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Devianza digitale: il crimine che piace, inquieta e si condivide



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La trasformazione digitale ha ridefinito il concetto di criminalità. Dai mercati illegali del dark web alla spettacolarizzazione sui social media, il crimine digitale è diventato fenomeno sociologico dalle molteplici dimensioni

Pubblicato il 21 mag 2025

Marino D'Amore

Docente di Sociologia generale presso Università degli Studi Niccolò Cusano



privacy e AI

Il digitale ha trasformato in modo radicale la società, ridisegnando le forme di interazione, le modalità comunicative e persino gli spazi nei quali si sviluppano i fenomeni devianti.

In questo contesto, parlare di “crimine digitale” non significa soltanto riferirsi a nuove forme di criminalità, come, ad esempio, il cybercrime, ma anche alla trasformazione della narrazione del crimine all’interno dell’infosfera digitale. La Rete, infatti, non è solo luogo di azione, ma anche di rappresentazione, costruzione simbolica, e, in alcuni casi, di radicalizzazione e legittimazione sociale delle condotte devianti.

Il rapporto tra crimine e digitale si attualizza nelle modalità di racconto dei singoli accadimenti, percepite e condivise nel web. In particolare, attraverso l’utilizzo dei social media, dei forum, dei blog, delle piattaforme di video-sharing e dei true crime podcast, avamposti e scenari protagonisti nella costruzione discorsiva e culturale del crimine.

La sociologia della devianza nell’era digitale

La sociologia della devianza, a partire dagli studi di Émile Durkheim, ha sempre cercato di comprendere le dinamiche attraverso cui una società definisce, regola e sanziona i comportamenti considerati devianti (Durkheim, 1895). Con l’avvento del digitale, tali dinamiche si complicano, poiché i confini tra ciò che è legale e ciò che è illegale, tra ciò che è deviante e ciò che è accettabile, si mitigano e tendono a farsi più fluidi (Bauman, 2006).

Howard Becker, nella sua celebre opera Outsiders, sosteneva che la devianza non fosse una qualità dell’atto in sé, ma il risultato di una definizione sociale: “deviant behavior is behavior that people so label” (Becker, 1963). Questa prospettiva è particolarmente utile per comprendere come, nei contesti digitali, le definizioni di devianza siano continuamente negoziate e riformulate da comunità online, influencer, opinionisti digitali e piattaforme. Un contributo fondamentale in tal senso proviene anche dalla teoria della costruzione sociale del crimine, che evidenzia come le rappresentazioni mediatiche del crimine influenzino la percezione pubblica, spesso più della realtà generalmente intesa (Raine, 2016). In Rete queste dinamiche si amplificano: l’estrema velocità di diffusione, la viralità dei contenuti e l’emozionalità delle narrazioni contribuiscono a modellare la figura del “criminale” e a trasformare il crimine in un prodotto culturale di consumo.

La digitalizzazione impone inoltre una riflessione sulla teoria delle routine activities (Cohen, 1955), che sottolinea come il crimine dipenda dalla convergenza tra un’offerta, una domanda e il deficit di un controllo efficace. In rete, questa teoria trova nuova applicazione: l’illusione dell’anonimato, la facilità di accesso, la vulnerabilità tecnologica e la parcellizzazione normativa rendono il contesto digitale un terreno fertile per l’emergere di nuove pratiche devianti.

Un’ulteriore prospettiva utile è offerta dalla tecnocriminologia, disciplina emergente che esplora le interazioni tra tecnologia, crimine e controllo sociale. Essa non solo analizza come la tecnologia favorisca o, specularmente, ostacoli il crimine, ma anche come modifichi la percezione dei concetti di responsabilità, sorveglianza, privacy e giustizia (Yar, 2023]

Le forme del crimine digitale tra anonimato, rete e deterritorializzazione

Nel mondo digitale, il crimine assume configurazioni inedite, che spaziano dal furto d’identità al cyberstalking, dalla pedopornografia online al ransomware, fino alle truffe finanziarie e alla diffusione di malware. Il concetto stesso di criminalità si espande, rompe gli argini di qualsiasi categorizzazione, includendo atti che prima della rivoluzione digitale non esistevano o non erano penalmente rilevanti.

Il termine cybercrime indica genericamente ogni attività criminale svolta attraverso internet o contro dispositivi informatici.

