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Dalla smart city all’AI urbanism: il nuovo patto città-dati



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Nel passaggio dal modello di smart city all’AI urbanism gli algoritmi diventano co-attori della pianificazione urbana. Casi come Medellín, Melbourne e Montréal indicano come modelli e sensori supportino interventi mirati, ponendo questioni etiche su sorveglianza, inclusione e partecipazione

Pubblicato il 16 ott 2025

Luca Baraldi

European Digital SME Alliance

Giovanni Tardini

CEO di Be Symboolic



ai urbana
smart city

Per quanto spesso si sia portati a considerare ogni fase dell’innovazione digitale come un semplice avanzamento fisiologico della tecnologia, l’intelligenza artificiale urbana rappresenta una trasformazione profonda, radicale, che non può essere trascurata.

Non stiamo parlando, infatti, solamente dell’adeguamento o del perfezionamento di sistemi tecnologici o processi computazionali, ma della trasformazione di un’infrastruttura cognitiva in un’infrastruttura territoriale: algoritmi che leggono i dati comportamentali collettivi, i dati di mobilità, di consumo energetico, di flussi migratori e li traducono in chiavi di interpretazione dei contesti e conseguenti decisioni spaziali.

Dal paradigma smart city all’AI urbanism

Le città, storicamente concepite e percepite come nodi fisici di scambio e di convivenza, diventano così, in un certo senso, sistemi cibernetici in cui la distinzione tra infrastruttura materiale e infrastruttura informazionale si assottiglia progressivamente, fino a scomparire.

Non è più soltanto un tema di semaforica intelligente o di efficientamento energetico: è la capacità di rilevare, interpretare e modellare scenari sociali complessi, di anticipare dinamiche culturali, di plasmare e indurre l’accessibilità a nuovi sistemi di diritto attraverso la progettazione dello spazio.

Questa evoluzione segna il passaggio critico – non solo semantico, ma strutturale – dal paradigma tradizionale della smart city a quello che viene definito come AI urbanism. La smart city era concepita come un dispositivo essenzialmente ingegneristico, basato sulla possibilità di raccogliere dati, principalmente per ottimizzare le condizioni di gestione (dai consumi ai flussi di traffico) e per ridurre inefficienze. L’AI urbanism, invece, non si limita a misurare, ma a contestualizzare, interpretare e proporre. In questo caso l’algoritmo non è uno strumento di pura valutazione matematica, ma un vero e proprio co-attore di pianificazione, che filtra e segnala le priorità urbane, spesso prima ancora che vengano comprese o definite politicamente. È un cambio, al contempo, di scala e di natura: se la smart city si occupava di rendere più fluido il traffico, l’urban AI si interroga su chi accede a quel traffico, su chi lo genera, su chi ne resta escluso, e cerca di capire come queste scelte riconfigurino, anche in maniera indiretta, le condizioni di equità e convivenza sociale.

How Are Urban Planners Using Artificial Intelligence?

Pianificazione come equità distributiva dei servizi

Dietro la superficie apparente di ogni decisione urbanistica si cela, in realtà, una decisione sociale nelle sembianze di una questione tecnica. Un piano di trasporto non riguarda solamente la fluidità dei flussi, ma si interroga sulla distribuzione delle possibilità di movimento, stabilendo, ad esempio, chi potrà raggiungere un centro di lavoro in 20 minuti e chi invece resterà confinato in un’ora di pendolarismo quotidiano. Una scelta di politica abitativa non determina soltanto la densità edilizia, ma decide quali comunità avranno accesso – e a quali condizioni – a spazi verdi, scuole, servizi diffusi, reti di prossimità, e quali, invece, saranno relegate in aree marginali, depotenziate, con servizi residuali o inefficienti. L’intelligenza artificiale, se correttamente applicata a questi ambiti, può portare con sé un potenziale di trasformazione radicale: la capacità di rendere visibili, decifrabili e modellabili le connessioni invisibili tra le configurazioni spaziali e le disuguaglianze sociali.

