La vera svolta della diplomazia climatica non è avvenuta alla Cop30 di Belém, ma un anno prima, alla COP29 di Baku. È lì che si è aperta la stagione del pragmatismo, quella in cui l’azione climatica internazionale ha finalmente abbandonato la retorica ideologica per tornare su basi industriali, tecnologiche ed economiche solide.
Con l’approvazione dell’Articolo 6 e il ridimensionamento realistico delle aspettative sui flussi finanziari globali, a Baku era stato sancito il passaggio da un modello redistributivo a un sistema competitivo, in cui tutti i Paesi sono chiamati a ridurre le proprie emissioni al minor costo marginale possibile.
Molti interpretarono allora quella scelta come un arretramento. In realtà era l’unica strada seria per garantire implementazione reale, e non solo ambizioni sulla carta.
Indice degli argomenti
Crediti di CO2 e svolta pragmatica da Baku a Belém
Con questo contesto alle spalle si è arrivati alla COP30 di Belém. Qui, il mondo ambientalista più integralista ha tentato di reimporre un’agenda anacronistica — phase-out immediati dalle fonti fossili, obiettivi unilaterali e dichiarazioni prive di fattibilità economica.
Ma quel tentativo è fallito, perché si scontra con la struttura reale delle economie e con la logica dei crediti di CO2 e dei mercati del carbonio che si stanno consolidando.
Realismo negoziale alla COP30 di Belém
Assenza dei grandi leader e minaccia geopolitica USA hanno fatto da sfondo al vertice. Belém è avvenuta in un contesto geopolitico in cui nessuno dei grandi leader ha voluto esporsi: l’assenza delle alte cariche di Stati Uniti, Cina e delle principali economie europee è stata il segnale più evidente che la COP non poteva trasformarsi in una conferenza fatta di proclami. Il baricentro si è spostato inevitabilmente sulla concretezza degli strumenti.
Gli Stati Uniti — che avevano già notificato la loro intenzione di uscire dal Paris Agreement — non erano presenti come partner attivo al tavolo dei negoziati. Questo ha innalzato il livello di cautela internazionale: nessuno voleva trasformare la COP in una passerella di annunci simbolici destinati a restare vuoti.
Di conseguenza, il dibattito si è orientato verso misure concrete, realistiche e governabili — non verso proclami sensazionalistici.
Non un fallimento: il massimo politicamente possibile. Contrariamente alla lettura dominante, la COP30 non è stata una sconfitta dell’azione climatica. Il testo finale ribadisce l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura ben al di sotto dei 2°C, auspicabilmente entro 1,5°C entro il 2100. In un contesto geopolitico così fragile, mantenere questo impegno è già un risultato di rilievo.
Ciò che non è entrato nel testo — il phase-out esplicito dalle fonti fossili — non è segno di arretramento, ma semplice riconoscimento della realtà: oggi le economie mondiali dipendono ancora in larga misura dai combustibili fossili, e una transizione troppo rapida o non governata genererebbe instabilità economica, aumento dei prezzi e rischi per la sicurezza energetica.
Non c’è ambizione climatica senza stabilità sociale ed economica.
Il mondo ambientalista più radicale può considerarlo un passo indietro; in realtà è un ritorno all’ambizione intelligente, quella che valuta costi, benefici, tempi e capacità industriali. Belém non è stata un passo indietro: è stata la conferma del realismo avviato a Baku.
Crediti di CO2 e nuova architettura dei mercati climatici
La vera protagonista di questa stagione è l’economia della transizione. L’Articolo 6 — con i suoi meccanismi di cooperazione e mercato — rappresenta la piattaforma più concreta mai costruita in sede COP per mobilitare investimenti privati e innovazione tecnologica.
Belém conferma che:
- il carbon pricing sarà uno degli strumenti centrali della decarbonizzazione globale;
- gli scambi di riduzioni certificate (ITMOs) possono accelerare enormemente l’abbattimento globale delle emissioni;
- la neutralità tecnologica non è più uno slogan, ma una condizione operativa: nessuna tecnologia è a priori esclusa, a patto che funzioni e costi meno delle alternative;
- il settore privato non è un corpo estraneo alla transizione, ma il suo motore industriale e finanziario.
È una svolta storica: la diplomazia climatica riconosce che gli obiettivi ambientali si raggiungono solo se si permette ai mercati di allocare risorse dove costano meno e rendono di più, anche grazie ai crediti di CO2.
In questo contesto di ritorno al pragmatismo, un altro segnale fondamentale è arrivato proprio all’alba della COP30: l’Unione Europea ha votato per la reintroduzione dei crediti internazionali di carbonio all’interno della propria strategia 2040 di decarbonizzazione.
Un cambio di linea storico: dopo anni di rigidità dogmatica, Bruxelles riconosce ufficialmente che la transizione non è realizzabile senza l’utilizzo dei crediti di CO2.
