Open data, provaci ancora Italia

Sfiorano quota 5 mila i dataset disponibili. Due recenti norme hanno sancito il diritto dei cittadini ad accedere a dati della Pa e a riutilizzarli, tramite il formato aperto. Ma ancora non basta. L’America e il Foia sono lontani. Ecco perché

Pubblicato il 07 Mar 2013

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Qual è lo stato dell’arte rispetto all’adozione e alla diffusione degli Open data in Italia? Quali le opportunità da cogliere e quali le prospettive? Una prima risposta arriva dall’ultima infografica pubblicata sul sito Dati.gov.it, secondo cui i dataset resi disponibili nel nostro Paese tra marzo 2012 e febbraio 2013 sono 4833. E’ un risultato soddisfacente? “E’ un dato contemporaneamente positivo è negativo – commenta Salvatore Marras, responsabile eGov e OpenGov di Formez PA – è lo stesso numero di dataset che la Gran Bretagna, forse la nazione più all’avanguardia in questo settore a livello europeo, aveva liberato già un anno fa. Quindi possiamo rilevare che siamo indietro di 12 mesi – continua – ma c’è anche da dire che cresciamo più velocemente di loro, con un aumento dei dati aperti disponibili pari al 10% mensile. E’ questione di tempo, ma li raggiungeremo”.

Altro aspetto positivo è che almeno l’80% dei dataset resi disponibili finora merita tre stelle nella scala di valutazione proposta Tim Berners Lee (dove il massimo è cinque), ad indicare una buona fruibilità delle informazioni pubblicate. Non mancano tuttavia le criticità. In primo luogo, “l’80% dei dataset è stato pubblicato da 12 istituzioni (Istat largamente in testa) sulle sessanta censite dal portale Dati.gov.it – spiega ancora Marras – se quindi vogliamo considerare tutti gli oltre 13mila enti pubblici presenti in Italia, allora il dato significativo è che oltre il 99% di essi non ha ancora pubblicato nulla”. Una situazione destinata a cambiare in virtù delle nuove normative e degli obblighi di pubblicazione che esse prevedono, ma che per ora evidenzia ampi margini di miglioramento. 



C’è anche un problema geografico. Se si guarda alla mappa (pubblicata su Dati.gov.it) che geolocalizza le PA impegnate nella pubblicazione di Open Data, si vede a colpo d’occhio che in materia di dati aperti il Sud del Paese “è un deserto, con la possibile eccezione del Comune di Bari, della Regione Puglia, della camera di commercio di Trapani e di un paio di comuni in Sardegna.” C’è insomma una “questione meridionale degli open data”, come l’ha definita Ernesto Belisario, responsabile legale di Agorà Digitale, che richiederebbe cure ed attenzioni da parte delle Istituzioni.

Di progressi fatti rispetto all’anno scorso parla anche Stefano De Capitani, Direttore generale del CSI-Piemonte, secondo il quale l’Open Data italiano è ormai uscito dalla fase pionieristica per entrare in una più matura e interessante. Il problema semmai risiede nel fatto che le diverse iniziative procedono in ordine sparso: “Le Amministrazioni pubbliche hanno messo in cantiere progetti di Open Data basati su logiche di produzione e distribuzione diverse, non omogenee – spiega – e questo ha un impatto negativo sia sul cittadino in cerca di informazioni, sia sul professionista o sull’imprenditore che vuole sfruttare questi dati per svolgere attività produttive.”

Servirebbe insomma una regia che agisse dall’alto e fosse capace, oltre che di coordinare gli sforzi, di imporre standard comuni a tutti gli attori. Altro tema è poi la mancata comprensione delle vere finalità degli Open Data, visto che “per molte PA la liberazione dei dati è una semplice questione di comunicazione, quando invece la finalità ultima è facilitare la vita al cittadino o all’impresa che utilizza questi dati per scopi di tipo economico, sociale o di qualunque altro genere”. Ma cosa serve affinché le Pubbliche Amministrazioni possano liberare i dati nel migliore dei modi? “Ciò che manca ora è una visione generale. Manca una strategia condivisa di pubblicazione delle informazioni che deve rispecchiarsi anche nella riorganizzazione della creazione dei documenti stessi, nella razionalizzazione del back-office”.

Dello stesso avviso è anche Giovanni Menduni, Coordinatore Area Programmazione, Sostenibilità e innovazione per il Comune di Firenze, secondo cui i dati devono essere “Born to be free, devono nascere liberi. Il fatto stesso che dovranno essere esposti e fruibili deve essere inerente alla loro stessa produzione”. L’Istituzione deve quindi dotarsi di una filiera produttiva rinnovata, capace di produrre dati univoci e aggiornati, che sappiano “offrire una rocciosa affidabilità nel caos del web”.

