Negli ultimi anni i programmi di Diversity, Equity & Inclusion (DEI) hanno conosciuto un progressivo ridimensionamento, sia nel settore pubblico sia in quello privato.
Secondo la seconda edizione dell’International Barometer, “Diversity & Inclusion nelle organizzazioni” (Cegos Group), la Diversity & Inclusion è ormai conosciuta dalla quasi totalità dei dipendenti (94%, 98% in Italia), ma la discriminazione resta diffusa: l’84% dei lavoratori (77% ITA) e il 98% degli HR (97% ITA) hanno assistito a episodi sul luogo di lavoro, e due dipendenti su tre dichiarano di averne fatto esperienza diretta. Le principali forme riguardano aspetto fisico, età, razzismo e status socioeconomico, con effetti negativi sul clima lavorativo. Tra i risultati più rilevanti inoltre la presenza di un certo divario tra le intenzioni dichiarate dalle aziende e le pratiche quotidiane percepite e vissute dai dipendenti in termini di Diversity and Inclusion.
La crescente pressione politica e sociale, insieme alla percezione diffusa che molte di queste iniziative siano state implementate in modo formale, talvolta ideologico o imposto dall’alto, ha reso la loro sopravvivenza più fragile che mai.
Indice degli argomenti
Performance management come alternativa naturale alla DEI
Questo arretramento, tuttavia, non deve essere interpretato come la fine di una stagione, bensì come l’occasione per ripensare radicalmente il concetto stesso di diversità, concependolo in modo più ampio, più sostanziale e, soprattutto, più funzionale all’innovazione e alla performance organizzativa.
Ricerche recenti (Dobbin e Kalev, 2025) mostrano, infatti, che le imprese che hanno investito su modelli manageriali innovativi e su strumenti di performance management hanno finito per ottenere non soltanto un miglioramento dei risultati, ma anche una crescita naturale e duratura dei livelli di diversità, senza ricorrere a programmi DEI tradizionali, spesso accompagnati da resistenze e diffidenze. La logica che sorregge questo fenomeno appare molto semplice ovvero costruire un ambiente in cui le persone si sentano realmente valorizzate, sostenute e messe nelle condizioni di esprimere il massimo potenziale conduce a una maggiore produttività, ma al tempo stesso genera una forma di inclusione che non è il frutto di un’imposizione esterna, bensì la conseguenza fisiologica di una cultura organizzativa orientata alla performance e all’eccellenza.
Dal superficiale al profondo: i limiti della diversità visibile
Il punto cruciale è che per troppo tempo la diversità è stata concepita e misurata attraverso variabili visibili e immediate – età, genere, etnia, provenienza geografica – ciò che la letteratura definisce surface-level diversity. Sebbene queste dimensioni restino importanti, esse rischiano di rappresentare un proxy imperfetto, se non addirittura fuorviante, del reale valore generativo della diversità. Accanto a queste dimensioni “di superficie” vi è, infatti, la deep-level diversity, che include tratti meno visibili, come valori, stili di pensiero, personalità e soprattutto esperienze cognitive.
È qui che si colloca la cognitive diversity, intesa come l’insieme delle differenze nei modi in cui le persone pensano, apprendono e prendono decisioni. Non riguarda solo ciò che si pensa, ma soprattutto il modo in cui si arriva a pensarlo. Ogni individuo elabora la realtà attraverso filtri personali che derivano dal proprio percorso educativo, dalle esperienze professionali, dai valori interiorizzati e dal contesto culturale in cui si è formato. Questa varietà costituisce una risorsa essenziale per l’innovazione e la qualità delle decisioni, poiché amplia la gamma delle prospettive disponibili in un gruppo di lavoro.
Le radici multiple della diversità cognitiva
Le radici della diversità cognitiva sono molteplici. Il background educativo incide profondamente sul modo di ragionare e di risolvere i problemi. Studiare discipline diverse, come le scienze umane, le arti o le scienze applicate, genera approcci distinti all’analisi e alla creatività. Anche il tipo di formazione ricevuta, più teorica o più pratica, e il contesto culturale o geografico in cui si è studiato influenzano l’orientamento mentale delle persone, la loro propensione al metodo o all’intuizione, e il loro rapporto con l’autorità e con l’errore.