Esso si divide convenzionalmente in due categorie:

  • crimini informatici “puri”, come il cracking e gli attacchi ai sistemi informatici,
  • crimini “ibridi”, ossia attività criminali tradizionali contestualizzate nel digitale, come truffe, estorsioni o molestie.

La particolarità del cybercrime risiede nella sua deterritorializzazione: le azioni non si svolgono in uno spazio fisico identificabile, ma nell’immaterialità di un ambiente virtuale che rende complesso l’intervento delle autorità e il riconoscimento delle giurisdizioni competenti (Wall, 2007).

L’illusione dell’anonimato, come spiegato, e l’uso di tecnologie di cifratura avanzata (come le VPN o la crittografia end-to-end) rendono inoltre difficile identificare gli autori dei reati, ponendo problemi sia sul piano tecnico che etico-giuridico (Yar, 2023). Questi fattori alimentano un senso di impunità e riducono l’efficacia delle tradizionali forme di controllo sociale.

Il deep web e il dark web: nuove zone di devianza

Una parte significativa del crimine digitale si sviluppa all’interno del deep web e del dark web, ambienti internettiani non indicizzati dai motori di ricerca comuni e accessibili solo tramite software specifici, come Tor. Nel dark web proliferano mercati illegali (come il celebre Silk Road, smantellato nel 2013), dove si vendono droghe, armi, documenti falsi, dati personali trafugati e persino servizi di hacking su commissione. Qui si realizzano forme di devianza organizzata che richiedono una grande professionalizzazione, competenze tecniche avanzate e un’elevata capacità di mimetizzazione (Decary-Hetu & Giommoni, 2017). Tali ambienti rappresentano “spazi subculturali digitali, nei quali si sviluppano codici, linguaggi e valori alternativi a quelli dominanti, secondo la logica delle subculture devianti già individuata da Cohen (1955) o dalla scuola di Birmingham. L’identità dell’“hacker etico” o del “cyber-anarchico” si colloca spesso in una zona ibrida tra legalità e illegalità, delegittimando l’autorità dello Stato e, al contempo, promuovendo ideologie anti-sistema.

La digitalizzazione del crimine organizzato

Anche la criminalità organizzata ha saputo adattarsi e sfruttare il nuovo ecosistema digitale. Le mafie tradizionali, oltre a mantenere il controllo del territorio fisico, iniziano a colonizzare il cybercrime economico, nel riciclaggio online e nella manipolazione dei flussi informativi (Europol, 2023). La digitalizzazione ha consentito loro una maggiore capacità di penetrazione nei mercati globali e una forma di “invisibilità operativa” che sfugge al controllo e alle logiche tradizionali della repressione.

Inoltre, l’utilizzo di piattaforme di messaggistica criptata, criptovalute e server off-shore ha reso il contrasto alle attività illecite estremamente complesso, richiedendo un aggiornamento continuo da parte delle forze dell’ordine e attivando forme di sinergia internazionale strutturata e dedicata.

La narrazione del crimine nel web: spettacolarizzazione, estetizzazione e viralità

Il digitale non è solo un mezzo per la perpetrazione di azioni devianti, ma anche uno spazio in cui il crimine stesso viene raccontato, vetrinizzato e, talvolta, estetizzato.

Con l’avvento dei social media, il crimine ha acquisito nuove modalità di rappresentazione. In piattaforme come Facebook, X, Instagram, TikTok e YouTube, i crimini sono frequentemente condivisi in tempo reale, attraverso video, fotografie e post che documentano fatti di cronaca attraverso forme di giornalismo tradizionale citizen journalism. Il risultato è una spettacolarizzazione del crimine che non solo attrae l’attenzione del pubblico, ma crea una nuova forma di fruizione emotiva della violenza e della devianza.

La teoria della “mediatizzazione” (Hjarvard, 2008) suggerisce che i media non solo riflettono la realtà, ma ne diventano protagonisti, costruendo e definendo la nostra percezione di essa. La cronaca nera, in questo caso, non è più solo una sezione del giornale, ma una narrazione a sé stante, alimentata da contenuti virali che rendono il crimine finctional, uno spettacolo da fruire quotidianamente.

Il ruolo degli influencer e dei content creators nel raccontare storie di crimine, come nel caso di true crime podcasts e canali YouTube, è altrettanto significativo. La narrazione del crimine, in questo caso, non è solo informativa, ma assume i caratteri di un’emozionalità sensazionalista che sfrutta la curiosità morbosa del pubblico. Questi contenuti vengono consumati da milioni di utenti, generando una familiarizzazione con le dinamiche devianti che in passato erano riservate a contesti più “reclusi” o lontani dalla vita quotidiana.

