la proposta

Intelligenza artificiale, insegniamola ai bambini per farne cittadini migliori

Studi hanno dimostrato che il pensiero computazionale stimola le capacità di problem solving e di pensiero critico. I bambini dovrebbero quindi essere introdotti a questi concetti, fin dalla scuola primaria, anche per essere sensibilizzati ai temi etici relativi. Vediamo l’esempio della Finlandia

Pubblicato il 01 Ott 2019

Stefano Quintarelli

Imprenditore digitale, già parlamentare e ideatore di Spid nel 2012, Partner Fondo Rialto

intelligenza artificiale - deep learning

Imparare presto a conoscere gli impatti etici e sociali dell’intelligenza artificiale può aiutare i bambini a diventare creatori e sviluppatori più informati. 

E anche cittadini migliori. Più consapevoli all’interno di un sistema-paese che, gioco-forza, avrebbe le basi per sfruttare l’innovazione digitale per migliorare la qualità della vita e le condizioni sociali ed economiche della popolazione e delle imprese che operano sul territorio.

Questo vale per la conoscenza di tutto il digitale, ma a maggior ragione per l’intelligenza artificiale, che tanto impatto potrà avere su tutti gli ambiti della nostra società.

L’esempio del Governo finlandese

Un esempio virtuoso in tal senso viene dal governo finlandese, che ha individuato nell’Intelligenza Artificiale un trend di sviluppo importante per i prossimi anni e ha deciso di perseguirlo con determinazione, anche promuovendo l’imprenditorialità con specifici programmi e campagne.

In particolare, è stato varato un programma che si pone come obiettivo quello di spiegare i fondamentali dell’intelligenza artificiale all’1% della popolazione.

L’idea alla base del programma è che così facendo ogni finlandese avrà vicino qualche persona in grado di spiegare di che si tratta e in grado di inventare modi per sfruttare l’intelligenza artificiale per rendere migliori e più efficienti le attività che vengono realizzate. In ogni settore, dai dentisti ai calzaturifici passando per falegnamerie, raccolte di rifiuti e concerie di pelli di renna.

Parte di questo è un programma pilota per bambini dai 9 ai 14 anni, partito quest’anno, per insegnare loro le basi dell’IA. Il corso, sviluppato da Blakeley Payne, un assistente di ricerca laureato presso il MIT Media Lab, fa parte di un’iniziativa più ampia volta a rendere questi concetti parte integrante delle aule delle scuole medie. Include diverse attività interattive che aiutano gli studenti a scoprire come vengono sviluppati gli algoritmi e in che modo questi processi influenzano la vita delle persone.

Come spiega il Mit, ci sono tre motivi per introdurre i bambini all’AI.

Primo, un motivo economico: gli studi hanno dimostrato che l’esposizione dei bambini a concetti tecnici stimola le loro capacità di problem solving e di pensiero critico. Può aiutarli ad apprendere più rapidamente le abilità computazionali, sempre più necessarie per il lavoro e la vita.

In secondo luogo, c’è un aspetto sociale. Gli anni della scuola media, in particolare, sono fondamentali per la formazione e lo sviluppo dell’identità di un bambino. Insegnare alle ragazze l’AI può renderle più propense a studiarla in seguito o avere una carriera nella tecnologia (il gender gap è molto forte in quest’ambito, in Italia più che altrove). Imparare a confrontarsi con l’etica e gli impatti sociali della tecnologia nelle prime fasi può anche aiutare i bambini a diventare creatori e sviluppatori più consapevoli, nonché a cittadini più informati.

Infine, c’è il tema della vulnerabilità. I giovani possono essere ben sensibilizzati ai rischi etici associati all’AI (sorveglianza, profilazione di massa…) e quindi essere cittadini più consapevoli, quando si tratterà di fare scelte sulla futura adozione della tecnologia; su quanta e quali responsabilità cederle.

Come cambia il concetto di smartness

Il significato di cosa riteniamo essere una attività intelligente, infatti, cambia nel tempo e il futuro, si sa, è ancora tutto da scrivere. La Finlandia, per dire, sta ancora facendo i conti con le ripercussioni economiche seguite al crollo di Nokia, leader indiscusso del mercato dei produttori mobili fino all’avvento degli smartphone (chi avrebbe potuto prevederlo, all’inizio degli anni 2000?)

E ancora, mezzo secolo fa, chi sapeva fare una radice quadrata era considerato essere una persona intelligente. Oggi nessuno si sognerebbe di fare una radice quadrata a mano e se una persona non sa fare una radice quadrata non la consideriamo di certo poco intelligente.

La macchina è subentrata in alcune attività che erano tipiche dell’umano, lasciando all’umano attività cognitive di livello superiore.

Quando la macchina subentra all’uomo in una attività, le modalità con cui essa la svolge è soggetta a proprietà diverse.

