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IA generativa: una nuova forma di creatività è possibile



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I sistemi di IA generativa elaborano miliardi di dati per creare contenuti nuovi attraverso. Questa capacità computazionale sovrumana permette di individuare pattern complessi e sviluppare soluzioni innovative in diversi ambiti applicativi e creativi

Pubblicato il 6 ott 2025

Michele Farisco

Unità di Bioetica, Biogem scarl, Ariano Irpino (AV), Centre for Research Ethics and Bioethics, Uppsala University



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Sia in ambito specialistico sia nella divulgazione scientifica si propone spesso il confronto tra intelligenza artificiale e intelligenza naturale, per varie finalità, che vanno dall’esaltazione della prima alla difesa della specificità e unicità della seconda.

La creatività è tra le caratteristiche più frequentemente oggetto di questo confronto.

Essere creativi, infatti, è considerata una delle caratteristiche più importanti e caratterizzanti dell’intelligenza, in particolare di quella naturale, a tal punto che per considerare una macchina come realmente intelligente è necessario che essa stessa sia in certa misura creativa. Ma qual è il significato di creatività? Quali i criteri per poter qualificare qualcuno o qualcosa come creativo? Ha senso estendere il concetto di creatività anche all’intelligenza artificiale?

Le forme della creatività e i criteri di valutazione

Definire la creatività non è semplice, anzitutto perché il concetto stesso è complesso. La creatività, infatti, può riferirsi a diversi domini (per esempio, linguistico, artistico, scientifico), ha diverse dimensioni (per esempio, novità, valore, sorpresa, spontaneità, intenzionalità), coinvolge diversi processi (per esempio, astrazione, pensare fuori dagli schemi, formare analogie), e ha diverse tipologie o forme (per esempio, estrapolazione, interpolazione, invenzione)[1].

In particolare, Demis Hassabis ha individuato tre diverse forme di creatività:

  • interpolazione, ossia generare un oggetto creativo facendo la media di tutti quelli noti della stessa classe;
  • estrapolazione, ossia generare un oggetto creativo estendendo i confini di quanto già noto;
  • invenzione, ossia introdurre una classe di oggetti completamente nuova[2].

In generale, i tre caratteri che si tende a ritenere necessari per poter parlare di creatività sono che si generi qualcosa di nuovo, di utile per raggiungere un certo obiettivo, e di non ovvio, ossia che abbia un certo carattere di sorpresa[3].

Pertanto, creativo è colui che unisce la capacità di produrre qualcosa di innovativo o di nuovo alla capacità di realizzare un salto di qualità in un determinato contesto o ambito. Per esempio, possiamo avere un’idea del significato filosofico di creatività considerando la concezione del progresso scientifico proposta da Thomas Kuhn, per il quale la scienza progredisce attraverso mutamenti paradigmatici, ossia veri e propri salti che determinano un cambiamento radicale nell’architettura teorica della scienza.

Il filosofo americano parla di sviluppo “rivoluzionario” della scienza, nel senso che una visione del mondo prende il posto di un’altra, determinando un cambiamento drammatico che non è analizzabile secondo rigidi criteri logici, ma piuttosto si configura come una Gestaltswitch, uno slittamento percettivo, in virtù del quale si può vedere un’immagine o un’altra, ma non entrambe allo stesso momento.

L’IA generativa e le sue capacità creative attuali

L’IA generativa sembrerebbe possedere, almeno in parte, le capacità sopra elencate. Per esempio, i grandi modelli linguistici (ChatGPT, Grok, Gemini, Copilot, PaLM, LLaMa, ecc.), sono in grado di individuare dei patterns (ossia degli schemi) tra i miliardi di dati con cui sono stati addestrati ed elaborare sulla base di essi le risposte più appropriate, replicando o adattando dei vecchi schemi, per esempio incrociandoli tra loro. In questo modo l’IA generativa realizza un’inferenza detta correlativa, ossia risponde alla richiesta dell’utente attraverso l’analisi statistica e la combinazione dei dati disponibili.