Quasi in parallelo, anche la Science Based Targets initiative (SBTi) — per anni riferimento globale dell’approccio “no offset” — ha timidamente aperto alla possibilità di utilizzare crediti di carbonio di alta qualità per gestire le emissioni residuali nella nuova bozza delle sue linee guida. È un segnale potentissimo: persino le istituzioni più caute stanno riconoscendo la realtà.
La verità è semplice: non esiste un piano credibile di decarbonizzazione — né nazionale, né aziendale — che possa fare a meno dei crediti internazionali di CO2.
Per una ragione strutturale: alcune emissioni non sono evitabili oggi, e probabilmente non lo saranno per diversi anni.
Gestirle significa necessariamente rivolgersi a chi, altrove, può ridurre o catturare lo stesso quantitativo di CO2 a un costo inferiore. Questo non è un limite del sistema: è il suo punto di forza.
Come i crediti di CO2 accelerano la transizione climatica
C’è poi un altro elemento spesso ignorato: i crediti di CO2 fanno guadagnare tempo.
Permettono di compensare subito emissioni che ancora non possono essere eliminate tecnologicamente, consentendo alle imprese dei Paesi più sviluppati di concentrare investimenti e risorse nella ricerca, sviluppo e scale-up delle tecnologie avanzate che serviranno per la fase successiva della decarbonizzazione (nucleare, CCS, idrogeno verde, elettrificazione industriale, combustibili sintetici).
Usarli subito e in modo massiccio non è una scorciatoia: è una strategia industriale.
I crediti generano flussi finanziari e orizzonti economici che rendono sostenibile l’investimento in tecnologie avanzate. Senza questa componente, la curva della decarbonizzazione sarebbe troppo lenta e troppo costosa.
Mercati dei crediti di CO2 tra Articolo 6 e boom 2025
A conferma di questa dinamica, nel corso del 2024 e del 2025 il numero di accordi bilaterali Art. 6.2 tra Paesi è aumentato quasi esponenzialmente. Sempre più governi siglano partnership per scambiare riduzioni di emissioni certificate, segno che i meccanismi dell’Articolo 6 stanno finalmente diventando operativi.
Belém non ha inventato nulla, ma ha dato ulteriore legittimità politica: oggi il mercato dei crediti di CO2 è più liquido, più trasparente e più affidabile di quanto sia mai stato.
Tutti gli indicatori puntano in un’unica direzione: il 2025 sarà l’anno dei record per i mercati dei crediti di CO2, sia volontari sia regolati.
I fondamentali ci sono tutti:
- regole più chiare, che riducono l’incertezza regolatoria;
- domanda crescente dalle imprese che puntano a targets climatici più ambiziosi;
- posizionamento delle istituzioni, che legittima politicamente questi strumenti;
- dinamica dei prezzi, che rende conveniente investire nella riduzione delle emissioni;
- necessità di colmare il gap emissivo degli NDC.
Il nuovo ruolo competitivo del Sud del mondo
Uno dei punti più innovativi di questa nuova fase riguarda il cosiddetto Sud del mondo. Nel vecchio schema UNFCCC, molti di questi Paesi erano semplicemente “destinatari” di finanziamenti dai Paesi industrializzati. Nel nuovo modello, invece, sono attori competitivi.
I motivi sono chiari:
- molti Paesi africani, asiatici e latinoamericani hanno baseline emissive relativamente basse;
- questo significa che possono generare riduzioni di emissioni a costi estremamente competitivi;
- nei primi anni del mercato globale dell’Articolo 6 saranno proprio loro ad attrarre la maggior parte dei capitali climatici.
Non per diritto, ma per efficienza economica.
Eppure, il ciclo non sarà statico. Col passare del tempo, man mano che queste economie avranno raccolto le “low-hanging fruits”, la decarbonizzazione richiederà tecnologie avanzate — CCS, idrogeno, infrastrutture elettriche, soluzioni industriali hard-to-abate — settori in cui i Paesi più sviluppati hanno competenze di ricerca e capacità industriale superiori.
A quel punto, anche le economie mature torneranno a essere poli di attrazione di investimenti e crediti climatici.
È un modello dinamico, competitivo, dalla logica meramente economica — non più ideologica.
Conclusione: realismo climatico e crediti di CO2
Baku ha aperto una nuova era. Belém ha dimostrato che questa era è irreversibile.
Dopo anni di ideologia, la transizione climatica entra nella fase adulta: si basa su tecnologia, mercati, neutralità tecnologica e strumenti economici funzionanti. L’obiettivo rimane ambizioso — 1,5°C se possibile — ma la strada per avvicinarlo deve essere percorribile.
La decarbonizzazione è una trasformazione industriale senza precedenti.
Non si fa con il volontarismo, ma con gli strumenti che funzionano. E i crediti di CO2, insieme ai mercati dell’Articolo 6, sono oggi tra questi strumenti: il cuore del realismo climatico che Belém ha confermato.