Un ruolo altrettanto importante è svolto dal percorso professionale. Aver lavorato in contesti diversi, in funzioni o settori eterogenei, costruisce modi differenti di intendere il lavoro, di valutare il rischio e di interpretare le priorità aziendali. L’esperienza accumulata in ambienti organizzativi diversi, nei mercati finanziari o in settori non finanziari, produce una varietà di approcci che può rafforzare la capacità collettiva di leggere situazioni complesse e di adattarsi ai cambiamenti.
Anche lo stile cognitivo e la personalità contribuiscono alla diversità del pensiero. Alcune persone ragionano in modo lineare e strutturato, altre prediligono un approccio più intuitivo e creativo. C’è chi si concentra sui dettagli e chi preferisce visioni d’insieme, chi trae energia dal confronto e chi dal lavoro solitario. Nessuno di questi tratti è superiore agli altri, ma la loro coesistenza, se gestita con equilibrio, rende un team più capace di affrontare problemi complessi e di individuare soluzioni originali.
I valori rappresentano un’altra dimensione cruciale della diversità cognitiva. Non si limitano agli aspetti etici, religiosi o politici, ma comprendono anche quelli che orientano la condotta lavorativa. Alcuni mettono al primo posto la precisione, altri la rapidità, altri ancora la creatività o la sostenibilità. Queste differenze, se riconosciute e armonizzate, possono diventare una fonte di arricchimento reciproco.
L’influenza dei fattori demografici e biografici sul pensiero
Quando invece restano implicite o non vengono comprese, possono generare tensioni e fraintendimenti.
Infine, e appare evidente, anche i fattori demografici e il background di vita influiscono profondamente sul modo di pensare. L’età, il genere, la provenienza sociale e culturale, lo status economico o le esperienze personali plasmano la visione del mondo. Chi ha vissuto periodi di crisi tende spesso a essere più prudente, chi è cresciuto in contesti più stabili o innovativi può mostrare maggiore propensione al rischio. Le esperienze personali, comprese quelle di difficoltà o di cambiamento, modificano il modo di interpretare il lavoro e il significato del successo, diventando una fonte preziosa di resilienza e di prospettiva.
I limiti e i rischi di una visione semplicistica
Nel dibattito contemporaneo la diversità cognitiva viene spesso presentata come un valore indiscusso, quasi una garanzia automatica di innovazione. Tuttavia, altresì una visione così semplicistica rischia di essere fuorviante. Non tutte le forme di diversità producono effetti positivi e in ogni contesto possono emergere anche costi, come difficoltà di comunicazione, conflitti o dispersione degli obiettivi. La diversità cognitiva è efficace solo quando si accompagna a un minimo comune denominatore di linguaggio, competenze e valori condivisi.
La diversità cognitiva come principio strategico organizzativo
In questo senso, la diversità cognitiva non deve essere intesa come un semplice indicatore da monitorare, bensì come un vero e proprio principio guida, capace di orientare le politiche di reclutamento, i percorsi di sviluppo delle competenze, i programmi di mentoring, le strategie di gestione delle carriere e persino i processi di riorganizzazione nei momenti di discontinuità o di crisi. Non è più sufficiente adottare un approccio superficiale, volto a “aggiungere diversità e mescolare”, ma occorre individuare in maniera mirata le dimensioni cognitive che producono reale valore organizzativo, comprenderne al contempo i costi potenziali e strutturare meccanismi capaci di attenuarne i rischi e amplificarne i benefici.