Grazie a una potenza di calcolo e a una quantità di dati senza precedenti, questo approccio sta avendo un successo crescente in diverse applicazioni, al netto di taluni limiti strutturali o di sviluppo[4]. In ogni caso, possiamo dire che l’IA generativa esprime una forma di creatività, compatibile sia con l’interpolazione, sia con l’estrapolazione come definite da Demis Hassabis. Ossia l’IA generativa appare in grado di generare un oggetto nuovo facendo la media di quelli noti della stessa classe oppure estendendo i confini di quanto è già noto.

La terza forma di creatività individuata da Hassabis, vale a dire l’invenzione intesa come introduzione di una classe di oggetti completamente nuova, sembrerebbe (ancora) preclusa all’IA, anche se, per esempio, il cosiddetto apprendimento per rinforzo (reinforcement learning) può condurre allo sviluppo autonomo di strategie avanzate per la risoluzione di determinati problemi[5].

In effetti, volendo essere più analitici, il livello di creatività espresso dall’IA dipende dal dominio e dall’attività specifici presi in considerazione. Recentemente è stato messo in evidenza che le capacità creative degli attuali sistemi artificiali sono molto avanzate in ambito linguistico e artistico, mentre esse sono ancora molto limitate nell’ambito del problem-solving, del pensiero astratto e della composizionalità[6].

Per rimediare a queste limitazioni, probabilmente non è sufficiente “insistere” sulle cosiddette funzioni di ricompensa (rewards functions), né limitarsi ad aumentare i dati e la capacità di calcolo dei computer, ma potrebbe essere necessario un cambio di paradigma, come suggerito, per esempio, dall’approccio neuro-simbolico[7] [8].

Verso un’intelligenza artificiale autonoma e creativa

In ogni caso, qualunque sia l’approccio tecnico che si sceglie di utilizzare, si tende a ritenere che un sistema di IA è creativo se è capace di ragionare in modo contro-fattuale e di elaborare modelli del mondo, ossia immaginare e anticipare diversi scenari possibili[9]. Sostanzialmente, ragionare in modo contro-fattuale e simulare il mondo renderebbe l’IA autonoma, e quindi in grado di essere creativa anche nel senso più radicale del termine. Questo è un campo di ricerca ancora giovane[10], e rimane molto da fare, pur essendo i risultati molto incoraggianti.

In particolare, molto promettente appare la combinazione dell’IA con la robotica al fine di creare degli agenti cognitivi autonomi che legittimamente possiamo definire creativi[11]. Essi, infatti, sono in grado di apprendere al di fuori dei dati di addestramento, ossia di adattarsi in modo flessibile alle condizioni dell’ambiente circostante e operare in modo appropriato senza la supervisione di un operatore umano.

Pertanto, in linea di principio è possibile che l’IA sviluppi anche la terza forma di creatività indicata da Hassabis, l’invenzione. Tuttavia, quand’anche la creatività artificiale si limitasse alle prime due forme (interpolazione ed estrapolazione), essa sarebbe pur sempre un risultato di straordinario valore, che non dobbiamo sminuire né ridimensionare assecondando il nostro istinto antropocentrico, ossia la tendenza a ritenerci il centro del mondo. Più saggio è, piuttosto, riconoscere che anche l’IA può essere creativa, e, a partire da questa possibilità, tentare di capire di che creatività si tratta: l’IA è creativa come noi, ossia fa meglio le stesse cose che facciamo noi, o è creativa in un modo tutto suo, ossia è capace di fare cose diverse da noi?

Il caso AlphaGo: una rivoluzione nel gioco del Go

AlphaGo, il sistema di IA sviluppato da Google DeepMind per giocare a Go, ha ottenuto dei risultati straordinari, sia per il fine specifico per cui è stato sviluppato (giocare a Go), sia in rapporto all’IA in senso ampio, inaugurandone di fatto una nuova era[12].