Mobilità, giustizia spaziale e partecipazione: il caso di Medellín

Un esempio eloquente è, ad esempio, l’uso dell’AI a Medellín, in Colombia, introdotta inizialmente per pianificare i nuovi corridoi di mobilità integrata. A partire da una pianificazione iniziale su temi infrastrutturali e di reti di trasporto, ci si è interrogati sulla necessità di collegamento dei quartieri più fragili al resto della città, integrando dati su reddito, sicurezza e accesso ai servizi.

L’algoritmo ha permesso di mostrare che alcune aree a rischio di esclusione non erano considerate prioritarie per il traffico veicolare, ma lo erano per i progetti di giustizia sociale, trascurando la rilevanza dei meccanismi di dinamizzazione sociale, per favorire la trasformazione delle comunità. Questo ha orientato l’amministrazione a intervenire con soluzioni di trasporto pubblico mirate, in un’ottica di riequilibrio territoriale come un motore di riattivazione del senso di partecipazione.

Qui l’AI non è quindi stata utilizzata solo uno strumento predittivo, ma è diventata una lente politica, capace di evidenziare squilibri che altrimenti avrebbero rischiato di rimanere esclusi dai tavoli di  negoziazione urbanistica.

Lo spazio pubblico come sensore sociale: l’esempio di Melbourne

Se la pianificazione territoriale contribuisce a stabilire le cornici – fisiche, logistiche, simboliche – della vita sociale, è nel modo in cui si può vivere lo spazio pubblico che queste cornici prendono corpo. Nelle modalità in cui vengono indotte, limitate o co-definite le possibilità di vivere la quotidianità, l’intelligenza artificiale può rivelare dinamiche altrimenti inafferrabili: i modi in cui le diverse comunità utilizzano una piazza, le traiettorie di chi attraversa un parco, i tempi di permanenza di giovani, anziani o comunità migranti in spazi di incontro o di transizione. Grazie a sistemi di computer vision, opportunamente anonimizzati, e all’uso di sistemi di analisi predittiva, è possibile misurare non solo la quantità di utilizzo degli spazi, ma anche la qualità delle interazioni che vi intervengono.

A Melbourne, ad esempio, l’amministrazione ha scelto di utilizzare modelli di AI per osservare gli spazi sociali e l’uso differenziato dei parchi urbani durante e dopo la pandemia. I dati hanno mostrato che famiglie e anziani tendevano a riappropriarsi più lentamente degli spazi aperti rispetto ai giovani adulti. Questo ha orientato interventi mirati: aree gioco più accessibili, percorsi pedonali più sicuri, infrastrutture di comfort pensate per permanenze più lunghe. In questo senso, l’AI non è stata uno strumento di controllo, ma un sensore sociale capace di restituire alla città una percezione fine delle fragilità e delle opportunità di convivenza.

Percezioni, inclusività e dati visuali: il progetto di Montréal

A Montréal, il progetto di ricerca “Street Review”, diretto da Rashid Mushkani, ha integrato migliaia di immagini da street-view con interviste semistrutturate, per produrre mappe di percezione dell’inclusività delle strade. Un modello di AI ha generato delle heatmap che correlano attributi fisici dello spazio – come il marciapiede, il verde, le sedute – con valutazioni soggettive sulle condizioni di accessibilità, sicurezza e comfort. Il risultato è un’analisi capace di evidenziare le disparità culturali e di genere nell’esperienza urbana, fornendo strumenti utili per successivi interventi di pianificazione e di design dello spazio, contestualizzati e inclusivi.

Governance dell’AI tra sorveglianza e trasparenza

Se l’AI urbana può quindi, a tutti gli effetti, essere utilizzato come un sensore collettivo, può altrettanto facilmente trasformarsi in uno strumento di sorveglianza. L’infrastruttura che può contare i pedoni, calcolare gli spostamenti, riconoscere eventuali schemi di comportamento individuale e collettivo, può facilmente essere piegata a logiche securitarie, di controllo sociale o di pressione commerciale. La differenza non è di natura tecnica, ma eminentemente politica: dipende da chi esercita la governance dei dati, da quali garanzie esistono sui processi decisionali, da come vengono distribuite le responsabilità e da quale livello di trasparenza è possibile garantire alla cittadinanza.

