurezza e spazio saranno campi di battaglia cruciali.
- Garantire una maggiore condivisione degli oneri. Distribuire più equamente il peso della difesa collettiva tra tutti i membri, alleggerendo il carico sugli Stati Uniti.
In sintesi, il 5% del PIL non è solo un numero, ma il simbolo di una nuova era per la sicurezza europea, in cui l’autonomia strategica e la resilienza a 360 gradi diventano imperativi categorici.
La vincolatività dell’obiettivo di spesa: un dettaglio non da poco
Nonostante la forte retorica sull’impegno al 5%, il “diavolo si nasconde nei dettagli” riguardo alla sua effettiva vincolatività. Una lettera della NATO inviata al primo ministro spagnolo Pedro Sánchez sembra suggerire che l’obiettivo potrebbe non essere così stringente come appare.
Nella lettera, si legge che la Spagna “avrà la flessibilità di determinare il proprio percorso per raggiungere gli obiettivi di capacità stabiliti dalla NATO”, aprendo a una possibile interpretazione meno rigida dell’obbligo. Questo significa che altri paesi potrebbero avanzare richieste simili di flessibilità. Inoltre, alcuni alleati potrebbero considerare questo un permesso per allocare meno del 5%, se riescono a dimostrare di raggiungere comunque gli “obiettivi di capacità” (il cui elenco rimane classificato). Queste rassicurazioni della NATO hanno fatto seguito alle preoccupazioni della Spagna riguardo agli obiettivi di spesa ritenuti “irragionevoli”.
“Destinare il 5% del PIL alla difesa rallenterebbe la crescita economica attraverso un aumento del debito”, ha affermato il Primo Ministro spagnolo. Attualmente, il Paese spende circa l’1,28% del suo PIL per la difesa, una delle percentuali più basse nell’alleanza. Il nuovo accordo NATO, pur imponendo ai paesi di aumentare la loro spesa al 5% del PIL entro il 2035, prevede che la “traiettoria di spesa” degli alleati venga riesaminata a metà del 2029. Questo intervallo offre un margine per eventuali aggiustamenti o reinterpretazioni nazionali del percorso.
Dati, documenti e rapporti di think tank: il quadro completo
Per comprendere appieno le sfide e le opportunità legate all’aumento della spesa per la difesa, è fondamentale analizzare i dati concreti e i documenti strategici, oltre a trarre insegnamento dalle esperienze di altri Paesi NATO.
- Analisi dei bilanci della difesa in Italia: tra passato e futuro imponente
- Il percorso storico. L’Italia ha storicamente faticato a raggiungere gli obiettivi di spesa NATO. Sebbene si sia registrata una crescita dalla media dell’1,4% del PIL nel 2014 al 2% stimato per il 2024 (seppur grazie a ricalcoli contabili che includono anche spese correnti in ambito cyber, spazio, telecomunicazioni, mobilità militare e quelle per altri corpi militari come Guardia Costiera e della Guardia di Finanza), il nuovo target del 5% segna una rottura netta.
- L’impatto finanziario del 5%. Raggiungere il 5% significherebbe, per l’Italia, passare dai circa 33,4 miliardi di euro del 2024 a oltre 100 miliardi di euro all’anno entro il 2035. Questa cifra supererebbe, ad esempio, l’intero stanziamento per l’istruzione pubblica del 2024 (circa 79 miliardi). Gli aumenti annuali potrebbero attestarsi sui 9-10 miliardi di euro.
- Le implicazioni per le finanze pubbliche. L’onere finanziario è tale da imporre riflessioni profonde sulla sostenibilità. Con un elevato debito pubblico, l’Italia si troverebbe di fronte a un bivio: aumentare le tasse o tagliare drasticamente altre voci di spesa pubblica per liberare le risorse necessarie. La “flessibilità” promessa da Meloni per il percorso di avvicinamento sarà cruciale per gestire l’impatto sul bilancio. In generale, un obiettivo così elevato per un’economia con un debito pubblico significativo richiederà scelte molto dolorose sul bilancio, o un’improbabile crescita del PIL superiore alla media.
