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Didattica a distanza e protezione dati, quanti errori nelle indicazioni Miur

In un momento in cui le scuole avrebbero bisogno di indicazioni operative concrete che possano aiutarle nel pianificare le nuove attività di formazione a distanza nel rispetto della normativa sulla protezione dei dati, il Miur pubblica indicazioni operative superficiali e anche errate in alcuni passaggi. Eccole in dettaglio

Pubblicato il 19 Mar 2020

Matteo Navacci

Business Partner Net Patrol Italia e Co-fondatore Privacy Network

Gli errori e la superficialità che caratterizzano le indicazioni del Ministro dell’Istruzione in tema di protezione dei dati personali suonano come una beffa per gli istituti scolastici, in prima linea per garantire, anche a distanza e con i pochi mezzi a disposizione, la continuità didattica.

In questo periodo di emergenza da coronavirus, in cui studenti e insegnanti si trovano catapultati gioco forza nella didattica a distanza, non bisogna infatti sottovalutare le problematiche legate (anche) alla protezione dei dati personali dei ragazzi, per la maggior parte minorenni, e alla sicurezza dei sistemi informativi e dei dati trattati dalle scuole.

I diritti fondamentali degli studenti (in primis il diritto di ricevere un’istruzione) sono già compressi; subire un incidente di sicurezza, o violare la normativa privacy significherebbe reprimerli ulteriormente, con grave danno per tutta la collettività. Per questo motivo, è essenziale che gli enti scolastici facciano affidamento al proprio Responsabile per la protezione dei dati (“DPO”) per costruire un percorso di formazione a distanza (e telelavoro) che possa tutelare i diritti degli studenti, invece che porli ancora più a rischio.

Il Ministero dell’Istruzione sembra essere consapevole di queste tematiche e dell’importanza del rispetto della normativa per la protezione dei dati personali, anche in un momento del genere. In una recente nota, indicante alcune istruzioni operative per la formazione a distanza, il MIUR ha quindi inteso riportare anche alcune indicazioni proprio in merito alla privacy.

Per quanto ogni indicazione in tal senso sia sempre ben accetta, ritengo che il MIUR avrebbe potuto fare un lavoro migliore, data la complessità della materia ed i diritti in gioco.

Vediamo nel dettaglio tutte le indicazioni.

Consenso: sì o no?

Per prima cosa il MIUR ci tiene a precisare che: “[…] le istituzioni scolastiche non devono richiedere il consenso per effettuare il trattamento dei dati personali (già rilasciato al momento dell’iscrizione) connessi allo svolgimento del loro compito istituzionale, quale la didattica, sia pure in modalità “virtuale” e non nell’ambiente fisico della classe.”

Questa precisazione purtroppo è fuori luogo e parzialmente incorretta. È vero che le istituzioni scolastiche non sono tenute a richiedere il consenso agli studenti prima di effettuare il trattamento dei dati personali per ragioni di didattica; ma è assolutamente errato affermare che questi avrebbero dovuto rilasciarlo al momento dell’iscrizione. La condizione di liceità, cioè il fondamento giuridico che rende lecito un trattamento di dati personali, in questo caso non è il consenso. A seconda delle diverse fasi e finalità del trattamento, la corretta base giuridica deve essere individuata tra i) esecuzione del contratto, ii) adempiere ad un obbligo legale (es. rendicontazione verso la Regione), iii) esecuzione di un compito di interesse pubblico.

Anche nel caso in cui sia necessario trattare categorie particolari di dati personali (come informazioni relative allo stato di salute o convinzioni religiose), non è necessario chiedere il consenso. Questo perché il trattamento di questi dati, che spesso rientrano nelle categorie di disturbi specifici dell’apprendimento (DSA) o bisogni educativi speciali (BES) è legittimato direttamente dalla legge, che prescrive la predisposizione di piani educativi individualizzati (PEI) come previsto dalla legge n. 104/92, L. n. 328/2000 e D.Lgs. n. 66/2017.