Un processo delicato e complesso che passa per la ristrutturazione tecnologica della Pubblica Amministrazione: “Il dipendente della PA ha oggi un rapporto con la tecnologia che è radicalmente diverso da quello che aveva dieci anni fa – spiega ancora Menduni – Il modo in cui usa telefonino e computer non ha nulla a che vedere con il passato. Eppure quando arriva in ufficio davanti al suo computer vede lo stesso desktop che aveva nel 2003”. Insomma, il mondo è cambiato ma nelle Istituzioni mancano ancora piattaforme e strumenti collaborativi che consentano la creazione di documenti condivisi e aggiornati in tempo reale, pronti per essere aperti al mondo.

E il problema non è solo tecnologico, ma anche culturale: secondo Menduni “i dati aperti ai cittadini sono motore di trasparenza e strumento per la lettura di una comunità”, oltre che risorsa preziosa intorno alla quale creare nuovo business. Bisogna quindi sbrigarsi a “tirarli fuori dalla riserva indiana” in cui ancora sono relegati e fare sì che diventino di suo comune, “che diventino uno standard al punto che la parola “open” in antitesi con “closed”, non sia più necessaria.

Dal punto di vista più strettamente normativo, secondo Ernesto Belisario, responsabile legale di Agorà Digitale, ciò che ancora manca è un vero Freedom of Informaction Act (Foia) italiano, ovvero il presupposto fondante per realizzare nella PA una trasparenza reale e imperniata sugli Open Data. La prima legislazione di questo tipo vede la luce negli Stati Uniti nel 1966. Il principio è semplice: tutte le informazioni detenute dalla pubblica amministrazione sono conoscibili da chiunque senza doverlo motivare, a meno che non sussistano motivi di segreto ad esempio militare oppure ragioni di riservatezza. Nel Mondo, sono oltre 80 i Paesi che si sono dotati di Foia, dall’India alla Croazia passando per Kenia e Tanzania. In Europa l’Italia è l’unica nazione a non averne uno. “Qui da noi la prima legislazione in tema di trasparenza risale al ’90 – spiega Belisario – ma non consentiva l’accesso a tutti i documenti, ma solo a quelli che riguardano direttamente il richiedente”.

Più di recente, il Parlamento ha approvato la legge 190 del 2012 contro la corruzione, e “tra i diversi decreti attuativi c’è anche quello che riordina la trasparenza – continua Belisario – approvato il 15 febbraio dal Governo e che viene annunciato come un Foia italiano”. Il decreto prevede una serie di obblighi per le Amministrazioni che devono pubblicare una grande quantità di dati, dal bilancio alla spesa, dal contratto alla dichiarazione patrimoniale dell’eletto alla carica politica. Ed è di per sé un bene, perché potrebbe smuovere tutti quegli enti che finora sono risultati manchevoli nella diffusione dei dati.

Ma non basta: “Ci sono le buone intenzioni ma non c’è un Foia – precisa infatti Belisario – al massimo c’è il diritto di accesso civico, in base al quale il cittadino ha il diritto di richiedere le informazioni che l’Amministrazione avrebbe dovuto pubblicare ma non ha pubblicato. Ma tutto questo vale solo per per quei documenti che l’ente aveva già l’obbligo di pubblicare – conclude – non per tutte le informazioni”.

Conferma Francesco Benussi, advisor per la digital policy del Miur. “Il Crescita 2.0 stabilisce che tutti i dati già pubblicati e che saranno pubblicati devono essere disponibili in formato aperto, per il riutilizzo. Sulla governance di questo processo vigilerà l’Agenzia per l’Italia Digitale, secondo il decreto”. “La legge 190 stabilisce invece il diritto civico di richiedere- senza bisogno di motivarne l’interesse- i dati che la Pa deve pubblicare”. Ma nessuna delle due leggi amplia il recinto dei dati da pubblicare; “restano gli stessi indicati dalla legge del 1990”, aggiunge Guido Scorza, avvocato esperto di policy Ict. “Ci si proverà con futuri interventi normativi a rendere tutto pubblicabile e riutilizzabile eccetto i dati protetti da privacy e segreti di Stato- come negli Usa”, dice Benussi.

Insomma, per avere un vero Freedom of Information Act dovremo attendere e veder cosa accadrà nella prossima legislatura.

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