La trasformazione digitale in Italia ed Europa non è soltanto un processo tecnico, ma una rivoluzione che tocca identità, relazioni e democrazia.
Come sottolinea il recente Rapporto dell’Eurispes, dal titolo “Il rapporto delle persone con il digitale: luci ed ombre di un fenomeno sociale”, i progressi sul piano tecnologico – reti ultra-broadband, 5G, Spid, Fascicolo sanitario elettronico – sono stati significativi, ma restano deboli le basi culturali ed educative che dovrebbero accompagnarli.
Ecco come il programma Ue per il decennio digitale 2030 può permettere di superare divari come la frattura generazionale digitale ed altre problematiche, attraverso un cambio di paradigma in grado di trasformare l’accesso in competenza.
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Programma Ue, il decennio digitale 2030
Il quadro che emerge è chiaro: l’alfabetizzazione digitale in Italia è rimasta frammentaria, spesso ridotta all’uso tecnico degli strumenti, senza un adeguato sviluppo delle competenze critiche e civiche.
Di conseguenza, milioni di cittadini, pur connessi, utilizzano la Rete in modo passivo, prevalentemente per intrattenimento, senza disporre degli strumenti per interpretare gli algoritmi, riconoscere manipolazioni informative o gestire in modo equilibrato la propria identità online.
Uno degli aspetti più rilevanti che emergono dal Rapporto è la frattura generazionale digitale, un divario che non si limita all’uso degli strumenti ma investe la percezione stessa della realtà.
Gli adulti cresciuti in un contesto analogico hanno costruito identità e relazioni in spazi fisici, scanditi da tempi lenti, lineari e narrativi. La socializzazione avveniva nella famiglia, nella scuola, nei quartieri, nelle associazioni: luoghi concreti in cui le relazioni si sedimentavano nel tempo e le identità si formavano attraverso esperienze prolungate, riflessive e relativamente stabili.
L’attesa, il silenzio, la continuità erano parte integrante della vita quotidiana, e rappresentavano un terreno fertile per lo sviluppo della memoria, della progettualità e della profondità emotiva.
I nativi digitali
I nativi digitali, al contrario, crescono in un ambiente iperconnesso, dominato da stimoli rapidi, comunicazioni frammentate e piattaforme che trasformano identità e relazioni in flussi costanti e reversibili.
La costruzione del sé non avviene più solo attraverso contesti fisici e familiari, ma si sposta su vetrine digitali – i profili social – dove l’immagine personale è sottoposta a un continuo processo di editing, approvazione e confronto con modelli idealizzati.
L’identità diventa plurima e instabile, distribuita tra diverse piattaforme, e più che narrata viene performata.
In questo scenario, la ricerca di approvazione attraverso like, follower e commenti assume un peso determinante sulla regolazione emotiva, fino a condizionare autostima e benessere psicologico.
Scandire il tempo nell’era digitale
Il tempo stesso è vissuto in modo diverso. Gli adulti analogici tendono a percepirlo come sequenziale, con fasi scandite da attese e transizioni, mentre i giovani digitali sperimentano una temporalità compressa, accelerata e frammentata.
Ogni interazione deve essere immediata, ogni contenuto aggiornato in tempo reale, pena la sensazione di esclusione o di perdita di valore.
Questa frattura non è soltanto tecnologica, ma cognitiva e simbolica. Muta il modo di pensare, di relazionarsi e di attribuire significato al mondo.
Gli adulti faticano infatti a comprendere il valore che i giovani attribuiscono ai profili digitali e alle interazioni mediate dagli schermi. I giovani, a loro volta, tendono a percepire la lentezza e la profondità degli adulti come segni di inadeguatezza o estraneità.
Ne deriva un dialogo intergenerazionale difficile, in cui strumenti e linguaggi sembrano appartenere a universi separati.
Il divario generazionale digitale crea disuguaglianza sociale e culturale
Il risultato è un divario che non si limita a ostacolare la trasmissione di conoscenze ed esperienze tra generazioni, ma che rischia di trasformarsi in un vero e proprio fattore di disuguaglianza sociale e culturale.
In un Paese come l’Italia, con un’età media tra le più alte d’Europa, questa frattura assume una portata politica e sociale di grande rilevanza, poiché mette in discussione i meccanismi stessi di coesione, rappresentanza e cittadinanza digitale.
Giovani e Over64 a confronto
Dati recenti mostrano che i giovani tra i 18 e i 24 anni sono i più coinvolti sul piano emotivo e relazionale: il 68,5% sente il bisogno di collegarsi frequentemente ed oltre il 50% dichiara di sentirsi meno solo grazie ai social. Tuttavia, il 49,7% percepisce una perdita di tempo e il 43% una sensazione di estraneità rispetto al mondo reale.