- Documenti strategici nazionali e NATO: linee guida e ambiguità
- La Strategia Nazionale di Cybersicurezza (2022-2026). Questo documento, seppur antecedente l’obiettivo del 5%, rappresenta la base della strategia cyber italiana. Prevede il rafforzamento dell’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale (ACN), il potenziamento di capacità di prevenzione, monitoraggio e risposta e l’adozione di linee guida “zero trust” per le pubbliche amministrazioni. L’Investimento 1.5 Cybersecurity del PNRR ha già stanziato fondi per poligoni virtuali e la protezione di collegamenti satellitari e reti 5G della Difesa.
- I documenti strategici NATO. I rapporti e le dichiarazioni NATO, in particolare quelle successive al vertice dell’Aia, ribadiscono la necessità di investire non solo in “pure defense spending” (il 3.5%) ma anche in “broader security” (l’1.5%), includendo appunto cyber defense, infrastrutture dual-use (strade, ponti, porti, aeroporti per un migliore dispiegamento militare) e preparazione delle società ai conflitti futuri. Questo convalida la visione italiana dell’1.5% in settori civili con attinenza militare. Tuttavia, i target NATO, sebbene spinti con forza, non sono legalmente vincolanti.
- Rapporti di think tank: stime, avvertimenti e prospettive europee
- Bruegel. Il think tank economico Bruegel ha stimato che per “difendere l’Europa senza gli USA”, il continente potrebbe aver bisogno di 300.000 truppe in più e un aumento della spesa per la difesa di almeno 250 miliardi di euro all’anno nel breve termine (equivalente a circa il 3,5% del PIL europeo). Un report successivo indica che per raggiungere un obiettivo di spesa del 3,7% del PIL, diversi Paesi, inclusa l’Italia (con un alto debito pubblico), affronterebbero “sfide fiscali immense”. Questo sottolinea la difficoltà di raggiungere anche target intermedi e suggerisce la necessità di meccanismi di finanziamento europei comuni (es. Eurobond della difesa).
- Atlantic Council. Questo think tank americano ha analizzato cosa potrebbe rientrare nel 5% del PIL, notando come l’1.5% destinato alla “sicurezza più ampia” possa essere interpretato in modo flessibile, includendo investimenti in infrastrutture civili che abbiano una valenza strategica. Alcuni analisti esprimono scetticismo sulla reale capacità economica della maggior parte degli alleati di raggiungere il 5% senza un forte impatto sulle economie nazionali, suggerendo che un approccio più “intelligente” agli investimenti, focalizzato sulla resilienza e non solo sulla spesa bruta, sia più efficace.
- IISS (International institute for strategic studies) e EPRS (European parliamentary research service). Questi istituti evidenziano la necessità di maggiore cooperazione europea nella spesa per la difesa per sfruttare le economie di scala. Stimano il “costo della non-Europa” nella difesa tra i 18 e i 57 miliardi di euro all’anno, dovuto alla frammentazione degli acquisti e allo sviluppo duplicato di capacità. Questo rafforza l’idea che un approccio coordinato sia più efficiente, un punto spesso sostenuto anche da Bruxelles.
- Case studies comparativi: diverse vie al ri-armo europeo
Le reazioni all’obiettivo del 5% e i percorsi di adeguamento variano tra i Paesi NATO, offrendo spunti interessanti su come affrontare gli investimenti in cyber e dual-use:
- Polonia. Con un impegno di spesa che nel 2025 raggiungerà il 4.7% del PIL (il più alto tra i membri NATO), la Polonia è un esempio di rapidità e determinazione. Ha reindirizzato 6 miliardi di euro di fondi UE (originariamente per progetti green) verso infrastrutture dual-use (strade per carri armati, rifugi civili-militari) e tecnologie per la difesa (cybersicurezza, AI). Nel 2025, prevede di spendere un record di 900 milioni di euro in cybersicurezza a causa dell’aumento degli attacchi, molti attribuiti a Russia e Bielorussia. La loro strategia include un forte focus su droni e sistemi anti-drone, guerra elettronica e satellite imaging. Un elemento chiave è l’impegno a destinare il 50% dei fondi di modernizzazione alla produzione domestica, incentivando la R&S nazionale.