In sostanza, il consenso nel contesto scolastico è marginale e rilevante solo per attività facoltative e accessorie, come possono essere comunicazioni promozionali o la diffusione di fotografie o video sul web.

La gaffe del MIUR è molto grave, poiché dimostra poca consapevolezza della normativa vigente e potrebbe portare interpretazioni distorte che potrebbero costare molto alle scuole in termini di efficienza.

Acquisire il consenso significa caricare il sistema di un onere burocratico non indifferente. Il consenso deve essere documentato e conservato in modo tale da dimostrarne l’acquisizione. In altre parole: copie cartacee e/o elettroniche di documenti che dovranno essere conservati per tutta la durata del rapporto con lo studente e anche oltre. Tutto questo, senza considerare che il consenso dovrebbe essere liberamente prestato, per specifiche finalità e liberamente revocabile dallo studente. Queste caratteristiche intrinseche del consenso chiaramente non potrebbero sussistere qualora l’ente scolastico decidesse di acquisire un consenso unitario per il trattamento dei dati nel contesto della didattica, che comprende al suo interno numerose finalità, anche molto eterogenee tra loro.

La speranza è che i DPO degli enti scolastici siano in grado di interpretare la normativa correttamente, senza tener conto dell’evidente errore del MIUR.

Trasparenza, liceità, correttezza

Il secondo punto del MIUR esprime alcuni concetti importanti: “Le istituzioni scolastiche sono invece tenute, qualora non lo abbiano già fatto, ad informare gli interessati del trattamento secondo quanto previsto dagli artt. 13 e 14 del Regolamento UE 2016/679 e a garantire che i dati personali siano trattati in modo lecito, corretto e trasparente, che siano raccolti per finalità determinate, esplicite e legittime, che siano trattati in modo non incompatibile con tali finalità […]”

I principi espressi dal MIUR sono direttamente mutuati dal Reg. UE 2016/679 (GDPR), che prescrive l’obbligo di rispettare i principi applicabili al trattamento di dati personali. La capacità di rispettare questi principi dovrà essere evidentemente traslata anche alle attività di formazione a distanza, che dovranno essere organizzate tenendo conto dei requisiti del GDPR. A tal proposito è giusto ricordare che sarà probabilmente necessario aggiornare le informative per studenti e docenti, comunicando tutte le informazioni necessarie sulle nuove attività di trattamento di dati personali che saranno realizzate. Allo stesso modo sarà necessario riportare le nuove attività nel Registro delle attività di trattamento, così da semplificare l’esame analitico delle singole attività.

Divieto di profilazione, diffusione e comunicazione…siamo sicuri?

Il MIUR prosegue poi: “[…] evitando qualsiasi forma di profilazione, nonché di diffusione e comunicazione dei dati personali raccolti a tal fine, che essi siano adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario rispetto alle finalità per cui sono trattati […]”

A ben vedere, la prima parte di questo passaggio sembra inopportuna. Il MIUR sembrerebbe vietare qualsiasi forma di profilazione, senza giustificarne le motivazioni.

La profilazione è descritta nel GDPR come “qualsiasi forma di trattamento automatizzato di dati personali consistente nell’utilizzo di tali dati personali per valutare determinati aspetti personali relativi a una persona fisica, in particolare per analizzare o prevedere aspetti riguardanti il rendimento professionale, la situazione economica, la salute, le preferenze personali, gli interessi, l’affidabilità, il comportamento, l’ubicazione o gli spostamenti di detta persona fisica”.

Benché sia un trattamento evidentemente invasivo e che spesso comporta diversi rischi per le persone, è ingiustificato vietarne l’esecuzione tout court. La profilazione in ambito scolastico non trova ancora molto spazio, ma è indubbiamente uno strumento che può portare grandi vantaggi agli istituti scolastici (specie se privati). Attraverso la correlazione tra diverse categorie di informazioni (utilizzando algoritmi di analytics) è possibile ottenere informazioni utili e utilizzabili per anticipare bisogni degli studenti e, in generale, compiere scelte informate.