Rispetto ad altri giochi per i quali in passato sono stati sviluppati dei software e dei sistemi artificiali al fine di sfidare l’uomo, Go si distingue per una scala di complessità enormemente superiore: le combinazioni possibili delle pedine di gioco sono pari a 10170, più del numero degli atomi nell’universo conosciuto. Inoltre, Go si distingue per una grande complessità di esecuzione: per vincere è necessaria la combinazione di strategia, creatività e ingegnosità.

Per implementare queste capacità in AlphaGo, gli sviluppatori hanno fondamentalmente unito due strumenti: reti neurali profonde e algoritmi di ricerca molto avanzati. Più nello specifico, in AlphaGo operano due reti neurali: una, detta policy network, seleziona la mossa successiva da fare, mentre l’altra, detta value network, fornisce una valutazione delle mosse fatte e su questa base prevede il vincitore della partita.

La tecnica che soggiace a tale architettura è la combinazione di quelli che in termini specialistici sono definiti apprendimento supervisionato (supervised learning) e apprendimento per rinforzo (reinforcement learning): AlphaGo, dopo essere stato addestrato con numerose partite amatoriali di Go, è stato istruito a giocare contro se stesso migliaia di volte, ogni volta imparando dai propri stessi errori[13].

In aggiunta a queste tecniche di apprendimento, AlphaGo è dotato di un algoritmo di ricerca che gli ha consentito di raggiungere la percentuale del 99.8% di vittorie contro altri programmi di Go, nonché di sconfiggere per la prima volta nella storia un giocatore umano, il campione europeo di Go, Fan Hui, sconfitto 5-0.

La mossa 37 e il riconoscimento della creatività artificiale

Meno di un anno dopo questa storica vittoria, a marzo 2016 AlphaGo ha sfidato e sconfitto colui che era unanimemente considerato il più grande giocatore vivente di Go: Lee Sedol. 4-1 il risultato finale dell’incontro, in virtù del quale, anche in questo caso per la prima volta, una macchina ha ottenuto la classificazione professionale più alta nella storia di Go.

Al di là della vittoria finale, già di per sé niente affatto banale e sufficiente ad aprire orizzonti nuovi per l’IA e per la sua percezione pubblica, è molto significativa una mossa fatta da AlphaGo durante la seconda sfida con Lee Sedol: a un certo punto esso ha messo in atto la cosiddetta Mossa 37, un movimento che aveva una possibilità su diecimila di essere effettuato.

Come leggiamo sul sito di DeepMind, “questa mossa decisiva e creativa ha aiutato AlphaGo a vincere la partita e ha rovesciato secoli di sapienza tradizionale”. È interessante notare che Lee Sedol ha vinto l’unico suo game mettendo in atto una mossa altrettanto improbabile e creativa, la Mossa 78.

AlphaGo dimostra che una forma di creatività artificiale simile a quella umana è di fatto già possibile. Lo confermano le parole pronunciate dallo stesso Lee Sedol dopo la Mossa 37 del suo avversario artificiale: “Pensavo che AlphaGo fosse basato sul calcolo delle probabilità e che fosse semplicemente una macchina. Ma quando ho visto questa mossa, ho cambiato la mia opinione. Sicuramente AlphaGo è creativo”.

L’evoluzione verso AlphaGo Zero: apprendimento autonomo

A partire da AlphaGo, sono stati sviluppati dei sistemi ancora più avanzati, tra cui AlphaZero, il quale, a differenza di AlphaGo, non è stato addestrato “dandogli in pasto” migliaia di partite già giocate da giocatori umani, seguendo la logica di quelli che classicamente sono definiti “sistemi esperti”[14], ma solo fornendogli le regole del gioco e quindi facendolo giocare contro se stesso.

Pertanto, mentre la prima versione del sistema si fondava su un’enorme banca dati fornitagli dagli sviluppatori umani, la seconda necessita solo delle regole del gioco. Così i programmatori hanno segnato un grande avanzamento verso l’obiettivo di rendere l’IA quanto più indipendente possibile dall’input umano: AlphaGo Zero, infatti, ha “imparato” a giocare a Go simulando diverse partite contro se stesso, iniziando a giocare in modo completamente casuale[15].