Il caso di Sidewalk Labs a Toronto, in tempi in cui la capacità interpretativa non era così capillare, né così accurata, resta esemplare: un progetto di quartiere iper-connesso, abortito dopo anni di dibattito pubblico e contestazioni, perché la comunità temeva che la gestione privata dei dati urbani rischiasse di produrre un regime opaco, incapace di garantire vera accountability pubblica. Al polo opposto, l’amministrazione comunale di Amsterdam ha istituito il primo registro algoritmico urbano, che rende pubbliche le applicazioni di AI usate dall’amministrazione, permettendo alla cittadinanza di conoscere e comprendere le logiche e le finalità dei sistemi in uso. È una differenza radicale: nel primo caso, la fiducia si spezza per assenza di regole, che si ripercuote sulla fragilità progettuale complessiva; nel secondo, la fiducia si costruisce con la costruzione di un contesto – non privo di contraddizioni – di trasparenza istituzionalizzata.

AI come test di democrazia e co-produzione

In questo senso, l’AI urbana può essere considerata, già oggi, un test di democrazia e di dinamicità partecipativa. Le città che la considerano e la utilizzano come una risorsa comune – i dati come bene pubblico, gli algoritmi come un’infrastruttura da auditare – stimolano e aprono nuovi spazi di co-produzione collettiva. Quelle che esternalizzano in toto il servizio e la delegano in maniera acritica a piattaforme private rischiano di consegnare porzioni crescenti di sovranità a logiche estranee al principio di tutela e sviluppo della cittadinanza.

Sovranità dei dati: livelli e scelte tecniche

Mai come nel caso dell’AI urbana è fondamentale interrogarsi sulla sfida – culturale, strutturale e strategica – della sovranità dei dati, che non deve essere confusa né il problema della loro localizzazione fisica, né con una generica, imprecisata, pretesa di “proprietà”. Si tratta, invece, più precisamente, della capacità istituzionale di negoziare l’architettura cognitiva alla base della governance di una città: chi traccia le linee tematiche prioritarie, chi definisce gli schemi dei dati rilevanti, chi li può elaborare ed interpretare, e per quali fini, chi li può auditare, come si esce da una eventuale relazione contrattuale senza perdere memoria storica o qualità informativa. In assenza di queste condizioni, l’AI urbana inevitabilmente riduce il settore pubblico a un mero consumatore di piattaforme, in cui la città non acquisisce capacità potenziata di pianificazione, ma si limita ad eseguire raccomandazioni data-driven. In un contesto di garanzia della sovranità informativa (dei dati e dell’AI), invece, la città diventa un orchestratore: può stabilire standard di interoperabilità, può imporre clausole di portabilità, può definire metriche di impatto sociale e conservare la facoltà di “spegnere” o sostituire componenti senza rischiare di congelare servizi o di far collassare il sistema.

Per cercare di semplificare, possiamo distinguere quattro differenti livelli di sovranità, che cercheremo di contestualizzare e problematizzare con alcune domande:

  1. Sovranità infrastrutturale: dove sono i dati, come vengono protetti, quali sistemi li processano? La città può scegliere di trasferire carichi tra cloud diversi? Può chiedere edge processing (elaborazione dei dati sul dispositivo che li raccoglie, con invio solo dei dati essenziali) con minimizzazione by design?
  2. Sovranità logico-semantica: chi controlla le architetture logiche e i vocabolari? Il fornitore può scegliere di cambiare il modello dati senza necessità di approvazione da parte di un comitato pubblico? Gli ID persistenti sono portabili?
  3. Sovranità contrattuale e di governance: quali diritti di audit, step-in e escrow di modelli/dataset sono previsti? È garantita la consegna periodica di dati derivati e feature store in formati aperti?
  4. Sovranità strategico-valutativa: chi decide la rilevanza delle informazioni e le metriche di valore? I Service Level Agreements includono indicatori di equità, accessibilità, impatto distributivo? Esistono kill switch se l’algoritmo produce esiti regressivi?