Certamente, profilare soggetti vulnerabili come gli studenti può essere fatto soltanto dopo le dovute valutazioni del rischio e valutazioni d’impatto, facendo grande attenzione a garantire un adeguato livello di sicurezza e tutela dei diritti degli studenti. Vietare la profilazione in questo senso, peraltro senza alcuna contestualizzazione in merito alla didattica a distanza, sembra semplicemente irragionevole.

Allo stesso modo il MIUR sembrerebbe vietare qualsiasi diffusione o comunicazione di dati – anche qui senza contestualizzare e senza tenere in considerazione che la comunicazione di dati a diversi soggetti coinvolti è quasi sempre necessaria. D’altronde, c’è un motivo se il nome completo del GDPR è Regolamento (UE) 2016/679 relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati.

Che senso ha vietare la comunicazione dei dati?

Sicurezza dei dati e rischi

E ancora, il MIUR afferma che i dati dovranno essere “[…] trattati in maniera da garantire un’adeguata sicurezza dei dati personali, compresa la protezione, mediante misure tecniche e organizzative adeguate, da trattamenti non autorizzati o illeciti e dalla perdita, dalla distruzione o dal danno accidentali”.

Gli istituti scolastici sono tenuti a garantire un’adeguata sicurezza dei dati trattati, che in breve significa rispettare le principali buone prassi e raccomandazioni in materia di cyber sicurezza, oltre che adottare un vero e proprio sistema di gestione dei rischi cyber, che nel contesto della formazione a distanza e telelavoro aumentano esponenzialmente. Subire un incidente informatico (e conseguente violazione di dati personali) in un momento del genere potrebbe significare il blocco totale di tutte le attività a tempo indeterminato, con gravissime ed evidenti conseguenze per tutti (ente scolastico e studenti).

Purtroppo, da questo punto di vista la situazione italiana, specie nelle scuole è drammatica. Da un lato, nelle scuole non sono presenti persone competenti in materia di cybersicurezza. Dall’altro, le scuole sono spesso restie negli investimenti in tal senso – che molto spesso sono più di natura organizzativa che meramente tecnica.

Si ricorda, come forse avrebbe dovuto fare il MIUR, che l’AgID ha pubblicato nel 2017 una circolare recante Misure minime di sicurezza ICT per le pubbliche amministrazioni, ai sensi dell’art. 14-bis del Codice dell’Amministrazione Digitale (CAD). Benché tali misure minime debbano ritenersi cogenti, moltissime pubbliche amministrazioni, tra cui anche le scuole, a distanza di tre anni ancora non risultano essersi adeguate.

Per gli enti scolastici privati non si applica la circolare AgID, ma varrebbe comunque la pena farvi riferimento. In alternativa, è possibile adottare il Framework Nazionale di cybersicurezza, da cui la circolare AgID acquisisce molte indicazioni operative.

I responsabili del trattamento

Il MIUR prosegue poi parlando dei fornitori di servizi necessari per realizzare le attività di didattica a distanza, ricordando agli enti scolastici che sono tenuti a stipulare contratti o atti di individuazione del responsabile del trattamento ai sensi dell’articolo 28 del Regolamento, che per conto delle stesse tratta i dati personali necessari per l’attivazione della modalità didattica a distanza”.

L’indicazione, corretta, manca di un passaggio preliminare. Gli enti scolastici, così come chiunque decida di affidare una o più attività di trattamento a soggetti terzi esterni (qualificati come Responsabili del trattamento) sono tenuti, prima di tutto, a valutare le garanzie che questi offrono per soddisfare i requisiti del GDPR. L’art. 28 del Regolamento è chiarissimo. L’affidamento incauto a fornitori non in grado di prestare garanzie adeguate può comportare responsabilità diretta dell’ente scolastico per culpa in eligendo, anche in solido con il fornitore.

Affrettarsi a trovare dei fornitori che possano abilitare l’erogazione di servizi per la formazione a distanza, senza le adeguate valutazioni per ciò che riguarda il rispetto del GDPR e i rischi che ne derivano, potrebbe sembrare funzionale alle esigenze di breve termine, ma certamente non sostenibile nel lungo termine.