I risultati ottenuti sono di gran lunga superiori a quelli precedenti, tant’è vero che AlphaGo Zero ha sconfitto AlphaGo 100-0. L’approccio utilizzato in AlphaGo Zero è una forma nuova di apprendimento per rinforzo: il sistema è composto da una rete neurale, che non conosce nulla del gioco, e da un potente algoritmo di ricerca, che rende possibile calibrare e aggiornare la rete in molteplici cicli di sfide contro se stesso che determinano ognuno un miglioramento delle performance di AlphaGo Zero. In questo modo il sistema non dipende affatto dall’uomo e non risente, quindi, delle limitazioni umane: impara a giocare da zero, appunto, “ispirandosi” solo a se stesso. Sono stati sufficienti tre giorni di partite contro se stesso per rendere capace AlphaGo Zero di sconfiggere il suo predecessore AlphaGo.

Dopo alcuni giorni e milioni di sfide a se stesso, AlphaGo Zero ha accumulato di fatto migliaia di anni di esperienza umana, ma ha anche scoperto delle conoscenze nuove, sviluppato strategie di gioco inedite e inventato nuove mosse.

Differenze tra apprendimento umano e artificiale

La psicologa Alison Gopnik, specializzata nello sviluppo infantile[16], ha recentemente proposto di sviluppare dei sistemi artificiali traendo ispirazione da come imparano i bambini[17]. Il suo lavoro ha messo in evidenza una differenza importante tra gli attuali paradigmi di IA e le dinamiche di apprendimento infantile. In particolare, le inferenze tramite cui i bambini conoscono il mondo sono di tipo causale, ossia centrate sulle relazioni di causa-effetto, mentre le inferenze dell’IA sono di tipo correlativo, centrate sulla relazione statistica tra diversi fattori. Pertanto, esiste una differenza importante tra l’apprendimento dei bambini e quello dell’IA. Il modo in cui i bambini apprendono il mondo è di tipo esplorativo e creativo: essi esplorano e “mettono mano” nel mondo, lo toccano materialmente, lo manipolano, interferiscono con esso e valutano le conseguenze delle proprie azioni.

In questo modo i bambini non si limitano a correlare tra loro dei “dati di addestramento”, secondo una logica top-down: essi tirano sempre fuori nuove informazioni dal mondo, e imparano a generalizzarle e organizzarle in categorie astratte, secondo una dinamica bottom-up. Perciò, il modo in cui l’uomo apprende e sviluppa la propria intelligenza è fondamentalmente diverso dal modo in cui l’IA, in particolare quella generativa dei grandi modelli linguistici, apprende e si sviluppa. Sostanzialmente, la capacità dell’IA di generalizzare le proprie “competenze” e apprendere al volo nuove informazioni è ancora molto limitata rispetto all’uomo[18].

IA specializzata: meglio ma diversamente

Allo stato attuale, i sistemi di IA sono “specializzati” o “ristretti”, il che implica che essi allo stesso tempo fanno meglio le stesse cose che facciamo noi in un determinato ambito e le fanno in modo diverso. L’esempio di AlphaGo sopra descritto è emblematico: nessun uomo può competere a Go con il software di DeepMind, il quale gioca molto meglio di noi pur usando una strategia di apprendimento e di gioco diversa dalla nostra. Nessuno di noi, infatti, impara a giocare a Go simulando centinaia di migliaia di partite contro se stesso, oppure memorizzando milioni di mosse. Piuttosto noi impariamo le regole del gioco e le utilizziamo come una sorta di cornice al fine di decidere volta per volta quale mossa sia la più appropriata e la più efficace. Tale scelta può essere basata non solo su quanto accaduto in precedenza nel gioco, ma anche sui possibili scenari futuri che siamo in grado di immaginare, ossia di simulare, oppure di intuire in modo non esplicito né tematizzato.