- Stati Baltici (Estonia, Lettonia, Lituania). Questi paesi, particolarmente esposti alla minaccia russa, enfatizzano l’accelerazione dell’innovazione e l’adozione rapida di tecnologie dual-use (veicoli autonomi, droni, soluzioni di comunicazione smart). Promuovono una maggiore cooperazione tra forze di difesa e settore privato. Esistono programmi di supporto finanziati dall’UE, come i 32 milioni di euro per lo sviluppo di prodotti e tecnologie dual-use in Lettonia. Nonostante abbiano industrie della difesa più piccole, la loro reattività e la focalizzazione su soluzioni smart, anche con il supporto di iniziative NATO come il programma DIANA e il fondo di innovazione, sono esemplari.
- Germania. La Germania sta aumentando la sua spesa per la difesa, puntando al 2% e con un ministro che ha suggerito di arrivare al 3.5%. Ha istituito un fondo speciale extra-budgetario di 100 miliardi di euro (ora esaurito) per potenziare le sue capacità. Un recente accordo fiscale include un fondo speciale di 500 miliardi di euro per le infrastrutture e una nuova regola che permette spese di difesa illimitate oltre l’1% del PIL, esentandole dal freno al debito. In ambito cyber, la Germania, tradizionalmente più orientata alla difesa, sta costruendo capacità offensive attraverso agenzie come il Centro per la Tecnologia dell’Informazione nella Sfera di Sicurezza (ZITiS) e un Comando Cyber unificato (CIR), oltre a un’agenzia per l’innovazione cyber con un budget di 200 milioni di euro per progetti di ricerca. Berlino pone forte enfasi sulla condivisione dei dati all’interno della NATO.
- Francia. La Francia, che punta ad aumentare la spesa dal 2% al 3-3.5% del PIL, ha annunciato un fondo di difesa di 450 milioni di euro e piani per raccogliere 5 miliardi di euro in fondi pubblici e privati per rafforzare le sue aziende della difesa. Una porzione significativa di questi fondi è destinata alla cyber difesa. La sua strategia nazionale di cybersicurezza si concentra su sovranità, risposta alla criminalità, informazione pubblica e trasformare la sicurezza digitale in un vantaggio competitivo. Parigi ha anche reclutato 1.000 nuovi specialisti cyber e allocato 1,5 miliardi di euro alle forze armate per il cyber fino al 2025, con una forte spinta per l’autonomia digitale strategica europea.
- Regno Unito. Il Regno Unito sta aumentando la spesa per la difesa al 2.5% del PIL entro il 2027, con l’ambizione di arrivare al 3.5% entro il 2035. Ha annunciato un investimento tecnologico di 5 miliardi di sterline, di cui oltre 4 miliardi per sistemi autonomi (droni) e quasi 1 miliardo per armi a energia diretta (DEW), come il laser DragonFire. Le lezioni dall’Ucraina guidano la loro innovazione, con un focus su droni, dati e guerra digitale. Il Fondo di Innovazione per la Difesa del Regno Unito, con 400 milioni di sterline, mira a stimolare lo sviluppo di tecnologie dual-use (AI, cyber, semiconduttori, quantum), promuovendo la resilienza della supply chain. Il Ministero della Difesa britannico prevede di destinare almeno il 10% del suo budget per gli equipaggiamenti all’acquisizione di nuove tecnologie.
Conclusioni: l’Italia verso un futuro di sicurezza complessa e responsabile
L’Italia si trova a un bivio storico, spinta dagli impegni NATO e dalla dura realtà di un mondo “a due fronti” che costringe gli Stati Uniti a ripensare la propria strategia globale. L’investimento del 5% del PIL nella difesa, con una forte enfasi su cybersicurezza e tecnologie dual-use, non è un’opzione, ma un passo obbligato per garantire la sicurezza e la resilienza del Paese e per assumere finalmente un ruolo credibile nell’Alleanza.
La sfida non è solo finanziaria, ma anche culturale e strategica: integrare le capacità militari con quelle civili, formare nuove generazioni di esperti e mantenere un equilibrio tra sicurezza e libertà. Il successo di questa trasformazione dipenderà dalla capacità del governo di gestire un processo così complesso con trasparenza, lungimiranza e un’ampia visione di sistema. È tempo che l’Italia passi dalle promesse e dalle critiche ideologiche a piani concreti e sostenibili per la propria sicurezza, riconoscendo che le risorse americane non sono infinite e che la difesa collettiva richiede un impegno reale da parte di tutti.