Il lavoro bionico rappresenta un nuovo paradigma in cui intelligenza artificiale e competenze umane si intrecciano per ridefinire il mercato del lavoro. In questo scenario, agire in modo tempestivo è essenziale per trasformare le sfide in opportunità condivise.
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Lavoro bionico e rischio sistemico
Quando abbiamo iniziato a lavorare al rapporto “Il Lavoro Bionico” con l’Associazione Gianroberto Casaleggio, ci siamo posti una domanda semplice quanto urgente: cosa succede se l’intelligenza artificiale, invece che creare nuove opportunità, inizia a erodere stabilità economica, posti di lavoro e coesione sociale più velocemente di quanto possiamo adattarci?
Questa domanda ha guidato mesi di confronto con esperti del mondo economico, tecnologico, imprenditoriale, giuridico e anche due intelligenze artificiali, ChatGPT e Claude, che abbiamo coinvolto nella prima fase del progetto. Ne è nato uno studio che vuole stimolare riflessione e azione. Perché non si tratta di futuro remoto, ma di presente già in movimento.
Impatto economico dell’intelligenza artificiale sul lavoro
I numeri parlano chiaro. In Italia stimiamo che 1,68 milioni di posti di lavoro siano sostituibili da sistemi di intelligenza artificiale nei prossimi anni. In parallelo, il PIL potrebbe crescere fino all’8% annuo grazie alla produttività generata da queste tecnologie. Ma questa crescita non è automatica, né tanto meno equamente distribuita. Spotify, solo per citare un caso, ha licenziato migliaia di persone tra il 2023 e il 2024, mentre aumentava fatturato e valore in borsa. Il motivo? L’adozione sistemica dell’IA. Una dinamica che abbiamo osservato anche in molte altre big tech che durante il 2024 hanno licenziato 281 mila persone. È il mercato che vota, ma chi raccoglie i frutti e chi ne paga il prezzo?
Le tre categorie del lavoro nell’era dell’intelligenza artificiale
Nel rapporto abbiamo proposto un modello per leggere il lavoro che verrà. Lo abbiamo diviso in tre categorie: il lavoro umano puro, legato a empatia, creatività, cura; il lavoro bionico, dove la persona è affiancata da un’intelligenza artificiale in una logica di cooperazione; e il lavoro artificiale, dove tutto è delegato alla macchina e la presenza umana diventa opzionale. Non è una semplificazione accademica: è un tentativo di dare una mappa a una trasformazione che, per molti versi, non ha precedenti.
Il problema del disallineamento tra competenze disponibili e competenze richieste
Un elemento chiave che emerge dallo studio è che il problema non sarà (solo) la disoccupazione, ma il disallineamento. Ci mancano e ci mancheranno lavoratori, per effetto della demografia: ogni anno, fino al 2030, perderemo circa 100.000 unità nette tra pensionamenti e nuovi ingressi. Eppure, allo stesso tempo, le aziende non trovano profili adeguati. Il mismatch tra competenze disponibili e competenze richieste ha raggiunto in Italia quasi il 48% (persone che fanno un lavoro per il quale non hanno studiato). Un paradosso che, se non gestito, rischia di inceppare la macchina economica e alimentare tensioni sociali.
Le proposte per gestire l’impatto dell’intelligenza artificiale sul lavoro
Per questo abbiamo raccolto e strutturato anche una serie di proposte. Alcune sono già sul tavolo del dibattito pubblico, come la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario o la riforma del sistema educativo con maggiore focus su competenze digitali e tecnologiche. Altre sono più radicali, come l’introduzione di un “reddito di formazione” per chi deve riqualificarsi, o la tassazione dei profitti da automazione per finanziare fondi di transizione.
Una proposta su cui credo valga la pena insistere è il monitoraggio settimanale del rapporto tra PIL e occupazione per settore occupazionale. Troppo spesso le crisi si vedono solo a posteriori, quando i danni sono già evidenti. Con i dati disponibili oggi, possiamo fare molto di più: anticipare, intervenire in modo mirato, adattare le politiche in tempo reale.
Oltre l’economia: l’effetto culturale delle trasformazioni tecnologiche
Quello che spesso non viene colto fino in fondo è l’effetto culturale che queste trasformazioni tecnologiche generano. Cambiare il significato del lavoro, ridefinire i ruoli e le identità professionali, introdurre logiche di cooperazione uomo-macchina: tutto questo non è solo un problema economico, ma umano. Il lavoro non è mai stato solo una fonte di reddito: è appartenenza, status, riconoscimento, senso. Se non accompagniamo questa trasformazione con un nuovo patto culturale – che valorizzi la formazione, la flessibilità, ma anche il contributo sociale e relazionale del lavoro – rischiamo di generare smarrimento, paura, resistenza. L’innovazione non è solo questione di tecnologia, ma di senso condiviso.
Lavorare meno, lavorare tutti: il tempo come risorsa nella trasformazione del lavoro
Nel rapporto non ci siamo limitati a guardare avanti. Abbiamo anche guardato indietro. Le rivoluzioni industriali del passato ci insegnano che ogni grande trasformazione ha avuto un costo sociale iniziale, prima di generare nuovi equilibri. Ma stavolta il tempo è meno. L’intelligenza artificiale non ha bisogno di infrastrutture fisiche per diffondersi. Si installa, si connette, si attiva. Il tempo di reazione è ridotto a mesi, non a decenni. Ecco perché serve visione, non solo reazione.
La storia ci mostra anche che, per evitare crisi, spesso la soluzione è stata la redistribuzione del tempo di lavoro. Lavorare meno, ma lavorare tutti. Oggi l’AI ci offre questa opportunità, se sapremo coglierla. Possiamo migliorare la qualità della vita, liberare ore per formazione, cura, imprenditorialità. Ma dobbiamo decidere se vogliamo usarla per espandere il potenziale umano, o solo per comprimere i costi.
Geopolitica dell’intelligenza artificiale e ruolo dell’Europa
A tutto questo si aggiunge una riflessione fondamentale di ordine geopolitico. L’intelligenza artificiale non si sviluppa in un vuoto regolatorio globale: mentre l’Europa prova a definire standard etici e normativi, Stati Uniti e Cina corrono su un binario di accelerazione, alimentato da investimenti pubblici e privati di scala quasi illimitata. Questo crea una asimmetria di potere tecnologico che può riflettersi direttamente sulla capacità di ciascun Paese di generare valore, occupazione e autonomia strategica. Se non ci muoviamo ora per rafforzare il nostro ecosistema digitale – dalle infrastrutture all’education, dalle startup alle grandi imprese – rischiamo di dover scegliere in futuro tra essere colonizzati dai modelli altrui o restare irrilevanti. Governare l’intelligenza artificiale, allora, significa anche decidere quale ruolo l’Italia e l’Europa vogliono avere nel mondo che sta nascendo.
Non ho una risposta univoca su quale sarà l’esito di questa transizione. Nessuno ce l’ha. Ma sono convinto che il modo in cui decideremo di affrontarla farà la differenza tra un’innovazione inclusiva e una frattura sociale. Il lavoro bionico è una cornice per orientare questa scelta. Sta a noi, ora, riempirla di contenuti, politiche, alleanze.
Siamo ancora in tempo per governare il cambiamento. Ma non lo saremo per sempre.