approfondimento

AI governance: come i board guidano la trasformazione etica



Indirizzo copiato

L’AI governance definisce il nuovo equilibrio tra tecnologia, strategia e responsabilità: i consigli di amministrazione diventano i garanti di un’adozione etica e sostenibile dell’intelligenza artificiale, capace di coniugare innovazione e fiducia

Pubblicato il 15 ott 2025



ai-governance-agenda-digitale

La AI governance è diventata una questione di strategia aziendale e non più solo di tecnologia. L’introduzione dell’intelligenza artificiale nei processi organizzativi richiede una ridefinizione dei ruoli di vertice, una visione chiara del rischio e, soprattutto, una cultura etica capace di trasformare principi in pratiche. È questo il quadro delineato da Fabio Moioli, Leadership & AI Advisor di Spencer Stuart, nel corso del suo intervento alla ManageEngine User Conference 2025, dove ha ricostruito la responsabilità dei consigli di amministrazione nel governo dell’AI. L’approccio che propone non riguarda l’adozione di strumenti, ma la costruzione di un modello di leadership in grado di coniugare innovazione e fiducia.

AI governance come leva strategica

Per Moioli, il punto di partenza è chiaro: l’adozione dell’intelligenza artificiale non può essere relegata ai reparti tecnici, ma deve entrare nelle agende dei consigli di amministrazione. Essere un’azienda “AI powered” significa mettere i dati al centro, ma anche ridefinire la visione strategica complessiva. L’executive di Spencer Stuart ha ricordato come nel passaggio dal web all’e-commerce, alla fine degli anni Novanta, solo alcune imprese — come Amazon — abbiano davvero compreso che la tecnologia non è un accessorio operativo ma un elemento culturale. Lo stesso principio, oggi, vale per l’AI: non basta implementare modelli o piattaforme, serve un disegno strategico che colleghi obiettivi, processi e persone.

Il ruolo del CDA diventa quindi determinante. È l’organo chiamato a stabilire il livello di ambizione e la velocità con cui l’azienda intende muoversi nell’adozione dell’intelligenza artificiale. Moioli sottolinea che questa non è una decisione tecnica ma un atto di posizionamento competitivo: «Ogni organizzazione deve scegliere se essere innovatore, fast follower o conservatore. Non tutti devono correre allo stesso ritmo, ma tutti devono sapere qual è la propria postura strategica».

Le cinque responsabilità del board

Nella visione proposta da Moioli, il consiglio di amministrazione ha cinque aree di responsabilità chiave. La prima riguarda la definizione e la comunicazione della visione, che deve essere coerente con i valori aziendali e comprensibile per tutta l’organizzazione. La seconda è la determinazione della velocità di adozione dell’AI, cioè la capacità di bilanciare innovazione e rischio. La terza responsabilità è quella di costruire una vista integrata degli use case: «Molte aziende hanno decine di progetti di intelligenza artificiale, ma pochi hanno una visione unificata dei dati e dei risultati. Serve una prospettiva olistica, non la somma di iniziative isolate».

A queste si aggiungono la gestione dei rischi tecnologici e reputazionali — che spaziano dalla cybersecurity ai bias algoritmici — e lo sviluppo di cultura e competenze come motore del cambiamento. Le organizzazioni che affrontano l’AI solo come questione tecnologica, sostiene Moioli, finiscono per fallire proprio su questi due ultimi punti: la mancanza di cultura e la scarsa qualità dei dati.

Dalla teoria all’etica operativa

Tra le dimensioni centrali della AI governance, Moioli evidenzia la necessità di trasformare i principi etici in azioni concrete. Il framework che propone comprende sei pilastri: inclusività, privacy, trasparenza, accountability, equità e sicurezza. Tuttavia, la differenza non la fa l’adesione teorica a questi principi, ma la loro traduzione in procedure verificabili. «Discutere di etica è utile, ma se non si introducono checklist, pratiche e strumenti di controllo, rimane un esercizio filosofico» afferma.