Su questi livelli, com’è facile comprendere, si innestano scelte tecniche tutt’altro che neutre. Un’architettura edge-first consente, per esempio, di pre-trattare i dati sensibili prima che raggiungano il cloud, ridimensionando l’esposizione, riducendo la superficie di rischio e aumentando il controllo pubblico sull’intero processo di trasferimento dati. Sistemi di federated learning permettono di allenare modelli su dati che non escono dai domini di controllo degli enti (sanità, scuola, mobilità), mitigando lock-in e problemi normativi. Un registro pubblico dei modelli utilizzati e in uso, con versionamento e provenienza dei dataset, rende auditabile l’intera storia decisionale, trasformando i processi decisionali AI-assisted in materia di accountability, e non di semplice affidabilità o credibilità istituzionale.

Casi e traiettorie internazionali di sperimentazione

Alcuni casi, forse meno noti ma certamente sintomatici di uno scenario internazionale in fase di forte sperimentazione, mostrano alcune traiettorie, perfettibili ma praticabili:

  • Copenhagen City Data Exchange (Danimarca): un esperimento, forse troppo precoce, di mercato urbano dei dati, che ha evidenziato la difficoltà di far emergere un marketplace in assenza di casi d’uso ancorati a strategie politiche. È quindi risultata evidente la necessità di creare, prima di listini generici, domini verticali (es. energia di quartiere, logistica, etc.) con elevato livello di specializzazione e regole chiare su qualità, responsabilità e prezzo dei dati.
  • Personal data stores – SOLID (Fiandre): progetti-pilota con data pods personali per accedere a servizi pubblici (es. educazione, housing, energia), in cui l’utente può autorizzare l’accesso, anche parziale, a dati sotto il suo controllo. L’esempio, notevolmente evoluto nel corso degli anni, ha mostrato come la portabilità, se reale, favorisca la concorrenza positiva sui servizi (non sui dati), permettendo alle PA di cambiare fornitore senza re-ingest massivi.
  • Chicago – Array of Things (USA): il progetto si basa su rete di sensori urbani, governata da policy avanzate di privacy e governance pubbliche, con pre-processing in loco e rilascio di derivati aperti. In questo caso, la sovranità non è solo giuridica, ma fortemente tecnica, con scelte (data minimization, open artifacts, etc) e meccanismi multilaterali di supervisione per ridurre l’asimmetria tra PA e vendor tecnologici, rendendo replicabile la piattaforma.

Il dato come bene relazionale e metriche sociali

Questi percorsi, con esiti di successo eterogenei, che gettano le fondamenta necessarie per il superamento di un approccio puramente smart, a favore di un approccio AI-assisted, si basano su un principio semplice: il dato è un bene relazionale, ed è proprio nella sua natura relazionale, dinamica, multidimensionale, che si deve esprimere la consapevolezza politica dell’introduzione dell’AI come motore di abilitazione cognitiva, anziché come sistema di efficientamento.

La sovranità dei dati nei contesti di urban AI si basa, innanzitutto, su una solida capacità valutativa. Una città è realmente sovrana, tecnologicamente e digitalmente, quando può misurare il valore dei propri dati rispetto al peso e alla gerarchia di priorità degli obiettivi pubblici: la riduzione del tempo di accesso ai servizi per le minoranze, gli scenari di riequilibrio dei tempi di cura, la sicurezza percepita, i meccanismi di attivazione della coesione intergenerazionale.

Se l’algoritmo genera solo efficienza, senza abilitare meccanismi di nuova inclusione e partecipazione sociale, non stiamo capendo cosa significhi, davvero, AI urbanism. Se invece chi ne detiene la governance chiede numeri trasparenti su chi beneficia delle decisioni AI-assisted e impone di correggere – con nuovo training – eventuali squilibri, allora la tecnologia può davvero lavorare per l’interesse pubblico.