Il contributo della ricerca di Alex Edmans al dibattito
A conferma della crescente centralità di questa prospettiva, la ERMES, startup universitaria della Sapienza Università di Roma, ha co-organizzato la tappa romana del Salone SRI, il più autorevole evento italiano dedicato alla finanza sostenibile proprio con l’obiettivo di portare all’attenzione di investitori, accademici e leader d’impresa la necessità di superare la concezione tradizionale dei programmi DEI e di abbracciare una visione più sofisticata. La tavola rotonda dal titolo “Diversità, purpose ed ESG: nuove prospettive per una stewardship credibile” ha rappresentato un momento di particolare rilievo, arricchito dalla presenza di Alex Edmans, Professor of Finance alla London Business School, autore di una importante ricerca sul rapporto tra diversità cognitiva e performance dei team di investimento.
Le sfide del coordinamento nella gestione della diversità
Se da un lato c’è un ampio consenso sui benefici potenziali della diversità cognitiva, dall’altro c’è anche un ampio consenso sulle sfide che essa può comportare. Tra queste le difficoltà di coordinamento rappresentano la prima e più evidente sfida posta dalla diversità cognitiva. Differenze di linguaggi, di logiche di pensiero o di priorità operative possono generare incomprensioni, lentezza decisionale e un rischio di dispersione. Quando persone con visioni e strumenti cognitivi molto diversi collaborano, non sempre riescono a valorizzare pienamente la complementarità delle prospettive. Talvolta la ricchezza di idee si trasforma in paralisi, oppure l’inclusione viene confusa con l’obbligo di dare uguale peso a ogni opinione, anche quando non è fondata su evidenze solide. In questi casi la diversità resta solo potenziale: non produce valore, ma complessità gestionale.
Affinità, identità e il delicato equilibrio organizzativo
Accanto a queste dinamiche, emerge il tema cruciale dell’affinità. Un certo grado di comunanza favorisce fiducia, coesione e collaborazione, poiché consente di ridurre i costi relazionali e di costruire un linguaggio condiviso. La possibilità di riconoscersi in tratti comuni – esperienze, valori, obiettivi – rafforza il senso di appartenenza e la propensione al confronto aperto. Tuttavia, quando l’affinità diventa eccessiva può sfociare in conformismo, riducendo la varietà di pensiero e la capacità critica. Allo stesso modo, una diversità troppo spinta può generare isolamento o conflitto latente. Il punto di equilibrio non risiede quindi nella massimizzazione della diversità, ma nella sua integrazione sostenibile: le differenze devono essere ancorate a una cultura organizzativa in grado di accoglierle senza perdere coerenza.
Da questo punto di vista, la identità dell’organizzazione gioca un ruolo determinante. Se la diversità cognitiva non è bilanciata da standard comuni di eccellenza e da un nucleo di valori condivisi, rischia di diluire la fisionomia collettiva dell’impresa. Gli intervistati hanno sottolineato che ogni professionista deve comunque possedere un set minimo di competenze trasversali – come chiarezza comunicativa, capacità analitica e autocontrollo – che permettono di dialogare efficacemente con colleghi diversi per formazione o approccio. La diversità non sostituisce l’identità, ma la arricchisce; diventa una risorsa solo se si fonda su una base comune che garantisca riconoscibilità e coerenza strategica.
Le barriere culturali che limitano l’espressione del pensiero
Non mancano tuttavia le barriere che ostacolano l’espressione piena della diversità cognitiva. Tra queste, il timore di esporsi o di contraddire figure senior, la pressione al conformismo e la tendenza di alcuni leader a voler avere sempre ragione. I nuovi assunti, in particolare, possono esitare a esprimere opinioni divergenti per non apparire “fuori posto”. Anche le riunioni numerose o eccessivamente gerarchiche scoraggiano la partecipazione, mentre la cultura del “non sbagliare” riduce l’iniziativa e il pensiero indipendente. In questo quadro, le asimmetrie di equità e inclusione amplificano le difficoltà: percezioni di trattamento ingiusto o linguaggi non inclusivi fanno diminuire la fiducia psicologica e, di conseguenza, la disponibilità a contribuire con idee originali. Il tema di genere, in particolare, evidenzia come pratiche solo apparentemente inclusive – standard più bassi, minori opportunità informali di networking, reti femminili prive di reale impatto – possano produrre effetti opposti, limitando la partecipazione e la crescita.