Al contrario, tra gli over 64, oltre il 70% non attribuisce ai social effetti rilevanti, né positivi né negativi. Questa divergenza non è solo tecnologica, ma anche cognitiva e simbolica: cambia radicalmente il modo di percepire il tempo, l’identità e le relazioni.
Nuove forme di vulnerabilità
Il Rapporto Eurispes segnala inoltre che, accanto alle nuove opportunità di connessione e automazione, emergono forme di vulnerabilità cognitive, psicologiche, sociali, culturali, tecniche ed organizzative che possono influenzare il benessere delle persone, la coesione sociale e la stabilità dei nostri sistemi democratici.
Si tratta di problemi che incidono sulla salute psicologica di giovani e adulti, alterando attenzione, relazioni e qualità della vita.
Secondo l’indagine riportata nel documento, il tempo medio online in Italia è di 6 ore e 40 minuti al giorno, di cui oltre 2 ore e 20 dedicate ai social. Il rischio è quello di una connessione continua che non garantisce maggiore profondità, ma alimenta stress e burnout digitale.
Buone pratiche per trasformare l’accesso in competenza
Il nodo centrale, ribadito da più parti, è l’urgenza di trasformare l’accesso in competenza.
Solo il 46% degli italiani possiede competenze digitali di base, e tra gli over 60 la percentuale scende sotto il 30%.
È dunque necessario un investimento strutturale in alfabetizzazione critica e inclusiva, che non si limiti alla tecnica ma sviluppi capacità cognitive, socio-emotive ed etiche.
Alcune buone pratiche già sperimentate potrebbero essere replicate su scala nazionale.
Tra queste si segnalano:
- i programmi di formazione intergenerazionale, nei quali i giovani tutor digitali affiancano adulti e anziani;
- gli sportelli di prossimità nei centri civici e nelle biblioteche, capaci di fornire assistenza personalizzata;
- i percorsi di formazione continua per lavoratori e piccole imprese, indispensabili per sostenere la competitività e contrastare l’obsolescenza delle competenze;
- le campagne pubbliche dedicate al benessere digitale, che promuovono un uso equilibrato e consapevole delle tecnologie;
- infine, l’inserimento organico dell’educazione digitale nei curricula scolastici fin dalla primaria, per formare nuove generazioni di cittadini consapevoli.
Serve un cambio di paradigma
L’obiettivo non può essere limitato a “connettere tutti”: ciò che serve è un cambio di paradigma, che porti il Paese a passare da un digitale imposto dall’esterno, vissuto come un insieme di strumenti e piattaforme a cui adattarsi, a un digitale consapevole e partecipato, in cui cittadini, scuole, famiglie, Istituzioni e imprese condividano responsabilità educative, sociali e culturali.
Un digitale imposto è quello in cui l’innovazione tecnologica corre più veloce rispetto alla capacità delle persone di comprenderla, generando un senso di dipendenza, estraneità o ansia da esclusione.
In questa prospettiva, l’utente è spesso ridotto a consumatore passivo di servizi e contenuti, senza reali strumenti per orientarsi criticamente.
Le conseguenze si riflettono sulla qualità della vita, sulla salute psicologica e persino sulla tenuta democratica, perché il dibattito pubblico finisce per svolgersi in spazi controllati da logiche algoritmiche e commerciali.
Un digitale consapevole e partecipato, invece, è quello in cui la tecnologia diventa parte integrante della cittadinanza, non più subita ma governata collettivamente.
Significa educare i giovani a distinguere tra informazione attendibile e manipolazione, sostenere le famiglie nel ruolo educativo, garantire agli adulti percorsi di aggiornamento continui e offrire agli anziani strumenti per restare inclusi.
Significa anche chiedere alle imprese di progettare piattaforme trasparenti, rispettose della privacy e non orientate allo sfruttamento delle fragilità cognitive degli utenti.
Infine significa che le Istituzioni devono farsi garanti di una cornice regolatoria chiara, capace di tutelare diritti fondamentali, ridurre i divari territoriali e generazionali e creare luoghi pubblici – fisici e digitali – dove la tecnologia possa essere discussa, compresa e utilizzata come strumento di coesione.
Il digitale come infrastruttura di cittadinanza
Solo in questo modo il digitale può diventare una vera infrastruttura di cittadinanza, capace non solo di accelerare la modernizzazione del Paese, ma anche di rafforzare la coesione sociale, promuovere inclusione e alimentare democrazia.
In definitiva, come sottolinea il Rapporto Eurispes, governare il digitale oggi significa non soltanto costruire reti e piattaforme, ma soprattutto proteggere l’essere umano nella sua interezza cognitiva, emotiva e relazionale.