Capacità di cambiare senza perdere memoria

In altre parole: la sovranità dei dati, nel contesto della governance e della pianificazione urbana abilitata dall’AI, consiste nella rivendicazione e nella protezione del diritto di poter cambiare idea senza perdere memoria, di poter cambiare fornitore senza perdere intelligenza, di poter cambiare priorità senza perdere trasparenza. È qui che l’AI deve cessa di essere concepita come un servizio esternalizzato, per diventare a tutti gli effetti una nuova capacità istituzionale. L’intelligenza non sta nella piattaforma tecnologica, ma nella città che, a partire dalla piena consapevolezza sul proprio contesti, sui propri limiti, sulle proprie potenzialità, la sa governare.

Condizioni per un’AI infrastruttura di democrazia

Come abbiamo cercato di illustrare, l’intelligenza artificiale, se correttamente introdotta e applicata all’ambito urbano, non è un semplice strumento di ottimizzazione tecnica, ma un’infrastruttura cognitiva che permette di decidere cosa può essere visto e cosa deve rimanere invisibile, chi può essere incluso nei processi di pianificazione e chi ne deve rimanere escluso. Va trattata, quindi, come una tecnologia dalle implicazioni eminentemente politiche: il suo uso definirà le forme e le dinamiche della convivenza urbana nei decenni a venire.

Il punto non è più, semplicemente, se introdurre l’AI nella pianificazione, ma quale AI vogliamo adottare, e a quali condizioni. Vogliamo esporci al rischio di una AI che amplifica le disuguaglianze ereditate, riproducendo bias nei dati e nei modelli? O vogliamo costruirne una capace di rendere finalmente visibili le fragilità sociali e indirizzare, in maniera motivata e trasparente, nuove politiche di inclusione? Ne vogliamo una che concentra il controllo, individuale e collettivo, in poche piattaforme globali, o una distribuita, capace di diventare un patrimonio condiviso di cittadinanza? Nelle scelte che prenderemo, di fronte a questi bivi, si giocherà non soltanto la sovranità tecnologica, ma la capacità di conservare gli spazi di pianificazione e governance urbana come spazi di libertà.

Perché l’AI urbana possa dunque diventare infrastruttura di democrazia, dovremo prendere in considerazione tre condizioni, imprescindibili
la necessità di abilitare nuove competenze pubbliche, per potenziare la capacità di comprendere, interpretare, utilizzare, auditare e governare i sistemi. In assenza di questa consapevolezza, le istituzioni saranno condannate a diventare semplici user di tecnologia.

  • la sovranità dei dati, che dovranno essere trattati come un bene comune e non come una materia prima da estrarre. Se comprenderemo che lo spazio dei dati collettivi è un’estensione della natura sociale nel suo manifestarsi, e non un asset da sfruttare, sapremo come convertire il potenziale informativo della collettività in un bene di crescita per le comunità locali;
  • l’identificazione di metriche di impatto sociale, per affiancare ai KPI tecnici dei chiari indicatori di equità, accessibilità e coesione. Solo così l’AI potrà diventare uno strumento di responsabilità collettiva, prevenendo rischi di degenerazione in infrastrutture di sorveglianza o di dipendenza.

Le città che sapranno trasformare l’AI in un vero strumento di auto-analisi e di auto-riflessione – capace di rilevare e mostrare a una comunità eventuali fragilità strutturali o progettuali, e di accompagnarla verso nuove forme di convivenza – sapranno guidare il futuro della governance AI-driven verso una nuova concezione di intelligenza collettiva integrata. Quelle che resteranno ancorate a un uso puramente tecnocratico, centrato sulla mera efficienza e sull’ottimizzazione dei processi, rischieranno invece di cedere spazi di sovranità collettiva, di compromettere la fiducia dei cittadini e di irrigidire le possibili asimmetrie sociali.

AI urbana come scelta di civiltà

L’urban AI, pertanto, deve essere concepita come una scelta di civiltà, di fronte alla possibilità di gestire la complessità ecosistemica dello spazio urbano con nuovi strumenti e nuove prospettive interpretative. È qui, in questa possibilità di abilitazione di un nuovo livello di conoscenza, che si gioca il futuro delle democrazie urbane: nel decidere se l’AI potrà diventare uno strumento avanzato di inclusione ecosistemica, o se dovrà limitarsi ad accelerare nuove inefficienze, in un contesto semplicemente più informato.

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