Quanto accade nel gioco di Go vale anche in molteplici altri settori in cui la capacità dell’IA di individuare dei pattern, ossia dei collegamenti, tra dati ed elaborarli al fine di raggiungere determinati obiettivi non ha eguali: le capacità computazionali dell’IA sono di gran lunga superiori a quelle umane, al punto da essere letteralmente sovrumane[19]. Tuttavia l’IA, almeno allo stato attuale, raggiunge una tale efficacia sovrumana nello svolgimento di compiti specifici seguendo strade non del tutto simili alle nostre: fa meglio le stesse cose che facciamo noi, ma in modo sostanzialmente diverso.

Mentre questo vale soprattutto per l’IA generativa, esistono altri approcci che tentano di percorrere strade più simili alle nostre. Per esempio, la cosiddetta IA ispirata alla biologia, in particolare quella neuromorfica[20], e l’IA embodied, ossia dotata di un corpo (non necessariamente fisico, ma eventualmente anche digitale)[21].

L’intelligenza artificiale ispirata alla biologia

Una strategia che potrebbe accelerare lo sviluppo di un’intelligenza e di una creatività artificiali simili a quelle umane è l’IA ispirata alla biologia, e più precisamente al cervello (la cosiddetta IA neuromorfica, o neuro-IA, o Brain-inspired AI).

Il punto di partenza di questo approccio è che l’intelligenza è un fenomeno biologico, ossia una caratteristica specifica degli organismi viventi. Di conseguenza, in senso molto generale, l’IA, il cui fine sin dall’origine è riprodurre operazioni considerate intelligenti, è necessariamente ispirata alla biologia, anche se essa può imitare o riprodurre i sistemi biologici a diversi livelli di dettaglio.

Più nello specifico, l’IA neuromorfica o ispirata al cervello è tale se compatibile con le attuali conoscenze neurobiologiche, ossia relative all’architettura e alle operazioni del nostro cervello. Va tenuto presente, però, che riferirsi al cervello come a un oggetto uniforme e omologo è necessariamente un’astrazione e una semplificazione, giacché esistono delle significative differenze, tra specie e tra individui, oltreché differenze tra livelli e aree del medesimo cervello. Questo, infatti, è un organo complesso con un’organizzazione a diversi livelli, comprese molecole, cellule, microcircuiti, macrocircuiti, e comportamenti[22] [23]. La rilevanza di questi livelli per lo sviluppo dell’IA neuromorfica dipende dalle sue specifiche finalità e applicazioni.

Storia e sviluppi dell’IA neuromorfica

Sul piano storico, agli albori della ricerca sull’IA, nei primi anni 50, gli unici sistemi noti in grado di compiere dei calcoli complessi erano i sistemi nervosi degli organismi biologici. Per tale motivo i ricercatori di IA hanno utilizzato con ottimi risultati la conoscenza relativa al cervello come fonte di ispirazione nel loro tentativo di sviluppare dei sistemi intelligenti. Questo vale soprattutto per i paradigmi di IA alternativi al cosiddetto approccio simbolico, prevalente nella fase iniziale della disciplina.

L’IA simbolica si focalizzava sulle funzioni cognitive e sugli aspetti logici dell’intelligenza, astraendo dai meccanismi alla base della loro implementazione nel cervello. Per contro, la ricerca sulle cosiddette reti neurali artificiali (Artificial Neural Networks, ANN) prese ispirazione proprio dai meccanismi del funzionamento cerebrale, inclusa la possibilità di elaborare l’informazione sulla base di molteplici unità semplici simili ai neuroni del cervello, e la loro attivazione di tipo digitale (on-off).

Significativamente, questo intreccio tra conoscenze relative al cervello e IA ha apportato benefici a entrambi i fronti, per esempio ispirando più approfondite conoscenze sulla computazione cerebrale e nuovi meccanismi per i modelli di reti neurali [24]. La collaborazione tra conoscenze relative al cervello (più nello specifico, le neuroscienze) e IA potrebbe permettere a quest’ultima di superare alcune delle sue attuali limitazioni, per esempio nella direzione di operazioni più marcatamente creative.