Obbligo di valutazione d’impatto?

Infine, il MIUR conclude ricordando agli enti scolastici che sono tenuti “a sottoporre i trattamenti dei dati personali coinvolti a valutazione di impatto ai sensi dell’articolo 35 del Regolamento”.

La valutazione d’impatto è un processo inteso a descrivere il trattamento, valutarne la necessità e la proporzionalità, nonché a contribuire a gestire i rischi per i diritti e le libertà delle persone fisiche derivanti dal trattamento di dati personali, valutando detti rischi e determinando le misure per affrontarli. In pratica, è il momento clou del sistema di gestione per la protezione dei dati.

La valutazione d’impatto, in alcuni casi, è obbligatoria. In particolare, il Regolamento europeo prescrive che sia obbligatorio sottoporre un trattamento a valutazione d’impatto quando questo può presentare un rischio elevato per diritti e libertà delle persone. Oltre a questo, deve ricordarsi il recente provvedimento dell’Autorità Garante (Provv. n. 467/2018) in cui sono indicate alcune attività di trattamento che per loro natura presentano un rischio elevato per le persone, e pertanto devono essere obbligatoriamente sottoposte a valutazione d’impatto. Fra i trattamenti elencati nel citato provvedimento troviamo i Trattamenti non occasionali di dati relativi a soggetti vulnerabili (minori, disabili, anziani, infermi di mente, pazienti, richiedenti asilo)”.

Il provvedimento indica le categorie di soggetti vulnerabili. Tale elencazione non deve ritenersi tassativa ed esaustiva, poiché a titolo esemplificativo anche i dipendenti rientrano nella nozione di soggetti vulnerabili (così come indicato dal Comitato Europeo per la protezione dei dati).

A ben vedere, l’obbligo di valutazione d’impatto, così come affermato dalla circolare del MIUR, potrebbe essere fuori luogo, per due motivi.

Primo, il Regolamento europeo prevede che la valutazione d’impatto debba essere effettuata sulla base di una valutazione del rischio, tenendo conto del contesto concreto. Allo stesso modo il provvedimento 467/2018 del Garante si basa su una valutazione “aprioristica” che dovrebbe comunque essere contestualizzata. Per agevolare la valutazione del rischio il Comitato europeo per la protezione dei dati (ex WP29) ha predisposto delle linee guida in materia di valutazione d’impatto, indicando nove indicatori di rischio. In presenza di almeno due di questi indicatori di rischio, deve ritenersi obbligatorio sottoporre il trattamento a valutazione d’impatto.

Il motivo è semplice: la valutazione d’impatto è un processo complesso che può richiedere un notevole investimento di risorse, e che pertanto non può essere reso obbligatorio a prescindere dal contesto concreto.

Secondariamente, l’art. 28 del Regolamento prevede che l’Autorità di controllo (in Italia il Garante) redige un elenco delle tipologie di trattamenti soggetti al requisito di valutazione d’impatto. Tale elenco è sottoposto alla valutazione del Comitato Europeo, per assicurarne la compatibilità con il GDPR e l’uniformità, nel rispetto del principio di coerenza.

Il MIUR potrebbe quindi non essere competente a disporre l’obbligo di sottoporre specifiche attività di trattamento a valutazione d’impatto.

Conclusioni

In conclusione, le indicazioni operative del MIUR risultano superficiali e anche errate in alcuni passaggi, di fatto poco più che una clausola di stile. In questo momento le scuole avrebbero bisogno di indicazioni operative concrete che possano aiutarle nel pianificare le nuove attività di formazione a distanza nel rispetto della normativa, anche per tramite delle Istituzioni. È evidente qualsiasi indicazione da parte del Ministero riveste particolare importanza, ed è un vero peccato sprecare queste occasioni con comunicati non adeguati ad affrontare i rischi a cui sia scuole che studenti sono soggetti in questo particolare momento storico.

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