Il passaggio dall’etica dichiarata all’etica implementata implica la definizione di processi di auditing interni, l’adozione di metriche di trasparenza e la costruzione di modelli di responsabilità diffusa. In questo senso, la tecnologia stessa può essere parte della soluzione: i tool di monitoraggio e le piattaforme di gestione dei dati possono diventare strumenti di garanzia etica se integrati in una governance solida.

Moioli ricorda inoltre che la responsabilità non è esclusiva dei reparti IT o legali. Anche i vertici aziendali devono garantire che le decisioni sui dati, sugli algoritmi e sulle applicazioni siano coerenti con i valori dichiarati. L’etica non è un filtro esterno, ma un principio di progettazione.

AI governance e modelli di rischio

Uno degli aspetti più rilevanti emersi nel suo intervento riguarda la gestione del rischio come leva di competitività. In un contesto in cui la fiducia degli stakeholder è determinante, la governance dell’AI deve essere in grado di anticipare le criticità e non solo reagire. «Il vero vantaggio competitivo nasce dalla capacità di gestire in modo trasparente il rischio» osserva Moioli.
Questo approccio implica la revisione dei modelli di reporting, l’integrazione di figure come il Chief AI Officer o il Chief Data Officer nei livelli decisionali e la definizione di standard condivisi per la valutazione degli impatti.

Il rischio reputazionale, in particolare, viene citato come il più sottovalutato. Se un algoritmo genera risultati percepiti come discriminatori o poco trasparenti, la conseguenza immediata è una perdita di fiducia. La AI governance, in questo senso, diventa un fattore abilitante della sostenibilità aziendale e della credibilità verso il mercato.

Dal quadro europeo alla cultura della responsabilità

Nel delineare l’orizzonte normativo, Moioli richiama l’AI Act europeo, che definisce l’intelligenza artificiale come una General Purpose Technology. Questa definizione implica un approccio trasversale, perché l’AI non è un settore, ma un’infrastruttura che attraversa tutti i processi produttivi e decisionali. Tuttavia, l’executive di Spencer Stuart invita a non ridurre la compliance alla sola dimensione legale: «Essere conformi non significa essere responsabili. La responsabilità deve precedere la normativa».

La cultura della responsabilità si traduce nella capacità di valutare le conseguenze delle scelte tecnologiche e di renderne conto pubblicamente. Per questo Moioli insiste sul ruolo educativo dei vertici aziendali: il consiglio di amministrazione non deve limitarsi a supervisionare, ma deve promuovere un approccio informato e critico all’uso dell’intelligenza artificiale in tutte le funzioni aziendali.

Competenze e fiducia: le fondamenta della governance

La fiducia emerge come filo conduttore di tutta la riflessione. È la misura con cui dipendenti, clienti e partner valutano la solidità delle scelte aziendali in materia di AI. Per costruirla servono competenze diffuse, un linguaggio comune tra business e tecnologia e una leadership disposta a imparare. Moioli racconta di come, nei colloqui con dirigenti di diversi settori, chieda spesso quali progetti siano in corso per migliorare la qualità dei dati. La risposta a questa domanda, afferma, è spesso il miglior indicatore della maturità di una cultura aziendale orientata all’intelligenza artificiale.

Ne deriva un modello di AI governance come architettura della fiducia: trasparente, verificabile, capace di collegare la dimensione tecnica con quella umana. Le aziende che riescono a costruire questo equilibrio tra visione strategica e cultura etica non solo riducono il rischio, ma aumentano la loro capacità di adattarsi ai cambiamenti.

La trasformazione guidata dall’intelligenza artificiale, secondo Moioli, non è un percorso esclusivamente tecnologico ma una prova di leadership collettiva. È nei board, più che nei laboratori, che si decide se l’AI sarà un fattore di crescita sostenibile o una fonte di vulnerabilità.

guest

0 Commenti
Più recenti
Più votati
Inline Feedback
Vedi tutti i commenti

Articoli correlati