L’estetizzazione del crimine: tra narrazione, sensazionalismo e estetica visiva

L’estetizzazione del crimine è un fenomeno che si manifesta soprattutto nei content visivi: foto, video, e meme. In alcuni casi, il crimine viene rappresentato come un atto eroico o romantico, come accade ad esempio nella cultura della gangster rap o nelle rappresentazioni di criminali come Robin Hood, dipinti come paladini dei più deboli. Questo tipo di rappresentazione, sebbene non sempre consapevole, contribuisce a creare un’immagine del crimine che sfida le convenzioni morali dominanti, trasformando l’atto deviato in qualcosa di negoziabile, affascinante e desiderabile.

Altri esempi di estetizzazione del crimine emergono nella produzione cinematografica e televisiva, dove la violenza e l’illegalità vengono rappresentate con una sorta di allure visiva, come nel caso delle serie televisive, dei film o dei videogiochi che trattano di mafia, criminalità organizzata, o vendetta (e.g. Breaking Bad, Narcos, Grand Theft Auto). Questi racconti, pur trattando temi violenti, sono fruibili in modo iperrealista e attraente, creando un tipo di identificazione culturale con il crimine che lo riabilita e ne permette la metabolizzazione sociale (McLuhan, 1964).

Il web non è solo un luogo dove il crimine viene raccontato, ma è anche un ambiente dove la viralità dei contenuti determina il modo in cui il crimine viene percepito. Le notizie sensazionali legate a crimini particolarmente violenti si diffondono rapidamente, alimentando il cosiddetto panic-mongering, ovvero la paura esagerata per fenomeni criminali che, spesso, non sono così diffusi come i media suggeriscono, in contraddizione con la teoria della coltivazione di Gerbner (Goode & Ben-Yehuda, 2009).

In questo contesto, le piattaforme digitali diventano il veicolo per una cultura delle emozioni, all’interno di un processo di drammatizzazione, che amplifica il senso di insicurezza collettiva. Il crimine, quindi, non è solo una realtà sociale, ma una performance emotiva collettiva, che coinvolge gli individui attraverso meccanismi di condivisione, commenti, discussioni e mobilitazioni online. Le persone non si limitano a consumare le notizie sul crimine, ma diventano parte di un circuito che, a sua volta, secondo dinamiche meccanicistiche, alimenta la percezione di una società sempre più violenta.

La sorveglianza digitale e i nuovi modelli di controllo sociale

Il crimine digitale non solo sfida i tradizionali modelli sociologici di devianza, ma solleva anche importanti interrogativi sul piano giuridico e normativo. Come si regolano i reati che avvengono in uno spazio virtuale e dove le leggi nazionali non sono sempre applicabili? Come si bilanciano i diritti di privacy e la necessità di protezione contro i crimini informatici? Questi sono solo alcuni degli interrogativi che le istituzioni si trovano ad affrontare.

La natura globalizzante della rete e la natura transnazionale di molte attività criminali hanno reso estremamente difficile l’applicazione delle leggi locali. La legislazione sulla criminalità informatica deve tenere conto di una giurisdizione mondiale, e spesso entra in conflitto con principi di sovranità nazionale e protezione dei diritti individuali (Fuchs, 2017). Molte delle normative esistenti sono datate o insufficienti a trattare i crimini che emergono nel contesto digitale.

Un esempio significativo è la legislazione sul cyberstalking o le cyber-truffe, che in molti paesi non sono disciplinate in modo chiaro o completo. La difficoltà di tracciare gli autori di reati informatici e l’assenza di una definizione universale di crimine online contribuiscono alla mancanza di uniformità nelle leggi (Kshetri, 2017). Inoltre, la protezione della privacy può entrare in conflitto con la necessità di garantire la sicurezza online, creando un delicato equilibrio tra libertà individuali e necessità collettive.

La risposta al crimine digitale è spesso ricorsa all’adozione di tecniche di sorveglianza avanzata, come il monitoraggio dei comportamenti online attraverso i big data, il riconoscimento facciale e l’analisi predittiva. Tuttavia, questi strumenti sollevano criticità legate al diritto alla privacy e alla libertà di espressione (Lyon, 2018). Le piattaforme digitali, spesso in collaborazione con le autorità statali, raccolgono e analizzano enormi quantità di dati sensibili per prevenire e reprimere i crimini, ma questo fenomeno porta con sé il rischio di una società del controllo che limita le libertà fondamentali.

