giustizia

Perché il digitale non ha accelerato i processi civili italiani: storia di una riforma a metà

Siamo al quindicesimo anno della digitalizzazione della Giustizia. Il digitale ora almeno per le cause civili è in teoria diffuso. Ma i tempi dei processi non sono migliorati e continuano a scoraggiare gli investimenti in Italia. Un paradosso che si può spiegare analizzando il modo contorto in cui il digitale è entrato nella Giustizia italiana

Pubblicato il 02 Feb 2017

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L’inaugurazione dell’anno giudiziario 2017 è stata scandita dal consueto profluvio di dati statistici sull’andamento dei processi: su tutti basti ricordare il 108esimo posto in cui si colloca tristemente l’Italia nella classifica Doing Business su tempi e costi delle controversie commerciali. Si tratta di un dato che – per nulla mitigato dal richiamo della relazione del primo presidente della Corte di cassazione Giovanni Canzio all’alta qualità del servizio – giustifica certamente il duro intervento del PG di Milano Roberto Alfonso secondo cui “l’amministrazione della giustizia resta al collasso”. Al netto delle successive polemiche politiche e battaglie sindacali, pare opportuno evidenziare un dato ulteriore: l’introduzione del processo civile telematico (PCT) risale al 2001 (d.p.r. 123/2001) e la relativa obbligatorietà al 2014 (l. 228/2012 e d.l. 90/2014).

Le cause civili – con la grave eccezione di quelle incardinate presso il Giudice di pace ove i verbali vengono redatti ancora a mano – si celebrano dunque da anni attraverso un software gestionale che consente di monitorarne l’andamento e di effettuare il deposito telematico degli atti firmati digitalmente nonché il download di quelli avversari e dei provvedimenti del Giudice.

Il fatto che le relazioni sull’amministrazione della giustizia permangano fortemente negative induce allora ad interrogarsi circa l’effettivo impatto della digitalizzazione del processo sulle performance degli uffici giudiziari. E ciò anche in ragione di una strana parabola che ha portato in un primo tempo ad individuare nel PCT la panacea di ogni male, salvo spostare oggi il dibattito pubblico sui problemi di organico degli uffici giudiziari.

Un punto di contatto tra le due questioni è stato esplicitato dal presidente del Tribunale di Milano Roberto Bichi con una dichiarazione resa in occasione di un recente convegno di ItaliaDecide: i tempi di emissione dei decreti ingiuntivi si starebbero allungando a causa della carenza di personale amministrativo destinato all’apertura delle buste telematiche. Si veda anche il recente allarme di Anm: manca personale per il PCT.

Ed è qui che si misura il paradosso di una digitalizzazione a metà, che impone l’intervento manuale delle cancellerie per scaricare e verificare in modo sommario quanto pervenuto telematicamente da ogni avvocato, con la conseguenza di una tempistica assai incerta per la visibilità dei documenti nel fascicolo digitale.

Non si tratta peraltro dell’unica falla di un sistema accolto con freddezza nella prassi degli uffici giudiziari, laddove hanno fatto fin da subito la loro comparsa le cosiddette “copie cortesia”: l’avvocato è cioè chiamato ad effettuare entro i termini di legge il deposito telematico degli atti, dovendo poi provvedere anche a quello cartaceo in cancelleria nel nome di una leale collaborazione con il magistrato. Questo doppio binario costituisce tuttavia la rappresentazione più evidente del fallimento di un PCT attuato a macchia di leopardo e rimesso alla prassi dei singoli uffici giudiziari se non addirittura alla personale sensibilità del giudice.

E così, ad esempio, ha destato sconcerto il decreto 15 gennaio 2015 n. 535 della seconda sezione civile del Tribunale di Milano che, peraltro in composizione collegiale, ha applicato addirittura la sanzione prevista dall’art. 96 co. 3 c.p.c. per la lite temeraria in un caso di mancato deposito della copia cortesia poiché ciò avrebbe reso più gravoso l’esame delle difese ivi articolate. Il tentativo di elevare la cortesia a vero e proprio obbligo giuridico è proseguito con il d.l. 83/2015 che all’art. 19 demandava ad un successivo decreto del Ministero della giustizia l’adozione di “misure organizzative per l’acquisizione anche di copia cartacea degli atti depositati con modalità telematiche”; tentativo successivamente abbandonato in sede di conversione sulla scia delle proteste dell’avvocatura. A ciò ha fatto seguito il chiarimento reso dallo stesso Ministero della giustizia con circolare 23 ottobre 2015, che all’art. 4 co. 2 afferma “La messa a disposizione del giudice di tale copia, ad opera delle parti o degli ausiliari, costituisce soluzione o prassi organizzativa sovente adottata a livello locale e non può essere oggetto di statuizioni imperative, né, in generale, di eterodeterminazione: giova qui sottolineare soltanto che tale prassi, libera da qualsiasi vincolo di forma, non sostituisce né si aggiunge al deposito telematico, costituendo soltanto una modalità pratica di messa a disposizione del giudice di atti processuali trasposti su carta”.