Il ruolo decisivo della leadership inclusiva
Per superare queste barriere, la leadership si rivela la variabile più decisiva. I leader efficaci non si limitano a proclamare il valore della diversità, ma lo praticano attraverso comportamenti coerenti: chiariscono aspettative, chiedono attivamente punti di vista diversi, premiano il dissenso costruttivo e riconoscono il valore dell’errore come occasione di apprendimento. La leadership inclusiva si fonda su consapevolezza, equità e capacità di bilanciare ascolto e decisione. Ciò significa sapere quando è il momento di confrontarsi e quando di agire, ma anche adattare lo stile comunicativo alle diverse personalità del team, favorendo l’espressione di ciascuno.
Le condizioni per trasformare la diversità in valore
In ultima analisi, la diversità cognitiva funziona quando è sostenuta da una cultura consapevole, equa e guidata da leader capaci di integrare differenze senza disperdere coesione. L’affinità genera fiducia, l’identità offre ancoraggio, l’equità crea spazio per la voce di tutti, e la leadership trasforma questa pluralità in una risorsa collettiva. Solo così la diversità diventa un motore reale di innovazione, apprendimento e qualità decisionale, anziché un vincolo organizzativo da gestire.
Implicazioni strategiche per imprese e policy maker
La diversità cognitiva non rappresenta una semplice estensione dei programmi di Diversity, Equity & Inclusion, ma un vero cambio di paradigma nella comprensione del capitale umano e nella progettazione delle organizzazioni contemporanee. In un contesto economico e sociale caratterizzato da crescente complessità, volatilità e interdipendenza, la diversità cognitiva costituisce una leva di vantaggio competitivo e di resilienza sistemica, capace di generare innovazione sostenibile e decisioni più robuste. Per le imprese, ciò implica un ripensamento profondo delle politiche di gestione delle persone.
Occorre superare la logica degli adempimenti normativi e delle iniziative simboliche, per integrare la diversità cognitiva nei processi strategici e operativi. Ciò significa progettare sistemi di selezione e valutazione che sappiano riconoscere e misurare la varietà dei profili mentali e dei pattern decisionali, includendo competenze trasversali come la capacità di ascolto, l’apertura mentale, la gestione del conflitto e il pensiero critico. Significa anche adottare modelli di leadership inclusiva, basati su un equilibrio consapevole tra coerenza e pluralità, tra ascolto attivo e orientamento ai risultati. Le organizzazioni dovrebbero inoltre promuovere programmi di formazione e mentoring che favoriscano l’incontro tra approcci diversi, stimolando il confronto intergenerazionale, interdisciplinare e interculturale.
Dal punto di vista dei policy maker, la sfida è altrettanto significativa. Le politiche pubbliche dovrebbero incoraggiare la diversità cognitiva come fattore di innovazione e competitività nazionale, integrandola negli strumenti di governance, di rendicontazione e di valutazione delle performance. È necessario sviluppare indicatori che vadano oltre le metriche tradizionali della rappresentanza, includendo parametri legati alla qualità dei processi decisionali, alla trasparenza dei meccanismi di ascolto e all’efficacia della partecipazione. Le istituzioni educative e di formazione continua possono svolgere un ruolo decisivo, introducendo percorsi che potenzino le competenze cognitive e sociali necessarie a gestire la complessità e a valorizzare la differenza.
Verso una nuova visione generativa della diversità
In una prospettiva sistemica, la diversità cognitiva diventa così una dimensione strutturale della sostenibilità organizzativa e della stewardship responsabile. Essa permette di costruire ecosistemi decisionali più aperti, capaci di apprendere, adattarsi e innovare. Solo integrando la diversità cognitiva nei meccanismi di governance, nelle politiche del lavoro e nei sistemi educativi sarà possibile superare la logica difensiva della “diversità come obbligo” e costruire una visione generativa della “diversità come intelligenza condivisa”.