Nel contempo, le ricerche nel campo dell’IA potrebbero apportare ulteriori benefici alle neuroscienze, favorendo una comprensione più approfondita del cervello, il quale ancora presenta dei “vantaggi” rispetto all’IA, inclusa una maggiore capacità di generalizzazione (ossia di astrarre da un esempio specifico per inferire dei caratteri generali validi per una classe di fenomeni/oggetti), di apprendere a partire da un numero limitato di esempi, di adattarsi in modo immediato e flessibile (on the fly) a situazioni nuove, sviluppare nuove competenze senza distruggere quelle precedentemente apprese, oltreché, particolare niente affatto banale, un consumo di energia molto più basso.

Limiti e rischi dell’approccio bio-ispirato

Al netto di questi possibili vantaggi tecnici, ispirarsi al cervello per sviluppare l’IA è sempre una buona idea? In linea di principio, l’IA può ispirarsi direttamente e in modo dettagliato a un certo fenomeno biologico, oppure tentare di andare oltre gli esempi biologici di intelligenza per implementare dei meccanismi e delle “tipologie” di intelligenza che non sono presenti nei sistemi biologici, allargando quello che Sloman definiva lo “spazio delle menti possibili”, ad indicare che sono in linea di principio possibili diverse forme specifiche di intelligenza[25].

Inoltre, chiedere all’IA di imitare il cervello rischia di essere riduttivo e limitante, a seconda dei fini perseguiti, giacché l’IA può trarre giovamento dal seguire direzioni diverse dalla biologia, come già evidente nei risultati sovrumani ottenuti in diversi ambiti, per esempio giocare a Go. Infine, assumere il cervello come fonte privilegiata di ispirazione per l’ulteriore sviluppo dell’IA potrebbe presentare rischi come riprodurre le stesse limitazioni e gli stessi bias (ossia pregiudizi) del cervello nell’IA.

Pertanto, non è detto che tentare di rendere l’IA più simile a noi sia la strada migliore da percorrere, sia sul piano prettamente tecnico-operativo, sia sul piano sociale ed etico: tentare di dotare la macchina di capacità intelligenti e creative simili a quelle umane, ispirandosi a come l’uomo sviluppa e mette in opera intelligenza e creatività, è allo stesso tempo una strategia promettente e rischiosa, per cui è necessaria la collaborazione tra saperi tecnici e riflessione filosofica al fine di massimizzare i potenziali benefici e limitare i possibili rischi.

Ridefinire il concetto di creatività nell’era dell’IA

Che cosa significa che l’IA fa le stesse cose che facciamo noi ma per lo più in modo diverso? Alla luce di queste differenze, possiamo utilizzare gli stessi termini, per esempio creatività, sia per l’uomo sia per l’IA, oppure è il caso di descrivere quello che l’IA è in grado di fare con categorie diverse rispetto a noi? Questi interrogativi non hanno una risposta semplice. Da una parte le differenze tra uomo e IA sono tali da giustificare l’utilizzo di termini diversi per indicare ciò che essi fanno, per evitare di proiettare sull’IA le nostre caratteristiche assecondando la tendenza innata ad antropomorfizzare il mondo che ci circonda[26]. Usare termini diversi per descrivere ciò che facciamo noi e ciò che fa l’IA ci potrebbe aiutare a riconoscere in modo equilibrato le reali caratteristiche e potenzialità, sia nostre sia delle macchine. D’altra parte, dobbiamo evitare di interpretare il fatto che l’IA segua delle logiche di funzionamento e delle dinamiche di apprendimento diverse dalle nostre come motivo per ritenerla inferiore a noi o meno affascinante di noi, perché l’intelligenza è come uno spettro che ha diverse facce, tutte diversamente efficaci nel perseguire obiettivi specifici.

Seguendo l’approccio pragmatico suggerito da Alan Turing con il suo imitation game[27], se l’esecuzione di un certo compito da parte di un soggetto umano è sufficiente per qualificarlo come intelligente, lo stesso deve valere anche per un sistema artificiale. Se questo svolge il medesimo compito in modo diverso, allora è legittimo considerarlo diversamente intelligente rispetto all’uomo, piuttosto che meno o non affatto intelligente.