Un altro aspetto da considerare è il “digital divide”: la disuguaglianza nell’accesso alle tecnologie e all’alfabetizzazione digitale può escludere grandi quantità di utenti dalla possibilità di proteggere se stessi da crimini informatici. Le politiche di prevenzione devono affrontare questa sfida, garantendo un’educazione digitale che aiuti i cittadini a riconoscere e proteggersi dai rischi sopracitati.

Molti governi e istituzioni internazionali stanno cercando di rafforzare le politiche di prevenzione e di contrasto. La cooperazione internazionale è fondamentale in un mondo always networked, le reti di collaborazione tra forze dell’ordine come Europol, Interpol, e il Centro Nazionale per la Cybersecurity, sono cruciali per affrontare il crimine digitale a livello globale.

Al livello locale, invece, una delle strategie più efficaci rimane la promozione di politiche educative e informative che sensibilizzino la popolazione sui rischi di internet e sulle buone pratiche di sicurezza (Wall 2007).

Conclusioni

Il crimine digitale rappresenta una delle sfide più complesse che dobbiamo affrontare, in quanto trasforma il concetto stesso di criminalità, calandolo all’interno di un contesto tecnologico e globale. La virtualizzazione dei crimini, la diffusione delle narrazioni devianti nei media digitali e la creazione di nuove forme di devianza simbolica rendono il crimine online un fenomeno non solo giuridico, ma anche culturale, sociale e politico.

La sociologia del crimine digitale deve quindi tener conto di dinamiche che vanno oltre la tradizionale divisione tra criminalità “organizzata” e “individuale”, esplorando le traiettorie che caratterizzano la digitalizzazione e ristrutturando le forme di controllo sociale e di regolamentazione. La sfida più grande è quella di garantire che le normative risultino efficaci e adatte a questo nuovo contesto, proteggendo i diritti fondamentali degli individui senza compromettere la sicurezza collettiva.

Infine, la narrativa digitale del crimine, con la sua estetizzazione, spettacolarizzazione e viralità, deve essere analizzata con un occhio critico e consapevole, in quanto essa contribuisce a costruire una cultura della devianza che spesso mitiga i confini tra il lecito e l’illecito. Il crimine, nel contesto digitale, non è più solo un atto da punire, ma un fenomeno culturale da comprendere, analizzare e, ove possibile, prevenire.

Bibliografia

Bauman Z, (2006) Modernità liquida, Bari: Laterza.

Becker H.S., (2017) Outsiders Studi di sociologia della devianza, Sesto San Giovanni: Meltemi.

Cohen, A. (1955). Delinquent Boys: The Culture of the Gang. Glencoe, IL: Free Press.

Decary-Hetu, D., & Giommoni, L. (2017). “Dark web and cybercrime: Evidence from a global analysis of criminal activity.” Crime Science, 6(1), 9–17.

Durkheim, É. (1895). Crime et santé sociale. Revue philosophique de la France et de l’étranger, 39, 518-523.

Europol. (2023). The Internet Organised Crime Threat Assessment (IOCTA) 2023. The Hague: Europol.

Fuchs, C. (2017). Social Media: A Critical Introduction. Los Angeles: Sage Publications.

Goode, E., & Ben-Yehuda, N. (2009). Moral Panics: The Social Construction of Deviance. Oxford: Wiley-Blackwell.

Hjarvard, S. (2008). The Mediatization of Society: A Theory of the Media as Agents of Social and Cultural Change. Nordicom Review, 29(2), 105–134.
Kshetri, N. (2010). The Global Cybercrime Industry. Springer.
Lyon, D. (2018). The Culture of Surveillance: Watching as a Way of Life. Cambridge: Polity Press.

McLuhan, M. (1964). Understanding Media: The Extensions of Man. New York: McGraw-Hill.

Raine A., (2016), L’anatomia della violenza. Le radici biologiche del crimine, Milano: Mondadori.

Wall, D. S. (2007). Cybercrime: The Transformation of Crime in the Information Age. Cambridge: Polity Press.

Yar, M. (2023). Cybercrime and Society. Los Angeles: Sage Publications.

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