Ho spiegato estesamente il concetto nel mio libro “Capitalismo Immateriale” (Bollati e Boringhieri), anche riprendendo e raffinando idee introdotte nei libri precedenti.

Dall’elaborazione umana all’intelligenza artificiale

In estrema sintesi si può dire che passando dall’elaborazione umana alla elaborazione digitale, si introduce una possibilità di scalabilità delle performance immensa (per quell’applicazione specifica), senza costi variabili, annullando vincoli di tempo e di spazio, aggiungendo una dimensione sempre digitalmente connessa ad attività che non lo erano.

Per molti anni l’informatica ci ha consentito di trattare digitalmente questioni algoritmiche deterministiche, ben formalizzate sottraendo tali questioni a quello che, in precedenza, era un dominio limitato all’intelligenza umana.

Un computer è sostanzialmente un oggetto che rende disponibili tre capacità: elaborazione, archiviazione e comunicazione (con umani o altri computer). Lo sviluppo dell’elettronica ha portato al raggiungimento di una massa critica in ciascuna di queste componenti: la legge di Moore ha portato un aumento enorme della capacità di elaborazione, la capacità di archiviazione è aumentata anch’essa in termini esponenziali (e continuerà a farlo anche quando raggiungeremo – tra brevissimo – la fine della legge di Moore) e la diffusione delle reti digitali interoperabili (Internet) ha aumentato esponenzialmente la capacità di comunicazione.

Grazie a queste capacità di calcolo possiamo applicare algoritmi estremamente intensivi a enormi quantità di dati raccolti grazie alle reti digitali. Questo avvento è ciò che rende oggi possibile ciò che trenta anni fa era poco più che teorico: l’Intelligenza artificiale.

Intelligenza artificiale, dobbiamo ancora inventare tutto

Con l’avvento dell’era dell’AI ed in particolare del Machine Learning, possiamo affrontare problemi che vanno oltre questioni algoritmiche deterministiche ben formalizzabili. Possiamo anche invadere un dominio che tradizionalmente (e per molti ancora oggi) è considerato tipico dell’intelligenza umana, ovvero i problemi di percezione e classificazione (su base probabilistica), con la possibilità usare le correlazioni riscontrate nei dati per fare predizioni.

Quando le macchine entrano in questo tipo di attività, lo fanno con il loro stile, ovvero con immensa possibilità di scalabilità delle performance per affrontare problemi specifici.

Se prima pensavamo ai computer come “fast idiot”, adesso dovremmo vederli come dei “rapide idiot savant” (gli idiot savant sono persone che presentano ritardi cognitivi gravi, ma con una qualche abilità particolare straordinaria in uno specifico dominio).

L’IA, dal mio punto di vista, è quindi un “nuovo” modo di fare software che ci consente di affrontare questioni non algoritmicamente deterministiche come abbiamo diffusamente fatto sin qui ma entrare in un dominio di percezione e classificazione. Non più output calcolati con precisione infinitesima ma predizioni con il loro livello di precisione e recupero.

Dobbiamo inventare ancora tutto.

Quando oggi affrontiamo una questione, è per certi versi banale capire se è possibile affrontarla in modo algoritmico procedurale, in che modo, modificando quale processo, usando quali dati, formalizzando quale conoscenza. Lo stesso dobbiamo imparare a farlo con queste nuove famiglie di algoritmi, che ci consentono di affrontare nuovi problemi applicativi.

Non dobbiamo averne paura. E’ tutto da costruire. E le questioni di percezione e classificazione non esauriscono l’intelligenza umana. E di certo la loro applicazione è specifica a determinati compiti e non generale ad un lavoro umano (salvo rarissimi casi). Sono macchine, ancora una volta, che aumentano la nostra intelligenza.

Intelligenza artificiale, cominciare a conoscerla da bambini

Il futuro è pieno di opportunità e dobbiamo prepararci a sfruttarle. L’esempio finlandese è virtuoso.

Anche in Italia faremmo bene ad iniziare ad esporre i bambini più giovani a questi concetti, gradualmente, fin dalla scuola primaria e nella scuola secondaria di primo grado. Gli studi hanno dimostrato che il pensiero computazionale stimola le loro capacità di problem solving e di pensiero critico.

Gli anni della scuola media sono molto importanti anche per fornire ai ragazzi strumenti per rafforzare le loro capacità di vivere nella società del XXI secolo.

I giovani sono più malleabili e impressionabili, e quindi in quella fascia di età sono maggiori i rischi etici che derivano dal monitoraggio del comportamento delle persone e dal suo utilizzo per progettare esperienze più coinvolgenti.

Può aiutarli a capire, valutare e governare il loro rapporto con la tecnologia, comprendendo quando sono loro ad usare la tecnologia e quando è la tecnologia ad usare loro.

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