Resta l’anomalia di una cortesia regolamentata in modo puntuale dai singoli tribunali assieme agli ordini degli avvocati; e così il protocollo del Tribunale di Milano del 31 marzo 2016 prevede ad esempio alla lett. B, par. 1, che “pur in assenza di un obbligo normativo, gli avvocati, all’esito del deposito telematico, potranno consegnare in cancellerie le copie cartacee degli atti di cui agli artt. 183 e 190 c.p.c., e dei correlati documenti, entro i due giorni successivi la scadenza dell’ultimo termine previsto”. Si tratta dunque di facoltà assistita dalla previsione di un vero e proprio termine, così come esplicitato da innumerevoli avvisi affissi alle porte degli studi dei giudici. Data l’assenza di un obbligo normativo i termini previsti dal protocollo non possono certamente essere assistiti da una sanzione formale: in via di prassi è però interesse dell’avvocato assicurarsi che il giudice possa apprezzare adeguatamente le proprie difese agevolandone ove possibile l’attività di lettura, nella consapevolezza che eventuali violazioni del protocollo potrebbero contribuire a pregiudicare il buon esito della causa.

La vicenda delle copie informali appare emblematica non soltanto per spiegare le ragioni del permanere di un doppio binario digitale-cartaceo, ma anche per porre in evidenza i problemi di metodo che affliggono in generale l’amministrazione della giustizia: nel 2001 prende lentamente avvio la digitalizzazione del processo; a distanza di ben tredici anni il PCT diviene finalmente obbligatorio; nel 2015 si registrano le prime resistenze con l’adozione di un provvedimento giudiziario che eleva la “cortesia” ad un vero e proprio obbligo normativo sanzionabile d’ufficio da parte del giudice; nello stesso anno si adottano atti normativi ondivaghi giungendo infine all’invio di una circolare ministeriale che evidenzia l’impossibilità di “statuizioni imperative” riconoscendo tuttavia l’esistenza di una prassi variegata; prassi che viene disciplinata minuziosamente in protocolli adottati dai singoli tribunali formalmente privi di carattere precettivo ma comunque vincolanti in via di fatto.

Per contro altre parti del PCT sono state prontamente implementate con interpretazioni giurisprudenziali che si sono avventurate in una sorta di neoformalismo digitale: è il caso delle conseguenze paradossali del mancato deposito telematico dell’attestazione di conformità prescritta dall’art. 557 c.p.c. secondo cui “Il creditore deve depositare nella cancelleria del tribunale competente per l’esecuzione la nota di iscrizione a ruolo, con copie conformi del titolo esecutivo, del precetto, dell’atto di pignoramento e della nota di trascrizione entro quindici giorni dalla consegna dell’atto di pignoramento. La conformità di tali copie è attestata dall’avvocato del creditore ai soli fini del presente articolo…Il pignoramento perde efficacia quando la nota di iscrizione a ruolo e le copie dell’atto di pignoramento, del titolo esecutivo e del precetto sono depositate oltre il termine di quindici giorni dalla consegna al creditore”. Il problema – oggi ridimensionato dalla previsione nei più comuni software gestionali di una check-list – riguarda il caso del legale che abbia depositato telematicamente e nei termini documentazione priva dell’attestazione di conformità (una mera autocertificazione redatta dallo stesso avvocato circa la corrispondenza della copia scansionata all’originale) salvo produrre in un secondo tempo gli originali degli atti che consentono di provarne l’esistenza e la piena corrispondenza. Cionondimeno l’interpretazione unanime è nel senso dell’inefficacia del pignoramento (cfr. Trib. Milano, sez. III, sent. 29 giugno 2016) con la conseguenza per il creditore di dover cominciare nuovamente l’azione esecutiva a partire dalla notifica del precetto: una mera irregolarità, peraltro sanata dal raggiungimento dello scopo dell’atto, determina cioè un dispendio di tempo e danaro per il creditore a tutto vantaggio del debitore.

La fatica che si avverte nel rileggere in rapida sequenza le vicende dell’ultima quindicina di anni di digitalizzazione del processo civile consente di comprendere le vere cause di un sistema largamente inefficiente. Ossia le troppe stratificazioni normative, con interpretazioni talvolta libere e prassi disomogenee.

E’ illusorio pensare che il PCT possa risolvere da solo gli infiniti problemi che affliggono l’amministrazione della giustizia, così come appare francamente difficile pensare che altrettanto possa fare un mero investimento di risorse per l’ampliamento dell’organico di magistrati e personale amministrativo.

Occorre invece interrogarsi sulle ragioni per cui un intervento di digitalizzazione del processo civile avviato nel lontano 2001 non possa ancora dirsi concluso nel 2017; e ciò in un contesto ormai globalizzato in cui l’attrattività degli investimenti dipende dalla capacità di rapido adattamento degli stati alle esigenze del mercato. Al dibattito sulla durata dei processi si dovrebbe allora sostituire quello relativo alla tempistica delle riforme, rispetto alle quali sembra troppo spesso mancare un obiettivo comune cui tendere.

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