In conclusione, i più recenti sviluppi dell’IA rendono necessario ripensare il concetto di creatività, operando una sua estensione ad includere diversi livelli e diverse forme. Seguendo la classificazione di Demis Hassabis, esistono tre forme fondamentali di creatività: interpolazione, estrapolazione e creazione.

L’IA è senz’altro capace delle prime due, e (ancora) solo in parte della terza. Non c’è dubbio, tuttavia, che essa stessa sia creativa. Piuttosto che un’offesa alla nostra unicità o una minaccia alla nostra sicurezza, la creatività artificiale è un’occasione per trovare nuova ispirazione per la nostra stessa creatività. Oltreché per riscoprirne lo specifico valore, non in quanto siamo capaci di creare, che, come visto, non sfugge alla riproducibilità tecnologica, ma in quanto allo stesso tempo rende possibile e limita la nostra capacità di creare, ossia quell’intreccio di bisogni e aspirazioni personali che ancora ci rende diversi dall’IA, la quale, per contro, non avverte il bisogno di nulla e non aspira a nulla.

Note


[1] https://arxiv.org/html/2410.17218v1

[2] https://www.youtube.com/watch?v=d-bvsJWmqlc

[3] M.A. Boden. 2004. The Creative Mind: Myths and Mechanisms. Routledge.

[4] G. Marcus – E. Davis, Rebooting AI. Building Artificial Intelligence we can trust, Penguin Random House, New York 2019.

[5] https://www.science.org/doi/10.1126/science.adw5211

[6] https://arxiv.org/html/2410.17218v1

[7] https://arxiv.org/abs/2002.06177; https://www.iospress.com/catalog/books/compendium-of-neurosymbolic-artificial-intelligence

[8] C. Summerfield, Natural General Intelligence. How understanding the brain can help us build AI, Oxford University Press, Oxford 2022

[9] https://zenodo.org/records/13627804; https://www.nature.com/articles/s41598-024-70031-3

[10] https://hal.science/hal-04670576v1

[11] https://pressroom.unitn.it/comunicato-stampa/robot-intuitivi-e-grado-di-correggersi-da-soli

[12] https://deepmind.google/research/breakthroughs/alphago/

[13] https://www.nature.com/articles/nature16961

[14] https://en.wikipedia.org/wiki/Expert_system

[15] https://www.nature.com/articles/nature24270

[16] A. Gopnik, Il bambino filosofo. Come i bambini ci insegnano a dire la verità, amare e capire il senso della vita, Bollato Boringhieri, Torino 2023

[17] https://www.publicbooks.org/developing-ai-like-raising-kids/

[18] C. Summerfield, Natural General Intelligence, op. cit..

[19] N. Cristianini, Sovrumano. Oltre i limiti della nostra intelligenza, Il Mulino, Bologna 2025.

[20] Farisco, M., Baldassarre, G., Cartoni, E. et al. A method for the ethical analysis of brain-inspired AI. Artif Intell Rev 57, 133 (2024)

[21] G.Paolo, J. Gonzalez-Billandon, B. Kégl, Position: A Call for Embodied AI, in Proceedings of the 41st International Conference on Machine Learning, PMLR 235:39493-39508, 2024

[22] J.-P. Changeux, L’uomo neuronale. Mimesis, Milano 2024.

[23] https://direct.mit.edu/imag/article/doi/10.1162/imag_a_00137/120391/The-coming-decade-of-digital-brain-research-A

[24] https://www.cell.com/neuron/pdf/S0896-6273%2817%2930509-3.pdf

[25] A. Sloman, The structure of the space of possible minds, in S. Torrance (ed.), The Mind and the Machine: philosophical aspects of Artificial Intelligence, Ellis Horwood, London 1984, pp. 35-42.

[26] https://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/21507740.2020.1740350#abstract

[27] A. Turing, Computing Machinery and Intelligence, Mind, 1950: 59 (236), pp. 433–460.

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